Nel paesino di Follainville un postino assiste ai preparativi della festa annuale, vi partecipa con zelo e vuole, imitando un documentario che ha visto, consegnare la posta “all’americana”. La formula è: 2/3 di comicità d’osservazione, 1/3 di farsa. Sonoro, ma non parlato (con dialoghi quasi inaudibili perché registrati in presa diretta; sostituiti in modo spurio nell’edizione italiana). 1° film lungo di Tati dopo il cortometraggio a colori L’école des facteurs (1947) sullo stesso tema. Proiettato a Parigi per la prima volta l’11 maggio 1949, rivelò la nascita del secondo grande comico francese dopo Max Linder. Una delizia per spettatori di tutte le età. Girato a colori (col sistema sperimentale Thomsoncolor), ma distribuito in un bianco e nero virato, è stato riproposto nel 1994 nella versione originale.
Italiani brava gente. È il succo del film di Luchetti, scritto con Petraglia-Rulli. Fa perno su Claudio, muratore della periferia romana. Il suo mondo è la famiglia con l’adorata moglie, due figlioletti, la sorella, le domeniche sul litorale vicino a Roma dove vive il fratello. Quelli che lavorano sotto di lui vengono da paesi lontani, clandestini pronti a tutto per un salario. Uno di loro, rumeno, ubriaco, cade dall’impalcatura e muore. Il capo cantiere lo seppellisce all’insaputa di tutti, ma non di Claudio che sta zitto. La moglie muore partorendo il terzo figlio. Claudio non sa accettare la perdita se non riscattandola col denaro, bene supremo. Si mette in proprio ma è impreparato, gli vanno male il ricatto al suo ex capo, lo sfruttamento di clandestini, l’uso di materiali scadenti. Nel film ci sono solo personaggi che non sospettano l’esistenza di un codice morale o giuridico. Luchetti & Co. descrivono bene la loro buona coscienza. Poi risolvono la storia con un finale consolatorio (o cinico?). Tutto si accomoda, si può ricominciare. Conta solo la solidarietà della famiglia e degli amici. Tutti recitano bene, dall’irriconoscibile Zingaretti con capelli lunghi e sedia a rotelle agli stranieri. Anche Bova, in una parte insolita. E più di tutti l’eclettico Germano, premiato a Cannes ex aequo con Javier Bardem. Luce naturale nella fotografia di Claudio Collepiccolo. Guidato dal regista, il montaggio di Mirco Garrone lascia respirare storia e personaggi.
Da un romanzo di Noël Calef, sceneggiato da Malle, Roger Nimier e l’autore: ex combattente in Indocina, Julien uccide il suo padrone su istigazione della di lui moglie Florence, sua amante, ma rimane chiuso in ascensore. Nella stessa notte un giovane gli ruba l’auto e uccide due turisti. Brillante esordio di Malle con un film noir in cui più che l’azione, pur molto tesa, contano l’atmosfera (fotografia di H. Decaë, stupenda colonna musicale jazz di Miles Davis) e l’analisi dei sentimenti. D’antologia la camminata di J. Moreau nella notte parigina. Premio Delluc 1957.
Dall’opera omonima di Franz Kafka. Joseph K. È un giovane impiegato. Un giorno lo arrestano senza che lui sappia perché. Lo portano davanti a un tribunale che lo processa senza però comunicargli i capi d’accusa.
Saoirse è una bambina particolare, a 6 anni ancora non riesce a parlare e prova una strana e fortissima attrazione per il mare. Vive nella casa sul faro con il papà e il fratello maggiore Ben, spesso imbronciato e antipatico con la sorellina che ritiene responsabile della scomparsa dell’amata madre.
Durante i lavori di ristrutturazione del Louvre il sarcofago di un’antica mummia viene ritrovato intatto. Si manifestano subito strani fenomeni. Un’egittologa inglese, Glenda Spencer, riceve l’incarico di studiare la mummia. Che si risveglia e prende a muoversi all’interno del museo. Non contenta possiede il corpo di Lisa, una giovane donna. Alla polizia torna in mente il caso analogo degli anni Sessanta e l’ispettore Verlac segue il caso. Ci vorrà del tempo per ricondurre tutto alla normalità.
Disposta su 4 piani temporali – il Medioevo in Georgia; gli anni della rivoluzione bolscevica; quelli dello stalinismo in Russia; il presente a Parigi e in Georgia – dove, in un fitto e fluido intersecarsi, ritornano gli stessi attori-personaggi in panni diversi, questa ilare e nerissima tragicommedia ha per protagonisti gli uomini del potere (re, boiardi, rivoluzionari, uomini della nomenclatura comunista) che oggi si sono trasformati in mafiosi, fanatici nazionalisti, uomini d’affari, insomma briganti che saccheggiano legalmente le ricchezze del Paese. Iosseliani torna in patria, senza staccarsi da Parigi, per regolare i conti con il socialismo reale e, più in generale, con il tempo sporco della Storia. Nelle cadenze dolorose eppure piane e lievi di una parabola che attinge linfa dal realismo fantastico della letteratura russa (Bulgakov più che Gogol), questo suo 7° film è anche il 1° esplicitamente politico, dunque il suo 1° film violento. Il tema centrale è la crudeltà e l’insensatezza del potere, di qualsiasi potere. Cara da sempre al regista, l’idea della ripetitività o della circolarità regge la storia degli uomini (delle crudeltà umane), e lo stesso film. Passano i secoli, gli uomini non cambiano. In questa lezione di storia che è anche una lezione di cinema, conta il mondo, cioè lo stile di Iosseliani: leggerezza, calma, ironia tragica. Conta il suo sguardo. Non più di 200 inquadrature, piane e calcolatissime, senza primi piani, con pochi dialoghi e semplici, grande attenzione ai rumori, alla musica, ai canti. “La vera commedia è sempre fondata sul dolore” (O. Iosseliani). Gran Premio Speciale della giuria a Venezia 1996.
Una notte, in un bar, un amico confessa al regista israeliano Ari Folman un suo incubo ricorrente: sogna di essere inseguito da 26 cani inferociti. Ha la certezza del numero perchè, quando l’esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, evidentemente ritroso nell’uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l’arrivo dei soldati. I cani eliminati erano giustappunto 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d’armi dell’epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso.
Anne Rand ha divorziato da un marito ubriacone e vive in Estonia con una madre malata. La morte improvvisa del genitore la convince ad accettare un’offerta di lavoro a Parigi, dove dovrà prendersi cura di un’anziana signora. Convinta a partire dall’entusiasmo della figlia, Anne precipita in un mondo profondamente diverso dal suo, di cui prende le misure passeggiando ogni notte sola e scompagnata. L’incontro con Frida, fiera parigina ostinata a dimenticare le sue origini estoniane, non è dei migliori ma a convincerla a restare è Stéphane, gestore di una brasserie e amante della donna molti anni prima. La convivenza e la reciproca curiosità invitano presto al dialogo e alla comprensione. Tra un tè caldo e un croissant di pasticceria, Anne e Frida troveranno un sentimento amicale, che le spingerà a fare il punto della loro vita e a riprendere la vita. Ispirato dalla biografia materna e dalla passione per la capitale francese, Ilmar Raag alimenta la mythologie parigina, fiamma forte e viva nel buio della sala. Dichiarazione d’amore a Parigi e al cinema francese, da cui riprende l’idea della triangolazione come struttura relazionale che lega i percorsi affettivi e sentimentali dei protagonisti, A Lady in Paris è una storia di incontri, di sguardi, di impasse. Con pudore e discrezione Raag esplora il volto dei suoi personaggi rivelandone l’anima e definendone l’identità in funzione del loro rapporto col passato, coi sogni realizzati e quelli infranti. Guidato da un’irriducibile Jeanne Moreau, il regista estone passeggia per i boulevard chiarendoci il fascino esercitato da Parigi sugli stranieri e sui narratori come lui, che alla maniera di Anne impara a comprare un croissant in boulangerie e a snobbare il museo del Louvre, meta del turista e non di un vrai parisien. Posseduta dal mito di Parigi è pure la protagonista, emigrata e dolente con una vita faticosa e sfortunata alle spalle, che rispolvera la voce ‘analogica’ di Joe Dassin e si perde nelle sue note, ritrovandosi consapevole di sé e del suo desiderio dentro l’alba e davanti alla Torre Eiffel. A Parigi la Anne di Laine Mägi recupera attenzione e senso, innamorandosi finalmente di un uomo gentile e risvegliando da uno struggimento nostalgico l’anziana signora che pazientemente accudisce. Egoista e ossessionata da un ex amante per cui è ormai troppo agée, Frida vive sprofondata negli interni del suo appartamento borghese dove mette in scena solo se stessa e l’imitazione di una relazione, immemore del mondo che continua a esistere fuori dalla porta. Testimone di un amore sorgente tra Anne e il suo Stéphane, un empatico Patrick Pineau, deciderà per la vita, emergendo da ciò che era latente e calandosi nel presente e una stagione che con gli orrori può ancora promettere splendori. La bionda e delicata Anne è la trovata drammaturgica che rompe allora le illusioni senili e riporta aria fresca dentro uno spazio chiuso e una reclusione affettiva, inducendo Frida e Stéphane a scendere di nuovo in strada e a (re)incontrare la città dei loro sogni. Perché come sosteneva Humphrey Bogart: “avremo sempre Parigi”, una città che appare un perfetto altrove, promessa e già ricompensa.
Un ex ufficiale della Legione Straniera, Galoup, ricorda i gloriosi giorni vissuti al comando di un drappello di soldati nel Golfo di Gibuti. La sua esistenza felice, scandita dai ritmi della vita militare, viene sconvolta dall’arrivo di una promettente recluta, Sentain, che provoca nell’ufficiale un sentimento di gelosia. Per questo comincia a fare di tutto per metterlo in cattiva luce nei confronti del comandante che lui ammira ma dal quale non riceve conforto.
1966 Kaohsiung: Un tempo per l’amore. Chen incontra May che lavora nella sala del biliardo. I due fanno una partita insieme prima che lui parta per il servizio militare. Ottenuto un permesso torna per cercarla ma sembra essere scomparsa. 1911 Dadaocheng: Un tempo per la libertà. Il proprietario di una piantagione di tè vuole rilevare il contratto di una cortigiana. Ma il figlio la mette incinta e i rapporti con il padre si complicano. Ne conseguirà una partenza per il Giappone dove si trova un rivoluzionario cinese in esilio. 2005 Taipai: Un tempo per la giovinezza. Jing è una giovane cantante epilettica e con un difetto alla vista. Vive con la madre e la nonna e una giovane amante. Zhen lavora presso un fotografo e ha una compagna, Blue. Quando questa scopre che Zhen la tradisce con Jing, la situazione precipita. Hou Hsiao Sien è un grande maestro del cinema orientale che sa di realizzare film destinati a un pubblico ristretto. È però dotato di un assoluto controllo dell’inquadratura, tale da far sì che ogni suo film si avvicini sempre più a un’opera d’arte più visiva che narrativa. Questa volta si è mosso su un territorio inusuale per lui: una narrazione divisa in tre storie diverse che vedono però in scena la stessa coppia di attori che sono due star a Taiwan. Ne nasce un film dolente sulla im-possibilità dell’amore indipendentemente dalle epoche, con una riflessione sul potere di condizionamento, anche in questo campo apparantemente così privato, delle convenzioni sociali. La conclusione sembra essere che la libertà dei costumi non è neanch’essa la soluzione di tutti i problemi. Ne porta con sè solo di nuovi e forse ancor più complessi.
Da un libro di fantastiche miniature e disegni conservato nel Trinity College di Dublino, il “Libro di Kells”, nasce l’ispirazione di questo lavoro. Per l’eccellenza tecnica della sua realizzazione e la sua bellezza è considerato da molti studiosi una delle più importanti opere d’arte dell’epoca. Una nomination all’Oscar.
Il giovane Brendan vive nell’abbazia di Kells, un remoto avamposto medievale dove lavora per fortificare i muri dell’abbazia contro le scorrerie barbariche. Un giorno un famoso maestro illuminato arriva in queste terre straniere portando un antico ed incompleto libro traboccante di una segreta saggezza e di poteri. Per aiutare a completare il libro, Brendan deve superare le sue più profonde paure in un viaggio pericoloso che lo porterà al di fuori dei muri dell’abbazia e dentro alla foresta incantata, dove si nascondono magiche creature. Ma con i barbari in avvicinamento, riusciranno la determinazione e l’artistica visione di Brendan ad illuminare l’oscurità e a mostrare che l’illuminismo è la migliore fortificazione contro il male?
Su un carro trainato dai cavalli e con un gruppetto di attori, Parnassus porta in giro nella Londra di oggi uno spettacolo dove c’è uno specchio magico: chi lo attraversa esaudisce desideri segreti e si trova nei territori meravigliosi del proprio inconscio. Parnassus ha fatto un patto col diavolo, ottenendo l’immortalità in cambio dell’anima della figlia Valentina quando entrerà nel 16° anno di età. Fanno una scommessa: il primo che riuscirà a conquistare 5 anime, portandole dalla sua parte, avrà la vittoria. Il disperato Parnassus vince grazie all’arrivo del giovane Tony, dal passato oscuro. Dopo 4 settimane di riprese, Ledger, interprete di Tony, morì in tragiche circostanze. Il visionario regista lo sostituì, in sequenze mirate, con 3 attori famosi (Depp, Law, Farrell). Didascalia finale: “Un film di Heath Ledger e dei suoi amici”. 3° film di Gilliam scritto con Charles McKeown, è un’altra riflessione sul rapporto tra realtà e fantasia, ma anche una metafora sul “tema delle due vie: la via dell’uomo e quella del diavolo”. In entrambe, però, si notano forzature e indecisione, qualcosa di irrisolto. Costo: 30 milioni di dollari. Fotografia: Nicola Pecorini. Scene: Anastasia Masaro. Effetti (molto) speciali della londinese Pearless Camera Co. Spicca Waits che fa un diavolo travestito da Mr. Nick.
Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. È il caporedattore di ‘Elle’ e ha accusato un malore mentre era in auto con uno dei figli. Jean-Do scopre ora un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Il giornalista è totalmente paralizzato e ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise (ivi compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro che uscirà in Francia nel 1997 con il titolo che ora ha il film. Julian Schnabel ha assunto sulle sue spalle un incarico gravoso perché è vero che i film che portano sullo schermo le vicende di portatori di gravi handicap (soprattutto se ispirate a storie realmente accadute) commuovono facilmente la grande platea. È però anche vero che, con una tematica in parte vicina a questa abbiamo avuto nel 2004 Mare dentro di Alejandro Amenábar con l’interpretazione da premio di Javier Bardem e la fatica di Mathieu Amalric poteva risultare improba. Sia l’attore che il regista conseguono il grande risultato di offrirci una prova di grande umanità nel contesto di un film di elevato livello artistico. L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare (anche se faticosamente) la farfalla del pensiero. La voce interiore imprigionata di Jean-Do ci rivela al contempo l’orrore della condizione e l’indomabile spinta all’espressione di sé. Il giornalista pensa, desidera, soffre, grida dentro di sé. È un grido in cerca di una bocca che possa tradurlo in suoni e parole. Il battito delle ciglia (che ricorda non a caso il battito d’ali di una farfalla) si traduce in lettere e le lettere in parole. Schnabel e Amalric riescono a non fare retorica e al contempo a commuovere profondamente liberandosi dal falso pietismo che spesso accompagna queste storie ‘vere’. Raggiungono il risultato grazie a un attento lavoro di flasback che si integra alla perfezione con la descrizione di un corpo che da apertura al mondo si è trasformato in sepolcro. Tutto ciò senza lanciare proclami né a difesa strenua della vita né a favore dell’eutanasia. Il che, di questi tempi, è già un merito di per sé.
Il tedesco Frantz non è tornato dalla Grande Guerra. Lo piangono i genitori e la fidanzata Anna, fino a quando arriva il francese Adrien, che si presenta come amico di Frantz e viene accolto in casa con calore e affetto. In realtà Adrien è il soldato che uccise Frantz, ma Anna se ne innamora. Film che alterna il colore (tenue) a un bel BN (fotografia di Pascal Marti, premiata con un César) con la stessa fluida delicatezza (d’altri tempi) con cui affronta il tema dei vincitori e dei vinti in chiave pacifista, quello dell’assenza e della menzogna: con una mano leggera e potente, con una tensione da thriller. E Ozon disegna i personaggi con sublime profondità, sullo sfondo di paesaggi e ambientazioni urbane valorizzati dalle musiche di Philippe Rombi. Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer. Da una pièce (1930) di Maurice Rostand già portata sullo schermo da Lubitsch ( L’uomo che ho ucciso ).
Nemico pubblico n.1 inizia con l’uccisione, esecuzione, nel traffico parigino di Jacques Mesrine. Attorno alla sua figura, quella di un gangster mediatico, narcisista e violento, Richet costruisce un dittico concepito come due film autonomi, basato sull’autobiografia scritta in carcere dallo stesso Mesrine (che si legge mérin). Tornato dalla guerra d’Algeria Mesrine rifiuta il lavoro proposto dal padre e inizia un’ascesa senza precedenti nella malavita locale, tra rapine e sparatorie. Malgrado le suppliche della moglie spagnola che gli darà tre figli, diventa, tra gli anni ’60 e ’70, il gangster più ricercato di Francia. Costretto all’esilio in Canada, sarà arrestato e fuggirà in modo rocambolesco da una delle prigioni più dure dello stato. Il primo episodio, dalla messa in scena secca e nervosa, ha il pregio di rifarsi ai classici film d’azione degli anni ’70 all’americana, con una costruzione dei personaggi credibile e una struttura narrativa avvincente. Un Vincent Cassel con parecchi chili in più si cala nel ruolo in maniera camaleontica: più che adeguato, Cassel pare l’attore necessario alla parte di Mesrine. Gérard Depardieu e Cècile de France supportano un film completamente incentrato su una persona. Nemico pubblico n.1 – L’istinto di morte è infatti un ritratto, più che un poliziesco, che cerca nelle azioni e nei comportamenti di Mesrine una risposta alla violenza, una denuncia alla società, o il punto esatto in cui il suo percorso è divenuto una strada senza uscita. Ma sembrano più tanti piccoli cambiamenti a portare gradualmente la vita di Mesrine verso il baratro. Nemico pubblico è riuscito appunto perché non riesce a darci alcuna risposta. Senza mitizzarlo né demonizzarlo, Richet non nasconde una profonda fascinazione per il personaggio. E in un’adeguazione del punto di vista, il film, come lo spettatore, cerca di capire qualcosa di una persona che ha suscitato fiumi d’inchiostro oltre che di sangue. Mesrine però fugge sempre, dalle prigioni come dallo schermo.
Seconda parte della biografia di Jacques Mesrine, il gangster più ricercato della storia di Francia. Dopo la vertiginosa ascesa nel crimine e nella violenza, Mesrine torna a Parigi e diventato ormai leggenda, intraprende una guerra mediatica e reale con la polizia. Evade due volte di prigione, gioca al gatto e il topo con il commissario Broussard al punto da brindare con lo champagne durante uno storico arresto. Cosciente fino al ridicolo del suo potere esercitato sui media e sulla società, il secondo Mesrine è un personaggio ai limiti del grottesco, eccessivo, a volte fuori dalle righe. Il mito creato sembra sfuggirgli dalle mani, fino a prendere il sopravvento sull’individuo. La leggenda di Jacques “Jacko” Mesrine termina, o inizia, col suo assassinio da parte della polizia a Porte de Clignancourt il 2 novembre 1979. Diverso dal primo episodio, Nemico pubblico n.1 seconda parte, è più forte, e sembra affrontare la vicenda da un altro punto di vista. Senza soffermarsi sulla trama (condensata) e con la totale messa in ombra degli altri personaggi da parte di Vincent Cassel, il film di Richet è una corsa rocambolesca tra rapine, inseguimenti e sparatorie. Ludivine Sagnier e Mathieu Amalric supportano il ruolo di Cassel senza mai invadere la scena. Con diversi richiami a Scarface di De Palma, Nemico pubblico è il racconto di un criminale che ha imboccato una strada in picchiata e senza uscita. Velatamente autoironico, a una domanda sulla vecchiaia, Mesrine risponde che non vivrà abbastanza per vederla. Richet mette allora in scena un uomo intrappolato nella caricatura del suo stesso personaggio, in parte compiaciuto, in parte colpevolmente cieco di fronte alla piega degli eventi. In una produzione più sottile del primo episodio ma meno meditata, il regista vincitore di un César, fa dello spettacolo la sua carta vincente. E non a caso, per la storia di un personaggio in cui è difficile distinguere la realtà dal mito. Nervoso e tragico, Nemico Pubblico lascia lo spettatore con il fiato sospeso fino a una sequenza finale da antologia.
In piena preistoria due tribù si contendono il segreto del fuoco, che può conferire la superiorità all’una o all’altra. La sopravvivenza è messa in pericolo dagli elementi, dalle fiere, dai nemici, ma l’istinto e la primitiva intelligenza avranno la meglio. Film ambizioso, splendidamente fotografato, nel quale Annaud sfugge abilmente alle trappole (il ridicolo innanzitutto) che una tale ambientazione poteva creare.
Rio de Janeiro, dagli anni ’60 agli ’80. La favela di Cidade de Deus diventa il palcoscenico delle storie parallele di Buscapé e Dadinho. Entrambi tredicenni, sono però mossi da ambizioni diversissime: il primo vorrebbe diventare fotografo, il secondo il più temuto criminale della città. Se Buscapé trova molti ostacoli nella realizzazione dei propri sogni, Dadinho diventa rapidamente padrone del quartiere e del narcotraffico con lo pseudonimo di Zè Pequeno. La morte del suo braccio destro Bené e la violenza perpetrata ai danni della fidanzata del mite Galinha innescheranno una guerra tra bande dall’esito tragico. Tratto dall’omonimo (e interessante) romanzo di Paulo Lins, City of God è un esempio da manuale di film furbo. Con l’aria di volere essere il più possibile aderente alla realtà Meirelles confeziona un crime – movie efficace quanto rozzo, la cui violenza sensazionalistica si sposa a un qualunquismo di discreta protervia. Non è un caso che a produrre sia il sopravvalutato Walter Salles di Central do Brasil: siamo di fronte al classico titolo da esportazione, pensato per i festival e per le platee con velleità politico – sociali. Ma di autentico, a parte un notevole senso del ritmo e qualche bella soluzione di regia, c’è poco. Azzeccati gli interpreti, rigorosamente non professionisti.
Nel 1962, quando gli accordi di Evian mettono fine alla guerra d’Algeria, nel liceo di una cittadina francese del Sud-ovest arriva il pied noir Henri (Gorny) che col suo oltranzismo suscita le ire di Maïté (Bouchez), figlia di una insegnante comunista che pure ne è attratta, ma anche la gelosia di Serge (Rideau), figlio di contadini italiani immigrati, e il turbamento di François (Morel), il più bravo della classe, che sta scoprendo la propria omosessualità. Il bel film di Téchiné appartiene a una serie di 9 film per la TV – “Tous les garçons et les filles de leur âge” – tra cui fu il più elogiato insieme con L’Eau froide di Assayas. Specialmente nella 1ª parte i rapporti, i conflitti, gli amori fra i quattro personaggi principali sono descritti con tenerezza, leggerezza, credibilità e un affetto che nasce probabilmente dalla nostalgia e dalla memoria. È girato in una regione che il regista conosce bene e che restituisce in immagini suggestive, quasi a far da controcanto idillico agli orrori di una guerra lontana, ma ancora incombente, e al groviglio dei conflitti psicologici. 3 premi César: film, regia, sceneggiatura.
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