Quando al dottor Hess Green (Stephen Tyrone Williams) viene introdotto un misterioso artefatto maledetto da un curatore d’arte, Lafayette Hightower (Elvis Nolasco), viene incontrollabilmente attirato da una nuova sete per il sangue che travolge la sua anima. Tuttavia, non è un vampiro. Lafayette soccombe rapidamente alla natura vorace di questa sofferenza che trasforma Hess. Presto la moglie di Lafayette, Ganja Hightower (Zaraah Abrahams), va in cerca del marito e viene coinvolta in una pericolosa storia d’amore con Hess che mette in discussione la natura stessa dell’amore, della dipendenza, del sesso, e dello stato della nostra società apparentemente sofisticata.
Architetto nero di New York, con moglie e figlia, ha una relazione con la segretaria italoamericana, che ha il babbo e due fratelli a carico. Male accolta nei rispettivi ambienti, la loro storia li fa espellere dalle famiglie. Passata la febbre, vi rientrano. L’intrigo, semplice, del 5° film dell’afroamericano Lee serve per affrontare 2 temi principali: i rapporti interrazziali e quello della droga (da lui condannata con lucido furore). Concretezza, lucidità, energia e irridente umorismo sono le qualità del film, al servizio dell’efficacia del disegno dei personaggi. Superba compagnia di interpreti, colonna musicale curata da Stevie Wonder con le voci di Frank Sinatra e Mahalia Jackson. Premio a Cannes per S.L. Jackson.
Attrice nera, disoccupata a New York, accetta un lavoro come voce di una chat line erotica e diventa un numero: sei (six) come sesso (sex), in arte Lovely e, diventata la prima della classe, mette da parte una paccata di dollari per pagarsi il trasferimento a Hollywood. La parte telefonica è divertente, induce a pena (per i maschietti) o mette i brividi. Ben doppiata da Laura Boccanera, la Randle è simpatica, sexy, fin troppo brava. Ma il conflitto interiore che porta la protagonista a confondere finzione e realtà è raccontato in modi stentati. Che sia un’autobiografia camuffata, quella di Suzan-Lori Parks che l’ha scritta? Ghiotte imitazioni filmiche e brevi apparizioni di John Turturro, Madonna, Quentin Tarantino, Naomi Campbell, Ron Silver. Canzoni di Prince.
Dal romanzo omonimo di Richard Price. Della morte violenta del gestore notturno di un fast food a Brooklyn (New York) si accusa un nero, onesto padre di famiglia, ma l’anziano poliziotto bianco Rocco Klein concentra le indagini su un suo fratello sedicenne che spaccia droga pesante. Sul piano del racconto realistico corale sulla cultura della droga e della violenza nei ghetti neri, alimentata dai mass media, è ineccepibile, ma su quello dei risultati espressivi rivela uno S. Lee riconciliato e un po’ incerto. In un primo tempo doveva essere diretto da Martin Scorsese che ne è uno dei produttori.
Con la promessa di uno sconto di pena Jake (Washington), condannato a vent’anni per uxoricidio involontario, ottiene sette giorni di libertà vigilata per tornare a Coney Island e convincere il figlio diciottenne Jesus (Allen), famoso e conteso giocatore di pallacanestro delle scuole superiori, ad accettare una borsa di studio della Big State University, cara al cuore del governatore dello Stato. Compito difficile: il figlio lo odia. Con questo suo film (n. 11) didattico, manicheo e predicatorio Lee conferma la sua vocazione di “fulminante moralista del mondo nero, antitradizionale predicatore della cultura sociale afroamericana contrapposta alla Gomorra dei costumi bianchi” (R. Menarini). Il basket è uno sport che si presta bene a essere filmato per molte ragioni, ma qui diventa un veicolo di comunicazione (quasi un codice simbolico-espressivo nel rapporto tra padre e figlio), metafora esistenziale, strumento di critica sociale. Nessuno aveva mai analizzato con lucidità altrettanto caustica un mondo e un sistema dominati dall’industria, dal potere, dal denaro, dalla politica dei bianchi, dai trafficoni italoamericani, dagli agenti mafiosi, dagli sfruttatori del circo mediatico.
La vita di una famiglia nera di Brooklyn nei primi anni ’70: una madre di cinque figli si ammazza di lavoro per garantire una vita decente a loro e al marito, musicista jazz senza lavoro perché rifiuta i compromessi. Più che la storia, contano i personaggi, l’ambiente, la colonna sonora (musica, ma anche voci e rumori). Scritto con la sorella Joie Susannah e il fratello Cinqué, è il film più autobiografico, più ironico e meno aggressivo di S. Lee. Un po’ troppo nostalgico, forse, ma certamente non sdolcinato. Il suo rifiuto degli stereotipi sulla vita dei neri d’America è accanito, il suo stile visivo sempre originale.
Cronaca di un viaggio di 72 ore in autobus da Los Angeles a Washington, dove il 16 ottobre 1995 si svolse la “Million Man March” che, per iniziativa del reverendo Louis Farrakhan, discusso capo della nazione dell’Islam, portò un milione di uomini afroamericani a manifestare. A bordo viaggiano 15 personaggi, tutti neri e maschi, tra i quali un padre che, per disposizione giudiziaria, tiene ammanettato il figlio adolescente sorpreso a rubare. Vicino alla meta, il vecchio Jeremiah ha un attacco cardiaco e muore all’ospedale. Per stargli vicino, i compagni rinunciano alla manifestazione. Didattico, edificante, ma anche dialettico, divertente e commovente, energico e lucido, sostenuto da un ritmo veloce che sa prendersi i suoi momenti di pausa e di riflessione. 10° film di S. Lee ha come epicentro il problema dell’identità afroamericana attraverso la differenza e la complessità contro l’autocommiserazione e il vittimismo.
Per farsi licenziare con una pingue liquidazione, uno sceneggiatore/produttore afroamericano realizza un programma di varietà TV che è un concentrato dei peggiori stereotipi del razzismo paternalista in auge negli Stati Uniti quando non ancora non vigeva la prassi del “politicamente corretto”. La trasmissione, però, ha un grande successo, specialmente tra i neri. S. Lee continua imperterrito a fare il suo cinema politicamente impegnato sul fronte dei rapporti interrazziali, “ma stavolta si è fatto prendere la mano, soffocando quanto c’era di buono nella sua idea con un furore senza confini” (F. Liberti). Notevoli, comunque, le esibizioni di S. Glover e T. Davidson. Girato in digitale. Bamboozled significa turlupinati.
In un college per neri, uno studente impegnato combatte contro l’amministrazione e contro i suoi volgari e goliardici compagni. Una specie di Animal House in versione musicale, piena di idee e di provocazioni intelligenti. Scritto, diretto e interpretato (nella parte di Half-Pint) da un promettente, giovane Spike Lee.
Dal 28 settembre al 1° ottobre 1943 il popolo napoletano sentì di avere davanti non soltanto i tedeschi del colonnello Scholl da buttar fuori, ma tutti gli oppressori stranieri del passato. Prodotto dalla Titanus, è un film corale dal ritmo largo che alterna belle pagine a ridondanze retoriche, mescolando con sagacia volti e casi privati con l’epopea collettiva. Il soggetto originale è di Vasco Pratolini. Qualche tarantella di troppo nella colonna musicale di C. Rustichelli. 3 Nastri d’argento: film (ex aequo con Salvatore Giuliano ), sceneggiatura, R. Bianchi.
Dopo l’8 settembre 1943 un gruppo di giovani italiani fa la difficile scelta della lotta partigiana e compie un’azione di sabotaggio di un ponte nella zona dei Castelli Romani. Racconto corale di ritmo sapiente, è un film sincero, acuto in certe notazioni psicologiche, appena inficiato dal bozzettismo. Buona resa degli attori. Scritto da Loy con Alfredo Giannetti.
Il giovane pistolero Requiescant si mette alla ricerca della sorella. Ma la ragazza è caduta nelle mani di un sanguinario latifondista. Requiescant, in odio al sanguinario, farà causa comune con un gruppo di peones che si sono ribellati.
Continua per Luc Besson, in veste di sceneggiatore e produttore, il percorso di unificazione tra action orientale ed occidentale. Numerosi sono infatti i legami tra The Transporter, precedente screenwriting dello stesso Besson, e Danny the Dog. Troviamo alla regia Louis Leterrier, co-regista nell’opera precedente, mentre la componente orientale Shu Qi/Corey Yuen, co-protagonista e co-regista in The Transporter, è qui bissata dall’esplosiva coppia Jet Li/Yuen Wo-Ping, protagonista e coreografo d’azione. Danny è un ragazzo allevato senza educazione civile né istruzione da un boss della malavita, che lo tiene come un vero e proprio cane. Tutto ciò che Danny conosce è la lotta, a cui è stato addestrato fin da piccolo e, vera e propria macchina da guerra, ha reazioni meccaniche ed animalesche quando viene sguinzagliato: una volta rimosso il ‘collare’, infatti, il ragazzo obbedisce ciecamente al padrone. In seguito a lotte tra bande rivali, Danny si troverà improvvisamente libero, e verrà accolto da un pianista cieco e da sua figlia; i due lo cureranno e lo aiuteranno a conoscere il mondo. Ma il suo ‘padrone’ non si sarà certo rassegnato ad averlo perso. Sul fronte dell’azione non c’è di che lamentarsi: oramai Yuen Wo-Ping viene scomodato anche per le risse al ‘Bar del Corso’, qui almeno c’è Jet Li a giustificarne la presenza. Lo stesso Jet Li, indiscusso re delle arti marziali tanto criticato per la propria inespressività, ritrova, seppur aiutato dal ruolo, quell’istintività recitativa fatta di immedesimazione puerile, tanto apprezzata nei vari The Legend of Fong Sai-Yuk o in Tai Chi-Master. Con Morgan Freeman e Bob Hoskins, ci sarebbero già tutti gli ingredienti per una miscela esplosiva. Ma, sfortunatamente, così non è. Una regia attenta più alla forma che all’atmosfera gioca tutte le sue carte sul minimalismo, generando mini-climi intimistici ma rendendo il prodotto finale troppo circoscritto e privo, paradossalmente, di profondità. Racconta ma non ipnotizza, esalta ma non rilancia, costruisce per poi smontare. Dispiace per Jet Li, che non trova il boom sul mainstream, Hero a parte, dai tempi del pur sottovalutato The One; dispiace per Besson, che dovrebbe ricominciare a fare il one-man-band, dirigendo gli strepitosi soggetti che ultimamente dilapida in delega.
Dieci registi raccontano in dieci minuti una storia legata al tempo. Il racconto portante, e con un certo destino, è quello di Herzog che narra della tribù degli Uru Eu Au. Vissero nella foresta amazzonica per diecimila anni, in uno stato men che primitivo. Non conoscevano neppure i metalli. Così questa tribù si presentò nel 1981 a una spedizione di inglesi e brasiliani. La tesi di Herzog è che bastarono dieci minuti di contatto coi “civili” per distruggere quei diecimila anni di civiltà.
Una didascalia ci ricorda in quali occasioni negli Stati Uniti è stato limitato l’esercizio dei diritti civili. Una classe di un Istituto Superiore. L’insegnante chiede, dopo l’11 settembre, per quanto tempo sarebbero disposti a rinunciare ai loro diritti civili con il fine di sconfiggere il terrorismo. Cina Popolare. Un funzionario di polizia interroga una giovane donna americana impedendole di chiamare l’Ambasciata. Non è in arresto ma si vuole solo sapere da lei perché si trovi nel Paese e se per caso non stia agendo contro gli interessi della Cina. Stati Uniti. Una funzionaria dell’FBI interroga un giovane di origine araba. Non si tratta di un arresto ma si vuole sapere da lui perché si trovi nel Paese e se per caso non stia agendo contro gli interessi degli Stati Uniti. Le battute pronunciate in entrambi i casi sono le stesse. Sidney Lumet alla tenera età di 79 anni colpisce ancora con grande lucidità in questo tv movie prodotto dall’HBO. Lo spettatore viene costretto a reagire.
Una bella donna dell’alta società milanese, tradita dal marito, decide di inventarsi un amante. Ma la prima con cui si confida è proprio l’amante vera dell’uomo da lei scelto, che non perde quest’ulteriore occasione per spettegolare. La bella allora si vendicherà.
Trasposizione quasi letterale del claustrofobico, autobiografico, cannibalistico testo teatrale di Eugene O’Neill, messo in scena nel 1956. La lunga giornata è quella trascorsa nel 1912 da una famiglia in una villa di campagna del Connecticut: brutto tempo, i quattro Tyrone, chiusi in casa, mettono a nudo conflitti, speranze frustrate e fallimenti in un dramma dai risvolti disperatamente tragici. 3 giganti della recitazione (Hepburn, Richardson, Robards), ma persino il giovane Stockwell se la cava nel personaggio scritto meno bene. Teatro in scatola? Ma di classe. Fotografia del grande Boris Kaufman. Da vedere nell’originale con sottotitoli.
Un bandito messicano si unisce casualmente alle truppe di Villa e Zapata. Il comandante dell’esercito governativo, per rappresaglia, fa assassinare i suoi figli. L’uomo decide di vendicarsi, ma viene fatto prigioniero e liberato grazie all’intervento di un altro bandito. È questi, prima di morire, che lo converte alla causa della rivoluzione.
Ladybug è un agente di una misteriosa organizzazione, che gli affida incarichi oltre i confini della legalità. Non si considera un assassino: è solo colpa della sfortuna se la gente finisce per morire durante le sue imprese. Questa volta avrebbe un incarico facile facile: rubare una valigetta sullo Shinkansen, il “treno-proiettile” ad altissima velocità che collega Tokyo e Kyoto. Peccato che la valigetta sia sotto la custodia di una coppia di ciarlieri ma pure letali sicari: Lemon & Tangerine, ossia limone e mandarancio. I due hanno con loro anche il figlio della Morte Bianca, un boss criminale di origine russa che ha preso il controllo di una fazione della yakuza. Ma non è tutto: sul treno viaggia The Prince, una ragazzina solo apparentemente indifesa e con un piano machiavellico, che ricatta il giapponese Kimura perché lavori con lei. Inoltre sono della partita altri due assassini: Hornet, micidiale con i veleni, e Wolf, sicario messicano in cerca di vendetta.
Ryker evade dal carcere di St. Quentin dopo aver ucciso e ferito numerosi guardiani. Si porta appresso nella fuga un tubo d’acciaio rubato nell’infermeria del penitenziario: ritiene che in esso sia conservata una grossa quantità d’eroina. Nel cilindro, in realtà, c’è un micidiale composto a base di cobalto. La polizia inizia allora la caccia, soprattutto per recuperare il pericolosissimo tubo.
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