Dal 1888 al 1893, ascesa professionale e vita sentimentale di Kikunosuke II, giovane attore kabuki della prestigiosa casata Onoe. Allontanato dalla famiglia a causa dell’amore per la umile Otoku.
Per aiutare la famiglia, una giovane telefonista (Isuzu Yamada) si lascia sedurre dal padrone e viene abbandonata dal giovane che ama. Ritorna allora in famiglia, ma capisce che non può viverci, e si trova sola. Il film segna una svolta decisiva nell’opera di Mizoguchi, che diventa il capo della corrente del “nuovo realismo” i cui film sono realizzati nelle difficili condizioni create da un governo militarista. In questo film, che narra il triste destino di una giovane impiegata, si vede apparire il filo conduttore della parte migliore della sua opera: un processo alla società, che ha per tema la condizione della donna.
IL MIO AMORE BRUCIA è un film di genere drammatico del 1949, diretto da Kenji Mizoguchi, con Kinuyo Tanaka e Mitsuko Mito. Durata 96 minuti.
Alla fine del 1880, Eiko Hirayama lascia Okayama per andare a Tokyo e battersi per i diritti delle donne. Inserita nel Partito Liberale, s’innamora di Kentaro Omoi, il suo leader. Entrambi vengono accusati di un incendio scoppiato in una fabbrica per opera di Chiyo, una serva della casa di Eiko a Okayama e riscattata dalla schiavitù.
Eiko è orfana di madre, il padre si disinteressa a lei e per sopravvivere non le resta che intraprendere il mestiere di geisha, già esercitato in passato dalla madre. Miyoharu l’aiuterà in una iniziazione che metterà crudamente a nudo una condizione umana dolorosa: quella della donna in una società di uomini tesi solo al guadagno e allo sfruttamento del suo corpo.
Durante un ricevimento ufficiale presso lo shogun di Tokyo, il cerimoniere viene minacciato con la spada all’interno del palazzo. L’autore dell’avventato gesto verrà costretto a fare hara-kiri lasciando i quarantasette samurai al suo servizio senza padrone. I samurai, divenuti quindi ‘ronin’, giurano di vendicare il loro padrone.
Insieme a Il ritratto della signora Yukie La signora Musaschino questo film fa parte di una trilogia sul tema della sconfitta sentimentale di tre donne idealizzate. La signora Oyu narra la storia di un amore impossibile tra la vedova Oyu (che deve vivere nella casa del marito per crescere il figlio-erede) e il marito della sorella. Sensibile al valore della tradizione ma anche spinta dalle passioni (l’erotismo è una delle componenti fondamentali del cinema del maestro giapponese), Oyu vive una situazione di lacerazione e di incolmabile solitudine di una esistenza non desiderata, ma accettata.
Hamako entra a servizio presso la lussuosa villa di Atami della figlia del governatore della provincia, la signora Yuki, che Hamako, sin da piccola, aveva idealizzato come gran dama dalla vita felice. Ma è disillusa quando, al suo arrivo il giovane e simpatico, nonché pettegolo e ficcanaso servo Seitaro, le racconta che la vita della padrona non è poi tanto felice, dato che il marito di lei, Naoyuki, ha un amante, Ayako, con la quale vive a Kyoto, e che Yuki stessa, si vocifera, avrebbe come amante l’insegnante di musica Masaya.
Attorno alla figura del grande pittore Utamaro Kitagawa si intrecciano le vicende di passione di alcune cortigiane. In particolare la storia di Okita, la musa dell’artista, innamorato di lei senza essere ricambiato: Okita si contende, invece, il cuore di Shozaburo con la modella Takasode. Girato nel 1946 che vede il Giappone riprendersi dallo choc della guerra, Utamaro o meguru gonin no onna è per molti versi un’epitome della poetica di Mizoguchi Kenji. In netto contrasto con la consuetudine didascalica delle biografie, non vengono trattate vita e opere del grande pittore nipponico. Utamaro è reinventato come alter-ego del regista, come un simbolo, un catalizzatore di ribellione, che incarna la volontà di un Giappone deciso a rompere con una tradizione millenaria.
Nel Giappone feudale dell’XI secolo la dolorosa odissea della famiglia del governatore di una provincia, spodestato perché troppo umano. Rapiti da briganti sono ridotti in schiavitù: la moglie costretta a prostituirsi, i due figli adolescenti sottoposti a fatiche massacranti. Prodotto dalla Daiei di Kyoto, tratto da un romanzo di Mori Ogai (eminente scrittore antinaturalista), adattato da Yoda Yoshikata e Fuji Yahiro. È un racconto corale che tende all’affresco storico più che al dramma individuale in bilico tra leggenda e tragedia, biblica più che greca, sull’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento. La castità espressiva anche nelle scene più crude e il lirismo di alcuni momenti memorabili (il suicidio della figlia Anju, il riconoscimento finale tra Zushio e la vecchia madre cieca) ne fanno un film di alto rigore stilistico dove, una volta di più, si mette l’accento sulla forza amorosa delle donne rispetto alla debolezza degli uomini. 3° Leone d’argento consecutivo dopo La vita di O-Haru (1952) e I racconti della luna pallida d’agosto (1953).
Fusako Owada è una donna della notte del Giappone del dopoguerra. Prostituta e amante di un pericoloso trafficante di droga, vive la sua quotidianità fra le viuzze di una città in rovina, devastata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e il sollievo di alcuni piccoli vezzi che il suo uomo le offre. Ma a risvegliarla da questo torpore esistenziale, facendole perdere tutta la solidità e riscoprendola fragile e labile, è la scoperta che un’altra donna è nel cuore del suo amante… E questa altri non è che la sorella Kumiko. Terribilmente contemporaneo, con una precisione antropologica e una feroce poetica, Kenji Mizoguchi firma questo piccolo gioiellino cinematografico, lontano dai suoi territori prediletti. Si parla di gagnster, violenza, donne e uomini sanguinosi, riti barocchi e miti torbidi e spietati… ma dove aleggia sempiternamente la speranza di cambiar vita. I personaggi di questa storia sembrano portare dentro di loro un inferno personale: «Donne come me», dice Fusako alla sorella «non devono più esistere». Dannati e dannate da un’esistenza vissuta nel Male. Bravissima (e meritatamente premiata in patria) l’attrice Kinuyo Tanaka, nel ruolo della protagonista, che ben disegna le iperboliche emozioni che la scuotono, facendo sciogliere quel gelo e quella metallicità che facevano parte del suo ruolo nella prima parte della pellicola. Altrettanto valente anche Tomie Tsunoda nel ruolo della sorella nervosa, pericolosa e fragile. Ottime la scenografia e la fotografia che rendono veramente mefistofelico il microcosmo in cui si sviluppa la trama (che evoca un po’ la tragedia greca), direttamente creata da un romanzo di Eijiro Hisaita e sceneggiata da Yoshikata Yoda. Lontano da preoccupazioni politiche e formali, Mizoguchi fa un film che non è dei migliori, ma senza alcun dubbio, è uno dei più fluidi della sua filmografia.
Chikamatsu Monogatari (Una storia di Chikamatsu), è tratto dal testo di uno dei più grandi drammaturghi della letteratura giapponese, Chikamatsu Monzaemon, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo. Il film narra l’infelice sentimento fra Mohei e Osan che, presi da una ragnatela tessuta dal destino, si legano in un rapporto amoroso avversato dallo spietato Ishun, marito di Osan e padrone della tipografia nella quale lavora Mohei. Quest’opera di Mizoguchi rappresenta una delle sue pellicole più affascinanti e riuscite, condensa una miriade di tematiche care all’autore, in questo caso giocate tutte intorno al tema dell’adulterio, inteso come trasgressione della legge. Per gli amanti sacrileghi che osano consumare il loro amore al di fuori della legalità esiste un destino previsto dalla tradizione: o il suicidio affrontato insieme, oppure l’esposizione pubblica e la crocifissione.
Un film di Kenji Mizoguchi. Con Kinuyo Tanaka, Ichiro Sugai, Toshiro Mifune Titolo originale Saikaku Ichidai Onna. Drammatico, b/n durata 135′ min. – Giappone 1952. MYMONETRO Vita di O-Haru, donna galante valutazione media: 4,25 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nel Giappone del XVII secolo la dolorosa istoria di O-Haru (Tanaka) di piccola nobiltà che, dopo aver dato il suo amore a un giovane (Mifune) di classe sociale inferiore, è trattata da puttana e venduta come concubina a un feudatario. Gli dà un figlio che le viene tolto. Diventa prostituta di strada, intravede per la via il figlio senza poterlo salutare. Esposto alla Mostra di Venezia, dove vinse il 2° premio internazionale, contribuì, dopo Rashomon di Kurosawa, a far conoscere il cinema giapponese in Occidente e a far scoprire la grandezza di Mizoguchi. Tratto dal romanzo La vita di una mondana (1686) di Ihara Saikaku, sceneggiato da Yoshikata Yoda, è “il primo film-somma dell’autore, compendio sintetico e geniale dei temi e delle ricerche formali di una vita intera” (J. Lourcelles). Vittima della fatalità, ma soprattutto di un sistema sociale fondato sulla soggezione della donna, la vita di O-Haru _ come lei stessa la ricorda _ è un’interminabile serie di umiliazioni da parte dell’altro sesso, sotto le diverse figure del padre, del signore, del padrone, dell’amante, del marito, del figlio e dei clienti. Mizoguchi la racconta con un linguaggio contemplativo, implacabile e tenero di una struggente intensità emotiva.
Un film di Kenji Mizoguchi. Con Machiko Kyô, Masayuki Mori, Tanaka Kinuyo, Sakae Ozawa, Mito Mitsuko Titolo originale Ugetsu monogatari. Drammatico, b/n durata 93′ min. – Giappone 1953. MYMONETRO I racconti della luna pallida d’agosto valutazione media: 4,38 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nella regione di Omi, presso il lago Biwa, verso la fine del sec. XVI nel Giappone devastato dalla guerra civile, Genjuro, vasaio di campagna, e il fratello Tobei, che sogna di diventare samurai, abbandonano le mogli in cerca di fortuna.Le loro ambizioni di guadagno e di gloria provocano lutti e rovine nelle loro famiglie. Liberamente tratto da due racconti fantastici di Akinaru Ueda _ L’albergo di Asaji e La lubricità del serpente nella raccolta Ugetsu Monogatari (1776) _ sceneggiati da Matsutarô Kawaguchi e Yoshikata Yodo. Fotografia di Kazuo Miyagawa. Tra gli 86 film di Mizoguchi _ 47 muti, quasi tutti perduti _ è unico sia per il peso che vi ha la dimensione fantastica nella storia di Genjuro sia per la rapida concisione con cui espone i destini mescolati o paralleli di quattro personaggi. Anche in quest’altra dolente elegia sulla condizione femminile il suo è un cinema di immaginazione simpatetica, non di identificazione. 1 dei 4 Leoni d’argento a Venezia 1953, quando non fu assegnato il Leone d’oro.
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