Kughihara e Iguchi sono due yakuza appartenenti al clan dei Sanada. Cercano di evitare la vendetta dopo che il loro capo è stato brutalmente assassinato dai rivali del gruppo Otaki. Gli accordi per evitare una sanguinosa guerra fra clan sono condotti da Hijikata, leader dei Bando.Tuttavia, insieme a Nakajo e Konna, della famiglia Otaki, Hijikata complotta per diventare leader dei due gruppi rivali. Kunisada, uno del clan Sanada, a differenza dei compagni di clan, vuole vendetta.
Oltre a lavorare come barista in una sala per concerti, Chuji, ragazzo dall’esistenza travagliata con la passione della musica, spaccia droga per conto della gang Okada. Una sera, però, nasconde nel retro del locale Kenji, appartenente al gruppo Hanamura, opposto agli Okada. I due diventano amici e Kenji promette a Chuji che un giorno si sdebiterà del favore ricevuto. In seguito, mentre Kenji decide di allearsi con i rivali per uccidere Hanamura e assumere il potere, Chuji inizia a suonare e diventa, con la sua band, l’attrazione principale del locale. La sera del provino, Chuji è costretto dalla propria gang ad uccidere il boss Hanamura ma, a causa del fallimento dei piani di Kenji, tradito dalla moglie del boss, si trova a fronteggiare un agguato.
Tra Ariyoshi e Kazuki, imprigionati lo stesso giorno per crimini diversi, nasce un legame che va al di là delle sbarre. Regista prolifico (oltre 90 titoli in poco più di 20 anni), Takashi non è nuovo a certi sperimentalismi e qui, tra elementi metaforici stranianti e scenografie caligaresche, non si smentisce. I personaggi si trovano ingabbiati in una volta di vetro in cui passato, presente e futuro coesistono, e condividono lo stesso spazio dell’anima. Un forte simbolismo pervade l’intera opera e culmina nelle visioni di piramidi che ascendono al cielo (paradiso sognato e precluso per i crimini commessi dai protagonisti), di un carcere minimalista in stile Dogville e infernale (in cui si ripetono sempre le stesse azioni) e, infine, di un razzo pronto a partire (il cosmo, l’infinito come meta ultima di un’impossibile evasione dell’anima). Il titolo originale acquista più senso in quest’ottica: la tensione dei protagonisti verso la vita e verso quei 46 miliardi di anni d’amore, irraggiungibili persino col pensiero.
Takashi Miike, prolifico regista giapponese dalla media di quattro produzioni l’anno, è una mina vagante pronta ad esplodere con violenza pur di comunicare il proprio messaggio. Adattamento di un romanzo di Murakami Ryu, Audition, spesso indicato come capolavoro dell’autore, non fa eccezione rivelandosi un prodotto particolarmente estremo e di difficile catalogazione. Un produttore cinematografico rimasto vedovo decide, dopo anni di solitudine, di risposarsi. Un suo collega ed amico organizza un’audizione di casting fittizia dove l’uomo, in principio riluttante, incontra una misteriosa giovane di cui si innamorerà follemente: la scelta sfortunamtamente si rivelerà infelice.
Shun Takahata si è appena lamentato della sua vita, noiosa e uguale a se stessa, quando la mattina, in classe, la testa del professore esplode e al suo posto compare un gioco parlante e assassino (il Daruma ga koronda, “Daruma è caduto”), una versione mortale di “Un, due, tre, Stella” che miete una vittima dopo l’altra, lasciando un solo vincitore per aula. Non c’è tempo per domandarsi cosa stia succedendo, ma solo per prepararsi al secondo gioco, altrettanto infantile e sterminatore. Basterebbe la sequenza iniziale, da antologia degli incipit cinematografici più visionari e strizzastomaco, per aver ragione di fare un bell’inchino a Miike e magari sperare di indovinare un nuovo punto di svolta nella sua filmografia, che ne ha già conosciuto più di uno. Il resto del film mantiene le promesse, perché, anche se la struttura drammaturgica è presto chiara e non subisce variazioni, lo tengono insieme una coerenza visiva e una misura narrativa eccellenti.
Il gruppo Tensei, la più estesa organizzazione malavitosa della città, si sta preparando per la successione al comando. La famiglia Kaito e la gang Shirane ordiscono un piano per unire le proprie forze, inglobando anche una terza famiglia rivale, gli Yokomizo, e, una volta costituito il raggruppamento, imporsi alla direzione del Tensei. Mizushima e Muroi, i due luogotenenti dei Shirane, con un pretesto provocano la famiglia Yokomizo allo scopo di innescare una rappresaglia, far saltare vicendevolmente gli anziani leader di entrambi i gruppi e, in ultimo, proporre un’alleanza alla nuova generazione di presidenti.
Erano anni che Takashi Miike lavorava al suo jidai geki – equivalente nipponico del genere “cappa e spada”, sovente ambientato nel periodo Tokugawa – con una cura maniacale per il dettaglio che ben conosce chi ama l’autore di Gozu. Quando Miike decide di indossare i panni “seri” (evento che capita assai di rado, visto che ogni anno gira un paio di eccessi camp, horror oppure trasposizioni di manga), per di più cimentandosi con il remake di un maestro – ieri Graveyard of Honor di Fukasaku Kinji, oggi Thirteen Assassins di Eiichi Kudo (1963) – l’iconoclasta della macchina da presa diviene modernizzatore, con immenso rispetto, della tradizione; e il capolavoro è nell’aria. Ogni inquadratura di 13 Assassins sembra il frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricerca del frame perfetto: dolly quando è il caso di utilizzarli, primi piani e controcampi fluidi e mai gratuiti, scene corali coreografate all’esatto punto di incontro tra la tradizione jidai geki e il western di Peckinpah. Con aggiunta di un dinamismo tutto contemporaneo, che emerge prepotentemente nelle gesta dell’assassino “scemo” o nella sequenza in cui il virtuoso dei ronin utilizza una dozzina di katana per sconfiggere gli uomini dell’empio Naritsugu; proprio il villain incarna la summa del Male secondo il Takashi Miike-pensiero, perversa macchina sadomasochista di distruzione (come in una riedizione del Kakihara di Ichi the Killer) che in fondo anela ad affrontare e poi abbracciare l’estremo dolore della morte. L’assurda carneficina di innocenti causata dalle manie di Naritsugu non può che preludere al tramonto di una società basata sul rispetto cieco delle gerarchie e del diritto di nascita, introducendo il Giappone all’età moderna. Nella parte dello ieratico leader degli assassini, invece, un Koji Yakusho per cui gli aggettivi da sprecare sono esauriti. In totale, un Miike come non se ne vedevano da tempo e forse come non si sperava di vederne più.
Il boss Anjo viene ammazzato da un misterioso killer in maniera estremamente truculenta, ma nessuna traccia viene lasciata. Per ritrovare Anjo, convinto che sia ancora vivo, il folle e sadico Kakihara, suo vice, accetta il consiglio dell’enigmatico informatore Jijii e per questo rapisce e tortura Suzuki, capo di un banda rivale, che si dimostra però estraneo all’accaduto. Per punizione Kakihara e il suo clan vengono estradati dal sindacato della yakuza di Shinjuku. La caccia non finisce.
Il killer Takeshi è stato ingaggiato per eliminare un gangster della Yakuza, ma durante il processo a suo carico viene identificato da una donna, scatenando i propositi di vendetta del clan rivale. Quando poi si innamora della testimone, la sua lealtà viene messa a dura prova.
Mentre la yakuza nipponica e la mafia cinese stanno stringendo un patto di collaborazione, due uomini, per ragioni diverse, vi si oppongono. Jojima è un tenente della polizia locale che vive una difficile situazione familiare perché la moglie lo tradisce e la figlia ha bisogno di un’urgente operazione chirurgica. Nonostante gli avvertimenti dei superiori, ostacola con determinazione la nascita del patto tra bande per estorcere il denaro di cui ha bisogno.
Genji Takiya, figlio di uno yakuza, si iscrive alla Suzuran All-Boys High School, detta “scuola dei corvi”, con il solo intento di riunire tutte le bande sotto il suo comando, cosa che non è riuscita in passato a suo padre. Per far questo, il ragazzo deve prima conquistarsi la fiducia e l’ammirazione degli altri studenti.
Junpei, uno Yakuza di basso livello, ruba 500 milioni di yen al suo capo. Mentre viene interrogato, un colpo di fortuna gli salva la vita facendolo restare in prigione per cinque anni. Al rilascio, assume l’invincibile guardia del corpo professionista Kiba per scortarlo a recupeare i soldi prima nascosti, in modo che possa egli possa ritrovare la sua ragazza e fuggire per sempre. Ad ogni passo del lor cammino i due sono vittime di imboscate da parte dell’ex capo di Junpei, e dagli studenti di un Dojo rivale di Kiba, arrabbiati dal fatto che il Dojo di Kiba sia migliore del loro.
Salvando la vita al boss Sawada, il cameriere Ishimatsu Rikuo fa il suo ingresso nel mondo della yakuza. Nell’ambiente è però considerato un cane rabbioso e il suo comportamento gli impedisce di crearsi una cerchia di seguaci fedeli come si converrebbe ad un vero leader. Imprigionato in seguito a un regolamento di conti, Ishimatsu fa amicizia con Imamura, un esponente della gang rivale Giyu, che al termine della condanna di cinque anni viene ad aspettarlo assieme a Chieko, donna a cui Ishimatsu è legato da un tormentato rapporto di amore e violenza. Una notte, credendo che Sawada lo voglia uccidere per aver picchiato dei superiori, non esita a sparare al proprio capo ferendolo gravemente. È la goccia che fa traboccare il vaso…
La famiglia Fudo e gli Yasha sono due clan alleati appartenenti alla yakuza.Tra i due gruppi, però, scoppia una faida causata dal figlio maggiore dei Fudo, Ryu, per interrompere la quale il padre è chiamato ad uccidere il ragazzo. Ancora bambino, Riki assiste accidentalmente alla scena dell’uccisione del fratello maggiore. Dieci anni dopo, i mandanti della morte di Ryu cominciano a morire uno ad uno in maniera violenta. Dietro a questi assassinii misteriosi c’è proprio la mano di Riki, ora studente modello di un istituto superiore, il quale con la propria organizzazione criminale, composta da un gigante sterminatore, feroci bambini killer, un ermafrodito che spara dardi dalla vagina, sta portando a termine la propria vendetta.
Valoroso yakuza, Ozaki manifesta evidenti problemi psichici, mettendo in imbarazzo il proprio clan. La decisione è sofferta ma necessaria: il boss degli Azamawari delega Minami, amico e fratello di sangue di Ozaki, di uccidere lo yakuza impazzito, e di liberarsi poi del corpo in uno sfasciacarrozze di Nagoya. Giunto a Nagoya, compiuta a metà la missione, Minami dovrà fronteggiare l’inspiegabile sparizione del cadavere del compagno: durante la disperata ricerca del corpo, il giovane vedrà oltre la facciata di una cittadina anonima, che nasconde in realtà verità grottesche ed è teatro di insospettabili fenomeni. Gommatevi le mani, plastificate i coltelli e sprangate le finestre: prese queste necessarie precauzioni, Gozu è un tunnel viscoso che dilata il tempo e i sensi, uno yakuza-movie imbevuto di estratto di pineale al punto da far apparire Paura e Delirio a Las Vegas alla stregua di una passeggiata nel parco. Onirico, edipico, transgenico, esterofilo, ricco di latte materno e simbolismi abbastanza da far rivoltare nella tomba persino Lorca, il titolo è in grado di far girare a caso le lancette degli orologi biologici di chiunque. D’altra parte, questo Dark Water “al latte” non mancherà certo di far girare a caso i cosiddetti di quei taluni non amanti dello sconquasso mentale, con lungaggini, esplicito estremo, trovate incomprensibili e chi più ne ha più ne metta; ma Miike è questo, prendere o lasciare.
Il giovane Hagane, recluta inesperta di un clan della Yakuza, muore in uno scontro a fuoco mentre tenta di salvare il suo capo Tosa, caduto in un’imboscata poco dopo essere uscito di prigione. Il dottor Hiraga recupera entrambi i corpi martoriati e, assemblandoli insieme mediante l’impiego di protesi meccaniche, ricompone Hagane e lo fa rivivere come cyborg. Hagane, presa confidenza con il suo nuovo stato, impiega i sovrumani poteri di cui è adesso dotato per mettere in atto una sanguinosa vendetta. Variazione giapponese sul tema di Robocop, realizzata per il circuito dell’home video, condotta senza risparmio di acrobatici – ma inverosimili – combattimenti alle arti marziali, di atmosfere ispirate alle tendenze del cyberpunk e dei manga, di erotismo proiettato verso il sadismo e la necrofilia. Una miscela di azione e fantascienza volutamente esasperata che, pur lasciando perplessi gli stessi critici i quali hanno poi elogiato le successive opere del prolifico regista Takashi Miike (tra il 2001 e il 2002 ha diretto almeno 14 pellicole), riscuote caldi consensi tra i collezionisti di cult-movies. Nel cast segnaliamo la presenza di Tomorowo Taguchi (lo scienziato pazzo), già protagonista di Tetsuo. Titolo internazionale: Full Metal Yakuza.
Il samurai Hanshiro si reca presso la casa del clan Ii, che ha a capo il ricco Kageyu, per chiedere l’autorizzazione a commettere suicidio rituale. Kageyu lo informa che ormai accade sempre più spesso che ci siano samurai in povertà che fingono di volersi suicidare solo per poter accedere alle case dei ricchi per chiedere aiuto in denaro. Gli racconta così la vicenda di un giovane samurai, Motome, il quale aveva avanzato la stessa richiesta per poi rivelare di aver bisogno di un aiuto per curare la moglie ammalata e il figlioletto morente. Il clan lo aveva costretto a morire di una morte atroce perché obbligato a suicidarsi con la spada di bambù che aveva sostituito quella metallica venduta per bisogno. Hanshiro ascolta ma poi mostra di conoscere bene quella storia. Non tutti i remake vengono per nuocere, si potrebbe dire dinanzi a questa opera di Takashi Miike che riprende un film degli Anni Sessanta.
Le alpi giapponesi innevate. I genitori della piccola Ai la lasciano sciare da sola per la prima volta. La bambina viene salvata da un grave incidente da un ragazzino, Makoto, che riceve in dono dall’atto eroico una cicatrice sulla fronte. Una ferita che in qualche modo segna un patto di sangue non dichiarato. Undici anni più tardi, nei meandri della metropolitana di Shinjuku, la liceale Ai assiste a uno scontro tra gang rivali. Un ragazzo che non ha mai visto prima sbaraglia da solo tutti gli avversari; ha una cicatrice sulla fronte…
Seiji Hasumi insegna inglese all’Accademia Shinko. Carismatico e aitante, il giovane professore è ammirato dagli studenti, venerato dalle studentesse e tenuto in grande considerazione dai colleghi, che ne apprezzano l’iniziativa e l’attitudine a risolvere brillantemente questioni didattiche e disciplinari. L’unico a non farsi incantare è l’impopolare docente di Fisica, col vizio del muco e della ‘bile’. Per questa ragione confessa a un commissario di polizia, che sta indagando sulla morte sospetta di un genitore, che Hasumi ha insegnato in una scuola dove si sono verificati casi di suicidio. Di fatto, il volto angelico di Hasumi dissimula un pericoloso psicopatico che uccide, simulando suicidi, chiunque provi a intralciarlo. Esaltato e infido, abusa del suo potere per ricattare i colleghi e sedurre gli adolescenti, replicando l’omicidio dei genitori, messo in scena da ragazzino, e ripetendo come un mantra i suoi schemi criminali. Una sera però qualcosa va storto sul tetto della scuola e il suo gioco rischia di essere scoperto. Non resta che fare appello alle armi.
Commentare i film di Takashi Miike si conferma un’impresa ardua con questo film in concorso a Venezia 61 nella sezione “Orizzonti”. Parlare di “trama” è di per sé eccessivo quando ci si riferisce ai film del cineasta nipponico, e Izo non fa eccezione. Diciamo che Izo è un indomito spirito guerriero, l’incarnazione sovrumana del rancore. Egli attraversa le epoche in cerca di vendetta, ed è vano ogni tentativo di abbatterlo, perché il rancore non muore mai. L’oggetto della sua vendetta è l’umanità intera, buoni e cattivi, poveri e imperatori. Il viaggio di Izo non è solo un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso le epoche e i luoghi del mondo, ma è anche un viaggio psichedelico nell’irrazionalità di un regista che ha senza dubbio gravi turbe psichiche. Duelli tra guerrieri su un’autostrada percorsa da tir; samurai armati di pistola colt; un chitarrista che attacca canzoni nei momenti più improbabili: questi sono solo alcuni degli episodi che farciscono una carneficina di 128 minuti. Centinaia di morti, tra i quali uno stralunato Beat Takeshi. Il messaggio del film è l’unica cosa chiara: una feroce ed inequivoca condanna alla malvagità degli esseri umani, contrappuntata dall’inserimento ripetuto di immagini di repertorio di tanti tristi esempi della follia dell’uomo nella Storia. Solo che, fatta da un pazzo, questa condanna mette i brividi.