Due allevatori cassintegrati, quasi in risarcimento della negata indennità di licenziamento, rubano Corinto, campione taurino di riproduzione che vale un miliardo, per (s)venderlo all’Est. Come nelle opere precedenti del padovano Mazzacurati, il film parte da un’idea forte, originale, carica di potenziale metaforico _ il magnifico e mostruoso toro diventa qui l’emblema del capitalismo _ ma il racconto si rivela poi debole e sfrangiato. I temi sono indicati, ma non approfonditi. Manca di energia. Abbonda, invece, come in tanto cinema italiano degli anni ’90, un’aria lamentosa di sconfitta, rassegnazione, disorientamento. Musiche di Ivano Fossati. Leone d’argento a Venezia e Coppa Volpi a Citran come miglior attore. 2 Grolle d’oro: regia, produzione (Cecchi Gori).
Quando nel paesino di Concadalbero, alle foci del Po, arriva la nuova maestra elementare, la bella e cittadina Mara, la nebbia sembra diradarsi e gli occhi degli uomini tornano a guardare. È così per Giovanni, diciottenne al primo incarico di inviato per “Il Resto del Carlino” e per Hassan, meccanico tunisino stimato e rispettato, in una parola “integrato”. Sotto lo sguardo curioso del più giovane, nasce la storia d’amore tra i due adulti, dapprima sotto il segno dell’inquietudine (Hassan spia la ragazza al buio della sera), poi della passione, infine della tragedia.Solo trasgredendo alla regola della “giusta distanza” raccomandatagli dal direttore del giornale, che lo vorrebbe né indifferente né troppo coinvolto, Giovanni riuscirà a riportare la giustizia nel paese (l’Italia) dei giudizi scontati. Allo stesso modo, solo abbandonando la giusta distanza che gli imponevano i soggetti degli ultimi film e tornando nei luoghi dove si era manifestata vent’anni fa l’urgenza del cinema, Mazzacurati si libera dei pesanti precedenti e spicca finalmente un nuovo volo. Dopo un remake (A cavallo della tigre) e un adattamento (L’amore ritrovato, da Cassola), il regista di Notte italiana, scortato alla sceneggiatura dalle mani dolci ed esperte di Doriana Leondeff e del romanziere Claudio Piersanti, torna nel Polesine e trasforma questo quadrato di terra piatta in una tela sulla quale dimostra di sapere ancora dipingere un mondo autentico e personalissimo. Tra boschi di pioppi e battelli sul fiume, tra reminiscenze di Olmi e Fellini, l’obiettivo di Luca Bigazzi indaga un’umanità immobile e grottesca, accogliente all’apparenza ma in definitiva inospitale, che allontanerà fatalmente i tre protagonisti, chi verso la morte e chi verso una nuova vita. Questo il cuore del film, non la trama gialla, esile e amara, ma un mondo in cui il tabaccaio ha la moglie rumena e il Suv, in cui la barista è una cinese e l’autista del bus sta per sposare l’estetista. Un luogo ossessionante eppure familiare, nessun posto e ogni dove, trasfigurato in uno scenario gotico padano dalla musica originale dei Tin Hat. Il coraggio con cui Mazzacurati affida i ruoli principali a tre attori alla prima prova da protagonisti -Valentina Lodovini, Ahmed Hafiene e Giovanni Capovilla (quest’ultimo alla primissima esperienza)- viene ripagato dalla qualità della loro interpretazione e dal piacere di riconoscere il frutto di un lavoro importante, spesso trascurato ma connaturato al cinema stesso, ovvero la ricerca della giusta faccia. Tra i soliti noti, invece, spiccano Giuseppe Battiston e Fabrizio Bentivoglio in due ruoli-macchietta, sfortunatamente più veri del vero.
Vesna arriva in autobus a Trieste da un villaggio della Repubblica Ceca e non riparte. Per mantenersi si prostituisce finché a Rimini conosce un caposquadra muratore che, dopo essere stato suo cliente, le si avvicina come persona, amico, amante. Ma lei gli sfugge. Si può vendere il corpo, salvando l’anima? Mazzacurati prova a dirlo con attenzione, pudore, rispetto, senza la pretesa di penetrare nel mistero di un essere umano e di spiegarlo allo spettatore. Da una sceneggiatura che deve essere stata laboriosa (scritta dal regista, Rulli e Petragli, Umberto Contarello, Claudio Piersanti) è uscito un film sensibile, ma diseguale con molti vuoti d’aria che, cercando la corda della poesia lirica, diventa liricizzante. Vi fa macchia, comunque, il personaggio di Albanese.
Estetista e tatuatore danno la caccia a un tesoro nascosto in una sedia e intanto s’innamorano. C’è anche un prete – schiavo del gioco – che insegue il malloppo. Prodotto da Bibifilm e Rai Cinema, è l’ultimo film del padovano Mazzacurati, che l’ha scritto con Doriana Leondeff e Marco Pettenello, ispirandosi al romanzo (1928) di Il’ja Ilf ed Evgenij Petrov, già portato sullo schermo più volte. Tenuto in piedi da un ottimo e istrionico Mastandrea, è un tipico film di Mazzacurati per “il suo modo di vedere il mondo, un’umanità in bilico, antieroi che rendono straordinario l’ordinario, in cui la gentilezza vince sull’aggressività… dettando però i dettagli di un territorio che registra le difficoltà del Paese” (Miriam Mauti). Fulminee apparizioni di Albanese, Bentivoglio, Orlando, Citran e Gianluca Farinelli. Fotografia di Luca Bigazzi.
Siamo a Roma. Saverio, un dentista, incontra una ragazza di origine russa che vuole sottoporsi a un intervento urgente. L’uomo, dapprima titubante, accetta e lavora tutta la notte. Alia, la ragazza, però fugge senza compensarlo. Alcuni giorni più tardi lei chiede di essere ospitata. Nasce una passione ma poi lui scopre che è la donna di uno sbandato. Finale tragico. Bravi tutti gli interpreti principali.
Un avvocato padovano si reca nella zona del delta del Po per fare una stima su un terreno da espropriare. Sul posto conosce molte persone e scopre fatti che non immaginava. Sconvolto e deluso torna in città con una ragazza del Polesine. Esordio nella regia del padovano trentenne Mazzacurati e 1° film di Nanni Moretti produttore. Recitato bene da tutti, ricco di una galleria di figurine di contorno sullo sfondo di un paesaggio fotografato con amore, è una commedia arguta e tenera con la sordina che nel finale esonda e s’ingoffa nei toni cupi di un giallo drammatico. E c’è finalmente uno sguardo lucidamente critico sulla società italiana dei rampanti e imbecilli anni ’80. Messeri felpato. Nastro d’argento e Ciak d’oro come miglior film. Rivisto vent’anni dopo, non soltanto resiste, ma ci guadagna.
Prodotto da Procacci/Fandango, scritto con Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello, il 13° film del padovano Mazzacurati espone in agrodolce lo stato delle cose del cinema italiano nel primo 2000. Al regista/autore Gianni Dubois, da anni senza lavoro, offrono di scrivere e dirigere un film per una divetta TV. Intanto disgraziate circostanze lo obbligano, su ricatto, ad allestire in un paese toscano e in 5 giorni l’annuale sacra rappresentazione del Venerdì Santo. Anche lì, lontano da Roma, la scalogna lo perseguita e lo trascina in un vortice di malintesi, contrattempi, colpi di scena. Tutto, però, si accomoda perché Dubois – e non soltanto lui – “ci mette l’anima”. È una questione di dignità. Fu uno dei 4 film italiani in concorso a Venezia 2010, e uno dei più divertenti di tutta la Mostra. Diseguale, qua e là un po’ facile, ma vitale. Basterebbero i personaggi di Ramiro (Battiston) e Abbruscati (Guzzanti). Fotografia: Luca Bigazzi. Musiche: Carlo Crivelli.
Con La Lingua del santo Mazzacurati ci dimostra come si possa fare cinema in Italia a partire dalla tradizione ma guardando in avanti. La commedia? C’è: sia nel ritratto della provincia veneta, che nei volti dei due protagonisti, Willy/Fabrizio Bentivoglio e Antonio/Antonio Albanese. La comicità amara di tanto cinema italiano passato? C’è pure quella: in Italia non siamo mai riusciti a riderci addosso senza (anche) piangerci addosso. Il tutto si fonde bene perchè ci sono due nuovi elementi, sempre più presenti nel (futuro del) cinema italiano d’oggi: il gusto del grottesco e la voglia di comunicare sentimenti autentici, senza più nascondersi dietro le maschere di tanti passati cliché. Ed allora il road-car&bike-movie che i due protagonisti effettuano a partire dalla città di Padova, per poi finire nella collina veneta, ed infine nella laguna veneziana ci racconta sia il contesto fuori che quello dentro. Che è condensato nei volti di due simpatici falliti che, fra un furtarello e l’altro, un giorno si trovano quasi per caso a rubare un’importante reliquia, la lingua del santo.
La vita del giovane Davide: famiglia che non lo capisce proprio, la scuola difficile, i primi problemi d’amore, l’amico bosniaco e il tentativo di “migliorare” spacciando.
Durante gli anni Trenta, in un villaggio del Veneto, un ragazzino compie il suo apprendistato adolescenziale intruppandosi con una banda di ladruncoli. Parallelamente alle sue vicende, si svolgono quelle del giovane parroco, travolto dalla passione per una ragazza di facili costumi. Dal romanzo di Goffredo Parise.
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