Psichiatra affermata di Seattle si fa coinvolgere da un irriducibile giocatore d’azzardo e viene a contatto con il pittoresco e pericoloso sottobosco dei truffatori. Thriller psicologico che comincia come una commedia, si trasforma in un nero e recupera alla fine i toni ironici. Costruzione impeccabile (anche troppo). Intelligente cocktail di B. Brecht e Damon Runyon.
Ispirato a un fatto vero che fece scalpore nell’Inghilterra del 1911 e da cui nel 1946 il commediografo Terence Rattigan trasse un dramma di successo, trasposto in film due anni dopo (Tutto mi accusa). Ronnie Winslow (Edwards), allievo del Royal Naval College, viene espulso con l’accusa di aver rubato un vaglia postale di cinque scellini. Il padre banchiere (Hawthorne) assume un grande avvocato (Northam) per difenderlo contro la Corona. Commediografo prima che sceneggiatore e regista, D. Mamet si cimenta per la prima volta con un copione altrui. Dirige bene gli attori, tutti bravi o bravissimi, benché poco noti; segue fedelmente il testo di Rattigan, sottolineando come, più che l’onore familiare, sia in giuoco una questione di civiltà giuridica, ma ne prende le distanze.
Nessuno sa ideare e portare a termine un colpo con la perizia di Joe Moore (Gene Hackman): aria distaccata e sorniona, modi freddi ma gentili, è un rapinatore che riesce ad essere razionale anche sotto pressione. Nell’ultimo, geniale furto ad una gioielleria, però, il suo volto viene ripreso dalle telecamere: il colpo riesce comunque, ma Joe ritiene sia arrivato il momento di ritirarsi.Non la pensa così il ricettatore Mickey Bergman (Danny De Vito), che lo costringe a progettare un furto di lingotti d’oro caricati nella stiva di un aereo svizzero. E per essere ben sicuro che Joe non cambi idea, gli mette alle costole l’ambizioso Jimmy Silk, che non nasconde il proprio interesse per la giovane e bella moglie di Joe, Fran (Rebecca Pidgeon, per la cronaca l’attuale moglie di Mamet). Affiancato dai suoi compagni di sempre, Bobby e Pincus, Joe mette a punto un piano, o meglio, più piani di riserva, poichè qualcuno – o forse tutti – sembrano fare il doppio gioco… Presentato con successo all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, Heist è un incastro di scatole cinesi, dove ogni tranello ne nasconde un altro. David Mamet, regista e sceneggiatore ironico e tagliente, è bravo a costruire una storia complessa, dove la lealtà, dichiarata, scontata, sottintesa o tradita, è la chiave di volta per capire l’andamento della storia. È nell’evoluzione dei rapporti tra i membri della banda che si nasconde il vero giallo.
John, un professore universitario dalla brillante carriera, riceve nel suo studio Carol, una studentessa scontenta, convinta della propria stupidità. L’insegnante cerca di essere comprensivo, di aiutarla; preso da problemi personali (sta per acquistare una nuova casa) finisce col fare qualche affermazione potenzialmente ambigua. è la trasposizione cinematografica del testo teatrale scritto da David Mamet nel 1993, che l’anno seguente ne curerà la regia. Rispetto al testo, il prolifico drammaturgo e celebre sceneggiatore, mantiene la struttura divisa in tre atti; Oleanna è il titolo della canzone universitaria sulle cui note si apre e chiude la pellicola. L’azione, a parte qualche breve momento, si consuma esclusivamente all’interno dello studio del professore. La regia, volutamente asciutta, essenziale, quasi neutra, si concentra sugli attori. Perfetti William H. Macy e Debra Eisenstadt nel dare corpo ai due protagonisti: al professore, assorto nelle proprie urgenze personali tanto da commettere, probabilmente, la leggerezza di dare ascolto alla giovane senza tenere conto di un certo protocollo, e alla studentessa, con quell’iniziale balbettio nell’affannosa ricerca dell’espressione appropriata. Da una conversazione “normale” tra insegnante e allievo, si assiste all’inasprirsi della situazione e alla formulazione, da parte della ragazza, di una vera e propria accusa contro il proprio interlocutore di maschilismo, di razzismo, di molestie sessuali. Il professore è del tutto impotente e lo spettatore non può che osservarne le dinamiche rispetto al ribaltamento del proprio status, allo stravolgimento delle proprie certezze, di quelle sicurezze su cui ha costruito la propria vita: gli affetti, una certa agiatezza, il lavoro (è infatti in attesa dell’assegnazione della cattedra per cui ha lavorato duramente nel corso degli anni). Chi è il manipolatore e chi è manipolato? Nel ruotare intorno al fraintendimento del senso delle parole, Oleanna è un claustrofobico e riuscito gioco al massacro a due, una riflessione straordinariamente attuale sul potere.
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