Giovane medico condotto (Mastroianni), assegnato a un paesino appenninico del Sud, deve fare i conti con la concorrenza sleale di Don Antonio (De Sica), guaritore un po’ imbroglione, e con l’ignoranza diffidente della gente. Scritta da Age & Scarpelli, è una commedia flebilmente progressista sul conflitto tra scienza e superstizione con qualche gaia trovata, un’ambientazione strapaesana di maniera, un De Sica amabilmente gigione, un Mastroianni con la sua faccia di bravo ragazzo e un Sordi in ombra.
Nei suoi giri quotidiani un’infermiera romana (M. Merlini) frequenta diversi gruppi familiari, ciascuno con i suoi problemi. Scritto con Age, Scarpelli e Leo Benvenuti, è un film a episodi camuffato che segna una tappa significativa nell’itinerario di M. Monicelli – e del cinema italiano in generale – per avvicinarsi alla commedia di costume borghese senza il cipiglio dell’indagatore o la grinta del polemista, ma col sorriso e lo sguardo lucido dell’osservatore. Diretto con competenza, recitato da un’affiatata squadra d’interpreti tra cui spicca M. Mastroianni, ormai il n. 1 degli attori giovani italiani.
Nella notte di San Silvestro Gioia Fabbricotti (Magnani), che fa la comparsa a Cinecittà dove è chiamata Tortorella, incontra casualmente il vecchio amico Umberto Pennazzuto (Totò) detto Infortunio, ridotto a far da palo al ladro Lello (Gazzara). Per un equivoco Tortorella crede che Lello voglia corteggiarla e finisce in prigione al suo posto. Tratta da due racconti ( Le risate di Gioia , Ladri in chiesa ) di Alberto Moravia, sceneggiata da Suso Cecchi D’Amico, Age & Scarpelli, è una notturna commedia buffa dai risvolti tristi che contano e pesano più della facciata, appoggiata a due malinconici personaggi di vinti dalla vita cui si aggiunge Lello, diseredato come loro, ma più lucido e ribelle. M. Monicelli dosa con sapienza, comicità e amarezza, crepuscolarismo e satira di costume, affidandosi al godibilissimo duetto di una Magnani bionda e bravissima e di un Totò in grande forma. Gazzara, americano di origine siciliana, s’inserisce agevolmente tra i due.
Maddalena Ciarrapico, operaia napoletana in un salumificio, sbarca a New York per raggiungere il fidanzato Michele, proprietario di un ristorante. Non le permettono di uscire dall’aeroporto perché ha con sé una mortadella: dopo l’epidemia di febbre suina del 1967, una legge USA proibisce l’importazione di insaccati. I doganieri risolvono il caso mangiandola. Delusa da Michele, in Italia di sinistra, qui preoccupato solo di guadagnare, si affida a un giornalista locale, autore di uno scoop sul suo caso. La delude anche lui. Rimane sola nella metropoli. Scritta da S. Cecchi D’Amico, Monicelli, R. Lardner Jr., è una commedia con pretese di critica sociologica sugli USA visti dagli italiani. Un po’ stracca, ricca di stereotipi, in funzione di una star calante.
Giovane sicula dal sangue caldo sbarca a Londra per uccidere Vincenzo che l’ha sedotta e abbandonata. Ma nella metropoli avviene una felice metamorfosi. Commedia all’italiana in trasferta inglese. Confezione di lusso, sostanza da avanspettacolo, caricaturale più che satirica, con una bieca insistenza sui più vieti luoghi comuni sul Sud. Nomination all’Oscar come miglior film straniero.
1916: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, sono due scansafatiche furbastri e vigliacchetti. Dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati e al fronte. Da quel momento vivono tutte le disgrazie di una guerra: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura, qualche piccola distrazione militare, persino un’avventura con una prostituta (la vive il “milanese” Gassman). In una cosa i due sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano. Riescono a farla franca tutte le volte, ma una notte si trovano per caso in una cascina che viene presa dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci, vengono catturati e proprio in virtù del travestimento potrebbero essere fucilati. Il colonnello nemico promette che li salverà se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave. I due conoscono l’informazione delicatissima e decidono, per salvarsi, di parlare. Ma il colonnello dice la frase sbagliata e provoca nei due un incredibile rigurgito di orgoglio. È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta, al colonnello: “… visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda…”. E muoiono da eroi, fucilati. Film importante ed esclusivo, irresistibile per quasi tutti gli aspetti: l’interpretazione di tutti gli attori, la ricerca iconografica, la verità degli episodi e l’attendibilità storica. La sceneggiatura di Age, Scarpelli e dello stesso Monicelli presenta spesso toni comici – Gassman assomiglia molto a quello dei Soliti ignoti – e privilegia la bravura di tutti i caratteristi, anche non attori, come il pugile Tiberio Mitri e il cantante Nicola Arigliano. L’artificio, certamente commerciale, di contrapporre a una situazione divertente una drammatica, si è tradotto, alla resa dei conti, in un arricchimento, anche rispetto ai toni dei grandi film italiani della stagione del neorealismo, capolavori sì, ma spesso cupi e monocordi. Gli anni de La Grande guerra erano davvero quelli d’oro. Il nostro cinema non sarebbe mai più stato a quell’altezza.
A Torino all’inizio del secolo gli operai di una fabbrica sono in urto con i padroni. Ci vuole uno sciopero ad oltranza, e per organizzarlo arriva da Roma il socialista professor Sinigaglia. Lo sciopero è spento nel sangue. Ma intanto i lavoratori hanno imparato a battersi per i loro diritti. La nascita del sindacalismo è raccontata da Monicelli nei modi che gli sono propri, quelli della commedia all’italiana.
Divertenti episodi in cui vizi e virtù dell’Italia in rovina sono messi in berlina. Un lettore di telegiornale (Mastroianni) piuttosto candido e distratto fa da filo conduttore ai vari episodi, presentati come servizi speciali di un allora inesistente TG3
Grande amore tra l’ex pugile Raoul “Spaccaporte” e la campionessa di catch Temporale Rosy. La gelosia di lui e gli intrighi dell’impresario di lei li separano. Scritto da Age & Scarpelli da un romanzo breve di Carlo Brizzolara, ambientato tra i panorami urbani della Francia del nord e del Belgio, fu un fiasco commerciale, ma rimane uno dei più felici film di Monicelli per ricchezza di gag, disegno dei personaggi, finezza di particolari in sagace equilibrio tra comico e patetico.
Alberto Menichetti ha paura di tutto. Vive con due zie anziane, è impiegato in un cappellificio e annota qualsiasi cosa gli accada nel corso della giornata perché qualora gli venisse richiesto un alibi deve esser trovato pronto. Accetta di indossare una lobbia vecchio stile solo per compiacere il padrone così come, pur di non partecipare a uno sciopero, si finge malato ritrovandosi così ospedalizzato.
Riunione di famiglia nella bella Sulmona (AQ) a Natale. In casa di nonno Panelli, ex carabiniere un po’ rincitrullito, e dell’infaticabile nonna Trieste arrivano i quattro figli con famiglie. I vecchi propongono di andare a stare in casa di uno dei figli. Decidano loro. Scritta con Carmine Amoroso (premio Solinas), Suso Cecchi D’Amico e Piero Bernardi, è una commedia corale scandita in 2 parti. La 1ª ha un taglio di commedia realistica di costume e semina le mine che esplodono nella 2ª parte dove si passa ai toni dell’umorismo nero fino al feroce cinismo della conclusione. Il ribaltamento della prospettiva appare eccessivamente programmato.
Scombinato quartetto di ladri di mezza tacca tenta un furto a un Monte di Pegni periferico. Il colpo va buco, ma si fanno una mangiata. Uno dei pilastri della nascente commedia italiana: la sua eccezionale riuscita nasce da una scelta azzeccata degli interpreti (con la scoperta di V. Gassman comico, gli esordi di C. Cardinale, C. Gravina e T. Murgia, un mirabile intervento di Totò) e una sceneggiatura perfetta (Age, Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico), senza contare il bianconero di G. Di Venanzo e le musiche jazzistiche di Piero Umiliani. È il 1° film comico italiano dove compare la morte, con personaggi invece di macchiette, una comicità venata di dramma e il tema dell’amicizia virile, raro nella cultura e nello spettacolo italiano. Vela d’oro a Locarno, 2 Nastri d’argento (sceneggiatura, Gassman), nomination all’Oscar, grande successo di pubblico. Seguito da Audace colpo dei soliti ignoti (1960) e I soliti ignoti vent’anni dopo . 2 rifacimenti a Hollywood: Crackers (1984) di L. Malle e Welcome to Collinwood (2002) di A. e J. Russo.
L’agente di polizia Caccavallo ha il compito di riportare al paese natio una ragazza sbandata che a Roma aveva tentato il suicidio per una delusione d’amore. Nessuno la vuole. Che farne? Presentato in censura nel febbraio 1954, fu bocciato perché considerato inaccettabile in 35 punti. Dopo altre due bocciature, fu ammesso alla programmazione in dicembre con tagli per più di 200 metri e alcuni rifacimenti espressamente indicati. Uscì nel marzo 1955, ma col divieto di esportazione all’estero che fu tolto nel 1958, al sesto esame di censura. La commedia offre a Totò l’occasione di mostrare il versante patetico e malinconico del suo personaggio. Qualche spunto di satira anticlericale. Soggetto di Ennio Flaiano, sceneggiato da Age, Scarpelli, Sonego e Monicelli che per la 1ª volta firma la regia da solo.
Il figlio di un impiegato ministeriale romano è ucciso per caso durante una rapina. Il brav’uomo prepara ed esegue una lenta, bieca, allucinata vendetta. Dal romanzo (1976) di Vincenzo Cerami, storia di vittime che sono anche mostri, un film omogeneo, sapiente nella mescolanza di toni (commedia, grottesco) e nella progressione drammatica, con un Sordi all’apice della sua carriera inserito in un contesto sociale efficacemente descritto. Efebo d’oro 1979.
Quattro amici sui cinquanta (qualcuno arrivato nella professione, qualcun altro ormai in disarmo, ma tutti con una voglia matta di rimanere giovani, di vivere una vita picaresca come da ragazzi) ogni tanto lasciano le rispettive occupazioni e si radunano per le “zingarate” (vagabondaggi, scherzi feroci, ragazzate). Finché uno di loro muore (anche se la moglie crede fino all’ultimo che si tratti di una beffa dell’incorreggibile personaggio). Mario Monicelli riprende un soggetto che il povero Pietro Germi non aveva fatto in tempo a realizzare e lo traduce in immagini con l’abilità che gli è propria. Un bel film con notevoli interpretazioni, tra cui anche Bernard Blier in una macchietta di credulone molto divertente.
Nel Medioevo lo spiantato cavaliere Brancaleone da Norcia si mette alla testa di un gruppo di scalcinati senza famiglia e parte alla conquista del feudo di Aurocastro. Il film dilata i confini della commedia all’italiana con un’operazione culturale originale che comprende Kurosawa e Calvino, una rilettura della storia in chiave nazional-popolare, l’invenzione (di Age & Scarpelli) di una parlata mista di latino medievale e italiano prevolgare, il gusto anarchico di una scampagnata becera e i temi tipicamente monicelliani del gruppo dei piccoli perdenti e del senso della morte. 3° incasso nella stagione 1966-67, 3 Nastri d’argento (Gherardi per i costumi, Di Palma per la fotografia, Rustichelli per la musica) e un titolo passato in proverbio.
1940, a Sorman, oasi nel deserto libico dov’è accampato il 3° Reparto della 31ª Sezione Sanità, in un clima indolente di vacanza esotica anche se c’è qualcuno che si preoccupa di soccorrere la popolazione locale. Un’offensiva dell’esercito britannico rovescia drammticamente la situazione. Scritto dal regista con Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni, dal diario di guerra II deserto della Libia (l95l) di Mario Tobino e dal racconto II soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Fotografia: Saverio Guarna. Girato a budget ridotto tra maggio e giugno in Tunisia, il 65° film del novantunenne Monicelli (85° come sceneggiatore) è all’insegna della precarietà, interna ed esterna, narrativa e produttiva. È uno dei rari registi al mondo che sanno raccontare la morte, rispettandola, in cadenze di commedia e di rappresentare una tipologia di italiani in divisa e in guerra, brava gente stracciona, con un cinismo affettuoso, qui più che mai affettuoso, tirando fuori le unghie satiriche soltanto per la stupidità pomposa (il generale di T. Sanguineti) di chi li comanda. “Il film c’è, qua e là raffazzonato, esorbitante o insufficiente. Ma c’è.” (A. G. Mancino). E’ una guerra raccontata da una prospettiva “dal basso” ma, nel suo squallore, in modi realistici e veritieri. Come i suoi personaggi, i soliti militi ignoti.
Alla fine dell’Ottocento Beppe Musolino, carbonaio calabrese, ama la bella Mara, ma è inviso a suo padre che la vorrebbe sposata con Don Pietro, capo della ‘ndrangheta. Della sua uccisione è accusato Musolino e, in base a tre false testimonianze, condannato. Evade, si dà alla macchia, si vendica di due testimoni. Quando in un’imboscata Mara muore, mette a morte l’assassino e si costituisce. Versione romanzata e romantica di una storia vera per mano di 8 sceneggiatori (oltre al regista, F. Brusati, E. De Concini, I. Perilli, V. Talarico più A. Leonviola, M. Monicelli e Steno), prodotta da Ponti-De Laurentiis, è un melodramma paesano d’azione, modellato sul western americano (scene di tribunale comprese), ribattezzato southern da Ennio Flaiano. Fotografia: Aldo Tonti. A. Nazzari in gran forma brigantesca. G. Musolino (1876-1956) fu condannato a 21 anni di carcere nel 1897 e all’ergastolo nel 1901. Trasferito dopo il 1945 in un manicomio criminale, fu rilasciato in tempo per vedere il film, protestando per lo scarso rispetto alla verità della sua vicenda.
Dopo le rivolte studentesche del ’68, Michele è esiliato a Londra, ma si mantiene in contatto epistolare con la madre e le sorelle. Un giorno arriva la notizia che Michele è morto. Tratto dal romanzo (1973) di Natalia Ginzburg, sceneggiato da S. Cecchi D’Amico e Tonino Guerra e diretto da un Monicelli maturo e impegnato, è un buon film, insolito e intelligente.
Con partenza da Firenze il 26 agosto 1944, dopo l’arrivo degli Alleati, un anziano ex pugile mette insieme un quartetto di giovanotti affamati allo sbando, portandoli a tirar pugni nelle sagre di paese. Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando. Soggetto di Rodolfo Angelico, sceneggiato da L. Benvenuti, P. De Bernardi, S. Cecchi D’Amico, M. Monicelli.
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