Film in 3 episodi. “Il filo pericoloso delle cose” (scritto da Tonino Guerra – 29′). Un uomo litiga con la compagna e fa l’amore con una vicina di casa. Le due donne s’incontrano nude sulla spiaggia. Imbarazzante recupero di cascami anni ’60: “un pallido catalogo turistico di luoghi antonioniani” (A. Pezzotta). Induce a una domanda etica: c’è stata a monte una speculazione o una manipolazione a spese di un novantenne e del suo passato? Girato, si dice, nel 2002. “Equilibrium” (scritto da Soderbergh – 27′). Un uomo racconta i suoi sogni erotici a uno psicanalista distratto e guardone. Ma è tutto un sogno. Prolisso e pretenzioso, un giochino fuori tema, frettolosamente messo in immagini. Divertente. E allora? “La mano” (Scritto da Kar-wai – 42′). Un sarto s’innamora di una prostituta, sua cliente, e continua ad amarla in silenzio per anni. Quasi una protesi di 2046 : linguaggio, atmosfere, attori, ambienti, meccanismo narrativo sono i medesimi. Con masturbazione iniziale e finale. Per entrambi i film, il sospetto di manierismo autoriale è legittimo. Ha il vantaggio della breve durata.
Giuseppe Tornatore ha collaborato col Maestro – definizione per una volta appropriata – in un arco temporale che va da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), frequentandolo per circa trent’anni. Nel 2018 ha scritto “Ennio. Un maestro” (Harper Collins), intervista fluviale e conversazione franca, a trecentosessanta gradi: in Ennio ne riprende argomenti, andamento cronologico e tono disteso, modesto, autocritico con cui Morricone si era concesso alle sue domande. Attorno a lui, nel film, una schiera di musicisti, registi, colleghi ed esperti portano testimonianze rilevanti e inerenti una carriera straordinaria, che supera il concetto di prolifico: centinaia le opere firmate, da Il federale (1961) all’unico Oscar vinto per una colonna sonora, The Hateful Eight nel 2016, a 87 anni.
Un’unica lunga operazione antidroga, che inizia con la cattura di un gruppo di corrieri portatori di pacchetti di cocaina dentro il proprio corpo e mira ad arrivare fino alla cupola del narcotraffico. Tutto è visto attraverso le azioni di Lei, un funzionario di polizia sveglio e totalmente dedito alla causa (come il resto del suo team), e attraverso il rapporto che sviluppa con Ming, trafficante pentito che decide di fare il doppio gioco per la polizia tradendo i suoi sodali. L’ultimo film di Johnnie To è uno dei più rigorosi e obbedienti nei confronti delle regole della censura cinese e al tempo stesso uno dei più belli. Per poter trattare il complesso tema della guerra alla (e per la) droga in Cina, il regista è dovuto passare attraverso non poche difficoltà, in primis la serie di lunghi controlli sulla sceneggiatura e sull’esito finale da parte del governo. Il risultato è un film che abbraccia il manicheismo e mostra il trionfo della giustizia sulla criminalità senza appello o ambiguità.
Se a un’occhiata superficiale non si può che pensare a Schindler’s List – tematiche simili, fotografia in bianco e nero – le somiglianze tra l’opera di Lu Chuan e quella di Steven Spielberg sono in verità piuttosto poche. Indubbiamente anche Lu Chuan come Spielberg intende ritrarre i giapponesi come esseri umani a tuttotondo anziché come macchiette bidimensionali, senza che questo attenui la condanna morale nei loro confronti; al contrario aiuta a capire di cosa è capace la natura umana, specie in condizioni di totale liceità. Lu Chuan ha impiegato più di tre anni per realizzare un film fortemente voluto, che rendesse visivamente l’orrore dei massacri di Nanchino senza scadere nel pamphlet di regime; non viene nascosto (né tantomeno edulcorato) nulla dei crimini commessi dagli invasori, siano essi stupri, omicidi gratuiti, stragi o esempi molteplici di sadismo. Il popolo cinese, così fieramente rappresentato dal guerriero indomabile Liu Ye, viene massacrato ma soprattutto vilipeso e privato di ogni dignità dalle efferatezze nipponiche, in un’escalation di violenza inarrestabile. Ma il plusvalore che Lu Chuan riesce ad aggiungere a una vicenda tristemente nota – oltre a non farsi invischiare dalle molteplici trappole insite in una simile operazione – sta nel tentativo di scavare il più possibile nel punto di vista del nemico, anch’esso composto da esseri umani. Non solo nell’occhio critico del sergente Kadokawa, perplesso di fronte agli eccidi, ma soprattutto nel tentativo di comprendere la natura profonda dello spirito nazionalista giapponese e dei semi del male che stanno alla base di massacri come quello di Nanchino. Esemplare in questo senso la sequenza della celebrazione della conquista, in cui i militari giapponesi – macchine da guerra senza cuore né morale, novelli Tetsuo pronti a tutto – si piegano ritmicamente e a passo di danza in risposta al suono rituale dei tamburi. Uno sfoggio di superomismo, ripreso da Chuan con tocchi di Leni Riefenstahl, per nulla pretestuoso e, al contrario, chiave interpretativa fondamentale per comprendere l’originalità del taglio adottato da Chuan nella narrazione.
1999: indecisa tra l’umile minatore Liangzi e il presuntuoso benzinaio Zhang, Tao sposa il secondo. 2014: ormai divorziata, Tao rivede il figlio Dollar, che vive a Shanghai con l’arricchito Zhang. 2025: il 18enne Dollar vive in Australia, dove Zhang è dovuto fuggire, e s’innamora di una donna matura che gli fa riaffiorare i ricordi dell’incontro con sua madre. Scritto dal regista, è un dramma esistenziale senza sbavature mélo , secco e doloroso come una staffilata. Ma è anche una metafora della scelta sbagliata del popolo cinese a favore del capitalismo e dei suoi pesanti costi umani. I 3 tempi del film sono scanditi da 3 formati diversi – 1,37:1; 1,85:1; 2,35:1, che corrispondono grossomodo ai cosiddetti “formato Academy” (circa 4/3), al “panoramico” e allo “scope” – realizzati in 3 differenti stili, tutti fortemente personalizzati e di raffinata eleganza formale, grazie anche alla camaleontica fotografia di Nelson Lik-wai Yu e al delicato accompagnamento musicale per sola chitarra o solo piano di Yoshihiro Hanno. La canzone “Go West” dei Pet Shop Boys, dal titolo e dal testo rivelativi, apre e chiude il film: un’apertura alla speranza o il perdurare di una nefasta illusione?
1966. Hong Kong è sull’orlo della guerra civile. Il signor Chow, un giornalista e autore di romanzi, torna in città dopo essere stato a Singapore. E’ alla ricerca di Su Li-Zhen, un antico amore, e trova alloggio in un alberghetto non rinunciando a cercare compagnia femminile. Sta scrivendo un romanzo su un futuro in cui sarà possibile ritrovare i ricordi perduti. L’anno sarà il 2046, suggerito dal numero della stanza accanto alla sua. Mentre si trova nell’hotel ha una relazione con due donne in successione: la figlia del proprietario innamorata di un giapponese e Bai Ling, una prostituta che si innamora di lui. Nella sua vita entrerà anche una nuova Li-Zhen. 2046: una data, un titolo di romanzo, un numero. Nel 2046 Hong Kong, dopo l’amministrazione speciale iniziata nel 1997, tornerà a far parte definitivamente della Repubblica Popolare Cinese. Per Wong Kar-wai questo anno cruciale diventa rappresentazione di un futuro ipoteticamente felice ma dal quale si desidererà fuggire per tornare nella realtà. Una realtà che prende le mosse da una stanza inizialmente luogo inesplorato e poi spazio in cui poter entrare sapendo che c’è una via d’uscita. La quale si rivelerà però soltanto fisica perché i personaggi dei film del regista nato a Shanghai finiscono sempre con il rimanere prigionieri delle storie che hanno vissuto anche se apparentemente pretendono di liberarsene attraverso il sesso praticato con altri o, come in questo caso, con il gioco d’azzardo. Non è un caso che la donna cercata in 2046 abbia lo stesso nome di quella perduta in In the Mood for Love anche se qui si presenta come altre due figure femminili che portano lo stesso nome. Il mondo di Won Kar-wai è fatto di interni in cui la luce ha un ruolo predominante e la composizione dell’inquadratura si avvale di una definizione curata al millimetro. Ci sono spesso elementi della scenografia che sottolineano i rapporti tra i personaggi così come, altrettanto spesso, il buio domina occupando un terzo dello schermo, quasi assorbendo in sé il non detto dei personaggi. Perché la dimensione estetica nel suo cinema assoggetta l’intero processo creativo rischiando talvolta di raggelare la tensione emotiva che è sempre elevata. Il signor Chow scrive romanzi concettuali che si ispirano alla vita così come Wong Kar-wai scrive sceneggiature complesse che diventano film. Entrambi pensano di difendersi in questo modo dal sentimento che invece prevarica il loro volere a dispetto di qualsiasi eccesso di estetismo.
Cina 1660. Con la sua banda di accoliti, Vento di Fuoco terrorizza la popolazione di diversi villaggi e semina morti, ruberie e soprusi. Per fermarlo vengono reclutati sette spadaccini – sei uomini e una donna – valorosi e imbattibili. Come in ogni western che si rispetti, alle varie fasi della riscossa segue un finale pirotecnico, vittorioso e aperto. Del romanzo di Liang Yusheng cui si è ispirato, T. Hark (nato in Vietnam ma laureato negli Stati Uniti e affermatosi a Hong Kong), cineasta rigoroso e insieme grande intrattenitore, ha ridotto all’essenziale le storie personali dei suoi 7 personaggi, privilegiando gli aspetti di romanzo popolare, di azione, di spettacolo. Il film – che aprì la Mostra di Venezia nel 2005 – è un epico avventuroso, storicamente ben documentato, con accenti realistici ed effetti speciali digitali, meravigliose imprese atletiche a base di arti marziali (con le impeccabili coreografie dello stesso regista) e risvolti fiabeschi, musiche sentimentali e paesaggi emozionanti. Anche se, soprattutto per noi europei, per una parte dei 144 minuti è difficile distinguere gli attori l’uno dall’altro; molto famosi in patria, riescono a disegnare personaggi realistici ed “eroici” nei loro ideali di onore e giustizia.
Wuxiapian è un termine che ultimamente sta tornando di moda e dopo aver visto La Foresta dei Pugnali che Volano non si fatica certo a capirne il motivo. Zhang Yimou, dopo il superbo Hero, propone un’altra opera sospesa nel tempo e avvolta in un impalpabile velo di poesia. Siamo nell’859 D.C., la dinastia regnante dei Tang è in declino. Numerosi gruppi rivoluzionari caldeggiano nell’oscurità la caduta delle forze imperiali, ritenute responsabili per la decadenza morale che affligge il paese. Una danzatrice cieca è sospettata di appartenere al pericoloso clan chiamato “la casa dei pugnali volanti”: due ufficiali dell’esercito tenteranno di far uscire allo scoperto gli alti vertici della fazione fuorilegge usando la ragazza come esca, ma l’amore giocherà loro dei brutti scherzi
Ou Yang Feng (L. Cheung), già spadaccino e sicario di professione, vive da eremita nel deserto. Gli fa visita una ragazza (C. Young) che vorrebbe vendicare la morte del fratello. Gli richiama alla memoria l’unica donna (M. Cheung) che ha mai amato, ora moglie di suo fratello. Ma anche il suo migliore amico (T. Leung) è innamorato di lei. Nel suo 3° e costoso film, Wong prende in prestito i personaggi di un romanzo di arti marziali di Jin Yong e li situa in mezzo a un deserto per analizzarne ossessioni e manie. “Incredibile apologo filosofico, film di kung-fu senza combattimenti, film in costume senza un tempo di riferimento, paradossale tentativo di ‘prendere sul serio’ le storie di fantasmi e di eroi mitologici cinesi” (G. Manzoli).
A differenza della versione REDUX che dura 93 minuti questa ne dura 98
Per colpa di un cliente ubriaco, il tassista Lao Shi investe un motociclista. Il malcapitato sembra in condizioni gravi, quindi l’autista, anziché aspettare la polizia, lo porta in ospedale; nel frattempo il cliente è fuggito. Il motociclista vivrà, ma le costose cure per tenerlo in vita sono addebitate a Lao Shi, che prova a rintracciare il cliente senza alcun successo. Dopo Travis Bickle, ancora una volta è un tassista a superare il limite di sopportazione e affrontare la società di petto. Lo spunto di partenza è fornito da un tema di stretta attualità e di sconcertante gravità. In Cina si sono infatti verificati diversi casi di incidenti automobilistici in cui il responsabile ha infierito sulla vittima, uccidendola, per evitare di doverne coprire le spese mediche. In sostanza, in Cina è assai più conveniente l’omicidio colposo a seguito di un incidente mortale che la copertura dei danni procurati, interamente a carico di chi ha la responsabilità dell’incidente. Un grado zero della giustizia che agevola il grado zero della solidarietà umana.
Ad Hong Kong la guerra infinita tra le triadi e la polizia si gioca su tempi lunghi ed intricati giochi di doppie identità. La mafia cinese arruola ragazzi giovanissimi per farli entrare in accademia già da infiltrati, mentre le forze di polizia spediscono promettenti cadetti sulle strade, con la missione di scalare la gerarchia delle maggiori organizzazioni criminali. Lau, criminale divenuto ispettore, e Yan, poliziotto sotto copertura arrivato ad essere il braccio destro di un boss locale, si daranno battaglia a distanza in una reciproca caccia alla talpa: tra la vita e la morte, naturalmente, solo un gioco di equilibrio sul filo del rasoio.
Jack Malik è un musicista di scarso successo. In lui crede solo Ellie, manager, amica e forse qualcosa in più, benché inespresso. Finché una sera, dopo che ha deciso di smettere con la musica e cercare un lavoro più regolare, Jack ha un incidente e perde coscienza durante un blackout planetario. Quando si sveglia, scopre che il mondo è stato privato delle canzoni dei Beatles e che lui è rimasto il solo a ricordarle.
Ip Man, colui che diventerà il maestro di Bruce Lee, vive a Fo Shan, nel sud della Cina dove pratica le arti marziali come personale passione. In seguito alla guerra cino-giapponese che sconvolge le province del nordest del Paese, il Grande Maestro Gong Baosen è costretto a trasferirsi a Fo Shan dove tiene la cerimonia del proprio addio alle arti marziali. Viene raggiunto da Gong Er, figlia a cui ha insegnato una tecnica letale. Ip Man e Gong Er si conoscono in questa occasione. La domanda che percorre il mondo del kung fu è: chi diverrà il successore di Gong Baosen?
Il giovane Pi Patel è cresciuto con la famiglia a contatto con lo zoo paterno, mescolando fin dall’infanzia sogno e realtà. Quando il padre ha esigenze di denaro e sceglie di trasferirsi in Canada per vendere lo zoo, Pi ancora non può intuire cosa lo attenderà nelle vastità oceaniche. Di fronte a una tempesta terrificante, la nave affonda, lasciando in breve tempo Pi con un’unica compagna di viaggio: la tigre Richard Parker, l’animale più temuto dello zoo paterno. Pi potrà solo fare affidamento alla propria intelligenza per poter sopravvivere e convivere con la tigre.
Sze-to, ex-campione di judo affetto da glaucoma, sopravvive a se stesso gestendo un bar malfamato e dandosi all’alcool e al gioco. Il suo destino, apparentemente segnato, si incrocia con quello di Mona, aspirante cantante squattrinata, e di Tony, giovane esuberante innamorato del judo. L’entusiasmo trasmesso dai due e la tragica morte dell’ex-maestro restituiranno a Sze-to la fiducia in se stesso e la voglia di rimettersi in gioco, senza badare alle conseguenze.
Un film di Zhang Yimou, Yang Fengliang. Con Gong Li, Li Boatian, Wei Li, Li Baotian, Zhang Yi, Li Wei, Zhen Ji-an Yang Drammatico, durata 95′ min. – Cina 1990. MYMONETRO Ju Dou valutazione media: 3,54 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal racconto Fuxi Fuxi di Liu Heng. Cina, anni ’20. Ju Dou (Gong), bella e giovane contadina, è comperata in sposa dall’anziano Jin-Shan (Wei), proprietario di una tintoria, che spera, benché semimpotente, di avere da lei un erede. Maltrattata dal dispotico consorte, s’innamora del giovane nipote che lavora come garzone per lo zio. Nasce un bambino, ma il vecchio rimane paralizzato e i due amanti decidono di eliminarlo. Cresciuto, il bambino muto si trasforma in uno spietato “angelo della morte”. È lui il vero motore dell’azione sul versante nero di questo melodramma rusticano con risvolti sociali e grotteschi passaggi da horror. Dal décor della tintoria all’impiego creativo della luce e del colore (giallo e rosso specialmente), usati per suggerire la tragica energia della vicenda e dei personaggi, tutto è di un’ammirevole coesione narrativa. Il coregista è un funzionario del ministero della Cultura, messo al fianco di Yimou come inutile garante dell’ortodossia di un film che, postprodotto a Tokyo, non fu mai distribuito in Cina.
Lu Yanshi è un oppositore del sistema negli anni della rivoluzione culturale, per questo è perseguitato e deve nascondersi dalla sua stessa famiglia. Intenzionato a rivedere la moglie di cui è innamorato una notte ritorna a casa ma la figlia (plagiata dai ricatti della compagnia di ballo nella quale danza e che le ha negato un ruolo da protagonista proprio per il fatto di avere un padre dissidente) decide di tradirlo. Così il giorno dopo agenti governativi lo catturano alla stazione proprio mentre la moglie sta per avvertirlo.
Cina, IX secolo. Sotto la dinastia Tang il Paese vive e prospera. A minacciare la sua età d’oro si adoperano gli ambiziosi e corrotti governatori della provincia. L'”ordine degli assassini” è incaricato di eliminarli. Nelle sue fila serve e combatte Nie Yinniang, abile con la spada e sotto la chioma nera di inchiostro lucente. Rientrata nella sua città e nella sua provincia, dopo l’apprendistato marziale e un esilio lungo tredici anni, Nie Yinniang deve uccidere Tian Ji’an, governatore dissidente della provincia di Weibo. Cugino e sposo a cui fu promessa e poi negata.
Possente, iperrealista, figurativo, saturo di colori. Hero, recentemente tornato a mani vuote dagli Oscar, è il personalissimo omaggio di Zhang Yimou al genere wuxapian.La storia, ambientata nella Cina di 2000 anni fa, divisa in sette regni, racconta delle gesta di Senzanome, interpretato da un Jet Li finalmente convincente dopo una troppo lunga serie di ottusi film americani. L’eroe del titolo che, tramite flashback, racconta al re di Qin, futuro imperatore, come sia riuscito a sgominare i sicari che lo stesso re gli aveva sguinzagliato contro: Spada spezzata, Neve volante e Cielo (traduzione letterale).Se La Tigre e il Dragone aveva stupito molti per la bellezza coreografica dei combattimenti, Hero ridefinisce uno standard per questo tipo di produzioni: le sfide tra gli eroi sono vere e proprie danze con i contendenti immersi in scenari favolistici. Ogni battaglia ha un suo stile preciso ed un suo colore dominante. L’attenzione che il regista pone al particolare è maniacale: alcune scene sono persin soffocanti per un gusto che eccede spesso nel barocco come la sequenza iniziale col combattimento “acquoso” tra Li e Leung e quello tra le prime donne Ziyi e Cheung immerso in una pioggia di foglie dorate. Difficile descrivere a parole la leggerezza, la soavità ed al tempo stesso la violenza e la asprezza delle battaglie di gruppo che, per maestosità e pathos, superano anche l’assedio al fosso di helm d Il signore degli anelli.Tutto in Hero è ridondante: le scenografie, i costumi, la musica. I colori, sempre importanti nella filmografia del regista, qui diventano veri e propri protagonisti al pari degli attori.Gli interpeti sono fenomenali ed il cast di all-stars mantiene le promesse. Oltre al tonico Jet Li completano il quadro Maggie Chung,Donnie Yen, Zhang Ziyi e Tony Leung: praticamente il meglio del cinema made in Hong Kong contemporaneo. Esercizio di stile o nuovo capolavoro del regista? Indubbiamente non è un film per tutti ed il ritmo sincopato del film non aiuta la “digeribilità” dello stesso da parte dei non appassionati del genere. Alcune sequenze sono talmente esagerate da apparire paradossali e dietro l’angolo c’è sempre il rischio del comico involontario. Ma proprio l’esagerazione consapevole, il non voler utilizzare semitoni e l’acuta analisi che svolgono, in maniera diversa, i protagonisti sulla guerra e sul ruolo “pacificatorio” che la stessa può avere (temi drammaticamente attuali) rendono Hero un’esperienza indimenticabile.
Nell’estate del 1999 un detective della polizia indaga su uno strano caso di omicidio: brandelli della vittima vengono ritrovati contemporaneamente in diverse cave di carbone. Nel corso delle indagini però un confronto a fuoco uccide i suoi colleghi e lo lascia ferito e traumatizzato. Cinque anni dopo, in inverno, la situazione è molto peggiore per lui e per il mondo in cui vive. Lo ritroviamo ubriaco al margine della strada, non è più poliziotto ma lavora come guardia privata, e lo sconosciuto che si ferma per vedere se è ancora vivo in realtà lo fa per rubargli la moto. Il ripresentarsi di omicidi simili a quelli del 1999 lo spinge tuttavia a ricominciare le indagini in privato.
Sembra incredibilmente appropriato lo strano titolo di questo film una volta che lo si è finito. Svolto tra un passato in cui il crimine passa per il carbone e un presente in cui torna a colpire attraverso il ghiaccio, è anche la suggestione della materia dura e sporca contrapposta a quella sottile e pulita (in una frase il senso del cinema noir), due estremi che rappresentano il lavoro pesante contro la danza leggera e ben si prestano a una lettura allegorica di tutto quel che succede in questo detective movie ai confini del mondo, in cui non c’è niente di normale. Benché infatti sia ambientato in un luogo imprecisato del nord della Cina, il film di Diao Yinan è volutamente inserito in una realtà al limite del paradossale, dove l’insensata presenza di un caos ingiusto è il vero nemico dei personaggi (più di criminali e misteri). Black coal, thin ice non si lascia sfuggire nemmeno un elemento del noir classico, dall’investigatore indurito dalla vita, alla femme fatale, da una condizione metereologica che influisce sui personaggi, alla perdizione sentimentale fino alla morte inevitabile che pende sul racconto, eppure nulla è come siamo abituati a vederlo. Ecco perchè fin dalle prime scene sembra di assistere a un film che ha risentito della presenza e del cinema dei fratelli Coen per quanto l’umorismo scaturisca dall’idiozia e le casualità più imprevedibili determinino gli eventi più importanti, quelli che di solito gli sceneggiatori cercano di motivare con maggiore dettaglio. Del genere rimangono solo i suoi elementi distintivi ma la materia che dovrebbe collegarli è completamente differente perché è inserito in una società e in un tempo completamente differenti da quelli originali. Non c’è nulla che segua un binario prevedibile o che dia l’impressione di portare ad una soluzione canonica, in questo film la cui forza maggiore sta nel riuscire a comunicare l’inquieta paura che il suo autore ha del mondo in cui vive. La Cina che mostra è un inferno di sopraffazione continua, di maltrattamenti e disinteresse umano (ci sono dei dettagli che impressionano come il cocomero mangiato e sputato mentre si consulta una cartina, la moto rubata e i clamorosi immotivati fuochi d’artificio finali), in cui ogni personaggio comprimario è un nemico, non aiuterà, metterà i bastoni fra le ruote e senza una ragione precisa. In questo marasma umano che è sempre a un pelo dallo sconfinare nel caos vitale di Kusturica ma si guarda bene dal farlo (ci vorrebbe tutta un’altra speranza nel genere umano), Diao Yinan usa le figure archetipe per superarle, le sfrutta per ingannare lo spettatore e convincerlo a seguirlo in un viaggio attraverso l’abiezione umana. In questo senso non appare per nulla fuori luogo la violenza esagerata e sempre inattesa che spaventa e brutalizza.