L’ispettore Carella indaga sulle morti di persone uccise da un misterioso cecchino. Cosa collega i delitti? Tratto da un romanzo di Ed McBain è un giallo all’americana con un intrigo complicato, realizzato con brio, ma privo di suspense. Un ottimo Trintignant nella parte di un poliziotto solo, testardo e onesto.
Il film racconta la rapina al Banco di Napoli (in largo Zandonai a Milano) del 25 settembre 1967 ad opera della banda Cavallero. Banditi a Milano è una sorta di spartiacque tra il cinema neorealista e generalista e quello ricavato dall’attualità, vale a dire che nel 1968, in pieno dominio dello spaghetti-western, dopo il peplum e contemporaneamente all’esplosione del noir all’italiana, rozzo e violento, il film di Carlo Lizzani si impone per la sua secchezza e aderenza ai fatti realmente accaduti. La sanguinosa rapina messa in atto dal bandito Cavallero, interpretato con istrionico naturalismo da Gian Maria Volontè e Don Backy è un bell’esempio di instant movie, privo lodevolmente di una visione politica di parte, come accade oggi, ma ancora sufficientemente energico, tanto da consigliarne la visione, che consente di gettare uno sguardo sull’Italia di quegli anni.
L’attraente moglie francese di uno sceneggiatore italiano disprezza il marito, troppo arrendevole ai compromessi con il produttore americano che l’ha scritturato per salvare un film diretto da un regista tedesco, Fritz Lang. Tratto dal romanzo (1954) di Alberto Moravia e maciullato nell’edizione italiana dal produttore Carlo Ponti, è un film imperniato sul rapporto classicità-modernità. Godard stravolge Moravia, criticandolo. Il suo talento lampeggia e s’impone, nonostante i tagli.
Momenti nelle vite dei componenti di un piccolo gruppo di gangster di New York distribuiti su circa 40 anni. La storia, narrata con frequente uso di flashback e flash forward, è incentrata su David “Noodles” Aronson e i suoi compagni di sempre (sono cresciuti insieme nel Lower East Side): Cockeye, Patsy e Max. Si va dagli Anni Venti al tramonto del Proibizionismo per finire agli Anni Sessanta quando Noodles, ormai anziano, torna a New York. Tutto ciò non necessariamente in quest’ordine. “C’era una volta in America non è un film sui gangster. È un film sulla nostalgia di un determinato periodo, di un determinato tipo di cinema, di una determinata letteratura. Sono certo di aver fatto “C’era una volta il mio cinema” più che C’era una volta in America“. Così Sergio Leone su uno dei capolavori più maltrattati della storia del cinema. Il regista non aveva il diritto di final cut e la distribuzione americana rimaneggiò il film in più modi fino allo scempio di risistemare la narrazione in ordine cronologico. Se c’è un film in cui il flusso temporale legato ai ricordi, ma al contempo annebbiato da un presente che si disperde nelle volute di fumo dell’oppio, è fondamentale, quel film è C’era una volta in America . Il capolavoro di Leone ha trovato una versione definitiva in cui vengono reinseriti ben 26 minuti reintegrandoli nella giusta collocazione e portando così il film alla sua vera durata. La violenza che il film non ci risparmia si conferma come elemento costitutivo di Noodles, un uomo ‘inadatto’ al presente dal quale vorrebbe sottrarsi per restare ancorato a dei ‘valori’ che ha visto scomparire un po’ alla volta. Ispirato all’autobiografia “Mano armata” di David Aaronson pubblicata da Longanesi nel 1966, il film (e di, va ricordato, sceneggiatori come Leo Benevenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco “Kim” Arcalli, Franco Ferrini e lo stesso Leone) scardina ogni linearità narrativa per entrare nello sguardo e nella memoria di un uomo a cui il ricordo porta al contempo sollievo e sofferenza. È un film proustiano nel senso più pieno del termine C’era una volta in America. Proustiano nel suo ‘farsi’ ma anche nel suo riproporsi. Offrendoci un’opportunità per ripensare, a 28 anni di distanza, non solo al cinema che, secondo Leone, non c’era più ma anche al ‘suo’ cinema. Che non c’è più. Senza facili nostalgie ma con un po’ di rimpianto.
Vengono narrate le vicende di 4 famiglie che vivono rispettivamente negli Usa, in Urss, in Germania e in Francia nel corso di 45 anni di storia che precedono, attraversano e seguono la Seconda Guerra Mondiale. La musica (che comprende, oltre a pezzi jazz e canzoni popolari, il Bolero di Ravel e brani di Chopin, Liszt, Brahms e Beethoven) fa da trait d’union tra le differenti storie. “La memoria compie al nostro posto delle scelte che intervengono sulla nostra personalità e fanno di ognuno di noi il riflesso di ciò che il nostro cervello ha immagazzinato”. Così Claude Lelouch che alla memoria affida la riuscita di questo film dalle proporzioni monumentali già nell’impianto cronologico. Si va infatti dal 1936 al 1981 e il materiale di base è fornito dai suoi ricordi personali e da ciò che gli è stato raccontato.
Daniel Blake, vedovo, 59 anni, falegname, infartuato, ha bisogno di un sussidio statale perché i medici gli vietano di tornare a lavorare. Daisy, madre di 2 bambini, si trasferisce nella sconosciuta Newcastle e ha bisogno di un lavoro. Si conoscono in un centro di impiego. Inascoltati dalla burocrazia, schiacciati da moduli online e sfiniti dalle inutili code, fanno amicizia. Un film schietto e crudo che spezza il cuore e racchiude la quintessenza di Loach: l’affermazione della dignità dell’individuo, come il titolo stesso evidenzia; la lotta per i diritti, per il lavoro, per la casa e per il cibo. E anche il tema della necessità di fare squadra perché si vince insieme, la solitudine crea disagio. Semplice e politico, esemplare nel raccontare con pacifica ribellione un tema urgente, è una critica tragicomica e spietata contro una burocrazia aziendalista, contro i tagli al welfare e contro il liberismo incontrollato. Ammirevoli prestazioni degli attori protagonisti. Palma d’Oro a Cannes.
Due cowboy di origini molto diverse si incontrano e si innamorano mentre lavorano insieme a un ranch, nell’estate del 1963. Le loro vite, però, prenderanno direzioni diverse…
Traffichino dalle scarpe spaiate è incaricato dalla moglie di un operaio dell’Italsider di trovare il marito scomparso. Nella sua traversata del ventre di Napoli lo attendono sorprese. Commedia grottesca in cui la denuncia sociale sul degrado di Napoli ha cadenze di farsa, ma sfora nel fantastico sociale e ricorre alle tecniche dell’investigazione. Scritto da Elvio Porta con il regista. Musiche di Tullio De Piscopo e Pino Daniele.
La calura è il tessuto connettivo di un’azione che si svolge dall’alba alla notte di una torrida giornata estiva sulla Bedford-Stuyvesant a Brooklyn, ha il suo epicentro in una pizzeria, il suo riferimento in una stazione radiofonica e si risolve in uno scoppio di violenza. È il 3° e il più maturo film di S. Lee: costruzione drammaturgica di ammirevole compattezza e ritmo, acuta analisi sociologica del calderone etnico nordamericano, un lucido discorso antirazzista che non indulge alla demagogia né ai buoni sentimenti, una colonna musicale (di Bill Lee, padre di Spike) di forte suggestione, affetto e rispetto per i personaggi.
Due amiche dal tempo dell’università si ritrovano sei anni dopo e passano insieme un weekend a Londra dove Hannie (Steadman) ancora abita. Disposto il racconto su 2 piani temporali, il tema di fondo è il tempo che passa: come eravamo e come siamo diventate, ossia una ricerca del tempo perduto, ma senza rimpianti né scivolate nella nostalgia. Più privato che pubblico, esistenziale più che sociale c’è un pedale di malinconia che ne innerva la piccola musica. Film di interni, nel senso letterale e metaforico della parola. Opera minore di M. Leigh? Forse, ma anche qui persegue la verità dei personaggi, dei sentimenti, dei moti del corpo e dell’anima.
Due agenti americani, Austin ed Emmett, vengono spediti come esca in Afghanistan per sventare i piani del controspionaggio sovietico. Spy-story, commedia, avventure, episodi bellici, fantapolitica, fantascienza spaziale sono tirati in ballo dal genio demenziale di J. Landis, già autore di Blues Brothers. Non è un capolavoro, ma è intelligente, divertente e utile. Fanno brevi apparizioni i registi Michael Apted, Costa-Gavras, Joel Coen, Martin Brest, Bob Swaim, Terry Gilliam e il vecchio capo dei trucchi Ray Harryhausen.
Mason (8 anni) vive con sua madre Olivia e la sorella Samantha di poco più grande ma senza il padre Mason sr., da anni separato ma rimasto comunque vicino ai ragazzi. Nonostante la madre abbia la tendenza a trovare nuovi mariti non eccezionali e costringa i figli a traslocare spesso, cambiare scuola e amicizie, lo stesso i due mantengono un rapporto forte con il padre e con lei nonostante tutto, passando 12 anni della loro vita assieme fino al momento di passare al college e di lasciare la famiglia. Boyhood è molto più di un period movie sugli ultimi 12 anni degli Stati Uniti ed è molto più di un romanzo di formazione. È addirittura molto più di un particolare esperimento cinematografico (realizzare un lungometraggio lungo più di una decade, riunendo ogni anno il cast per girare alcune scene e vederli così invecchiare realmente), è un grandissimo affresco sull’essere ragazzi americani oggi, partendo dalle radici, dalla formazione individuale, un racconto fondato quasi tutto sul concetto di famiglia, non tanto come nucleo ma come elemento centrale nella “boyhood”, l’età tra gli 8 e i 20 anni. C’è un paese intero e il suo spirito per come è vivo oggi nella storia per nulla clamorosa di Mason. In questo senso l’ultimo film di Richard Linklater non è diverso da La conquista del West, è l’epica di un popolo letta attraverso una famiglia e uno sguardo non-epico, molto disilluso e un po’ depresso (nonostante si rida tanto e ci si commuova molto di gioia). Non sono stati 12 anni fantastici probabilmente, lo stesso però Linklater non riprende un giorno di pioggia e limita i momenti duri a pochi casi isolati (come del resto pochi sono gli attimi di vera esaltazione), concentrandosi su quegli istanti di ordinario svolgimento in cui i sentimenti sono visibili, come se una luce passasse attraverso le persone e svelasse inesorabilmente quello che sentono. Nonostante sia facile paragonare questo film all’altro progetto “seriale” del regista, paradossalmente Boyhood lavora su altre componenti rispetto a quelle con cui da 20 anni (e sempre insieme a Ethan Hawke) sta raccontando la storia di Jesse e Celine con Prima dell’alba (1994), Prima del tramonto (2004) e Before midnight (2013). Quella trilogia non solo vede i protagonisti invecchiare ma anche gli spettatori e si propone di cercare un parallelo tra chi guarda e l’oggetto guardato superando il concetto di cinema generazionale per come lo conosciamo. Inoltre il racconto di una vita intera in quel caso passa attravero piccoli attimi significativi, come una sineddoche: quelle poche ore ogni dieci anni che realmente contano e tirano le somme di quanto successo fino a quel momento, aprendo nuove porte verso il futuro. Questo esperimento narrativo invece riprende l’opposto, non vuole cristallizzare intorno a dei protagonisti un sentimento immutabile nel tempo ma celebrare il cambiamento. Il suo racconto passa attraverso momenti in linea di massima ordinari o eventi poco importanti, quel che conta è il passare del tempo, cambiare realmente (non usando del trucco o un altro attore più adulto), per realizzare il sogno del cinema portato all’estremo: mostrare la vita umana mentre si svolge senza rinunciare alla forza comunicativa di un corpo vero che invecchia.
Protagonisti sono cinque estrosi malviventi, che adottano coperture ideologiche per ogni crimine: rapiscono Johnny Hallyday, cantante di successo del sistema neocapitalistico, dirottano un aereo in Africa dove sono accolti trionfalmente dalla popolazione come rivoluzionari, e infine organizzano il rapimento del Papa, chiedendo come riscatto un franco ad ogni cattolico del mondo.
Due vedovi si incontrano durante una visita al collegio dei rispettivi figli, si rivedono, si separano, si ritrovano ancora, rimanendo fondamentalmente sé stessi. È il 6° film di Lelouch il più bel fotoromanzo della storia del cinema (francese)? “Anche l’amore è inquadrato in un’ottica piccolo borghese che, inserendo il sentimentalismo del vivere quotidiano negli stilemi romantici, rasenta il Kitsch ma crea una serie di trappole sentimentali nelle quali è difficile non cadere.” Un critico francese lo definì un’autentica impresa di seduzione, un tranquillante su pellicola. Tutto è ripulito, levigato, dolce come la pelle di un bebé, fresco come l’alito Colgate. Anche la morte è ingentilita, disumanizzata. Dove non arriva la sua poetica di carosello pubblicitario, a colpi di zoom e di carrelli frenetici, subentra la musica carezzevole di Francis Lai con il suo motivo conduttore. Oscar per il miglior film straniero e Palma d’oro a Cannes. Seguito da Un uomo, una donna oggi (1986)
Una scrittrice americana viene invitata a Hollywood per assistere alla lavorazione di un film tratto da un suo romanzo. Durante il viaggio, incontra a Chicago un giovane aviatore e si sente tanto attratta di lui da perdere il treno per Hollywood.
Inspiegabile la scelta dell’uploader originale di mettere gli hardsub ita
Due finanzieri di Filadelfia sostituiscono per scommessa un manager d’assalto, bianco, con un nero spiantato senza arte né parte. Nel film c’è più astuzia che intelligenza, ma Landis lo serve in tavola con innegabile efficacia. Lo sfondo urbano di Filadelfia è strepitoso, la direzione degli attori è infallibile, anche nelle parti di contorno.
Nella primavera del 1922, il giovane Nick Carraway si trasferisce a Long Island, in una villetta che confina con la villa delle meraviglie di Gatsby, un misterioso milionario che è solito organizzare feste memorabili e del quale si dice di tutto ma si sa molto poco. Cugino della bella e sofisticata Daisy Buchanan, moglie di un ex campione di polo, Nick viene a conoscenza del passato intercorso tra Daisy e Gatsby e si presta ad ospitare un incontro tra i due, a cinque anni di distanza. Travolto dal clima ruggente dell’età del jazz, da fiumi di alcol e dalla tragedia di un amore impossibile, Nick si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano. Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l’impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale, e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com’è nella natura dei grandi classici di fare. Non c’è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei costumi che indossa, dell’architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell’epoca che incarna. E non è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle note di un r’n’b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all’epoca giocava il jazz. Ma c’è anche un’anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un’eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di Moulin Rouge. Tobey Maguire, nei panni di Nick Carraway, sembra infatti ricalcare la figura dello scrivano tragico di Ewan McGregor, al punto che il regista inventa per lui una cornice gemella e superflua, mentre il Gatsby di Leonardo Di Caprio, straordinario nella performance silenziosa e nella restituzione della solitudine del sognatore e dell’ambizioso (anche in virtù dei ruoli già indossati che si porta appresso), subisce suo malgrado la sorte del film a cui dà il nome, perdendo mistero e fascino man mano che l’orologio scorre e tentando invano di elevare la tensione alzando la voce. D’altronde, insistendo sul tema del guardare e dell’essere guardati, è il regista stesso a fornire un’indicazione per la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive per raggiungere quella luce verde al di là dell’acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat, che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d’artificio, dello “spettacolo spettacolare”, e dissuadendolo dal “pretendere troppo”, come impudentemente osa invece fare Gatsby.
Un agente della polizia deve debellare un’organizzazione di contrabbando, guidata da un avido affarista e da un vecchio aviatore americano alcolizzato. Innamoratosi della moglie di quest’ultimo, viene fatto oggetto di tentativi di corruzione da parte dei contrabbandieri, ai quali però resiste, riuscendo a portare a termine vittoriosamente la sua missione. Intanto l’ex aviatore è rimasto ucciso dal capobanda: vedova e poliziotto possono così andarsene insieme
Un guasto ai radar del Pentagono procurerà all’umanità un’inutile strage: appena Mosca verrà colpita da bombardieri atomici, New York sarà distrutta per ristabilire l’equilibrio. Negli anni ’60 la paura atomica era quasi una moda culturale. Girato con vigore drammatico, tiene col fiato sospeso per tutta la durata. Ottimo Fonda.
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