Non si tratta di un film sul jazz, se così fosse sarebbe un fallimento. Sul piano del sesso sarebbe inferiore a Lola Darlin’, sempre diretto da questo piccolo genio. Volendo parlare di un jazzista senza percorrere le strade classiche, il regista cade però in altri tranelli come i personaggi cattivi impersonati da due strozzini ebrei. Bleek Gilliam divide il suo amore tra due donne, Indigo e Clarke. Presuntuoso ed egoista, le perde entrambe e subisce un incidente al labbro che ridimensiona le sue possibilità di suonare la tromba. Dopo essersi pentito avrà un figlio da Indigo che chiamerà Miles in onore del musicista Miles Davis
Remake del film di Chan-wook Park (2003), liberamente tratto dal manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki: 1993, odioso pubblicitario cialtrone, incline all’alcol, pessimo padre e marito, è rapito e rinchiuso in una stanza nella quale resta 20 anni. Nutrito e accudito. Unica compagnia, un televisore dal quale apprende che sua moglie è stata assassinata – unico accusato, lui – e la figlia di 3 anni adottata. Quando riesce a evadere (o così crede) si dedica a scoprire chi e perché gli ha fatto ciò e a vendicarsi. Tremendo finale. Teso thriller, intriso di melò con le fosche tinte di una tragedia greca: sceneggiato da Mark Protosevic, è più lineare e meno grottesco della versione coreana, violento e sanguinario, più realistico nel suo non realismo. Distribuito da Universal.
Preferibile la versione originale di Chan-wook Park ma buona anche questa
Un film di guerra così non si era mai fatto. È il 1° sulla 92ª Divisione dei Buffalo Soldiers, l’unica dell’intera US Army che durante la guerra 1939-45 – quando furono reclutati 1 milione di cittadini afroamericani adibiti ai servizi nelle retrovie – fece parte della Quinta Armata, impiegata sul fronte italiano e formata da 15 000 fanti agli ordini di ufficiali bianchi, spesso sudisti. Quello dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (Lucca, 12-8-1944: 560 vittime civili tra cui donne, bambini e il parroco) è solo un episodio nella storia di 4 fanti della Buffalo bloccati, al di là delle linee nemiche, in un paese della valle del Serchio che attraversa la Garfagnana. Uno dei 4 porta con sé un bambino italiano scampato alla strage. Scritto da James McBride (da un suo romanzo del 1993) con Francesco Bruni, è un film corale e complesso, polemico e favolistico. Sullo sfondo storico s’innestano varie storie private. Agli orrori della guerra e alla polemica sul modo con cui erano trattati e mandati al macello i Buffalo Soldiers dai loro superiori bianchi, si alternano episodi di compassione, amicizia, dignità, differenza di pelle e di lingua con la popolazione dell’Appennino tosco-emiliano. Purtroppo è un film riuscito a metà. A una 1ª parte dove quasi tutto funziona, coinvolge e convince, segue una 2ª in cui quasi tutto ha un suono falso, approssimativo, convenzionale e turgido fino a diventare inverosimile e confuso nella battaglia nel paese. Lee ha saputo raccontare con brio gli italoamericani perché li ha frequentati nel Bronx, ma non ha la più pallida idea di quel che sono e soprattutto di quel che erano gli italiani nel 1944. E che dire del finale sdolcinato in riva al mare che si contrappone al fulmineo avvio nell’ufficio postale di Harlem 1983?
Nera, bella, con tre uomini, Lola è una ragazza indipendente e disinibita. Tenta invano di stabilire un amichevole ménage à quatre , ma ogni uomo la vorrebbe solo per sé. Opera prima a basso costo di Lee, è una commedia libertina e tutta black , girata in bianconero con una sequenza a colori. Descrive il quadro di una piccola comunità nera senza demagogia. Belle le musiche di Bill Lee, padre di Spike.
J.H. Jack Armstrong, giovane afroamericano, quadro medio-alto di una multinazionale farmaceutica, perde il posto (e ha il conto in banca congelato) dopo aver denunciato i loschi intrallazzi di un responsabile della ricerca, provocando il suo suicidio e uno scandalo in Borsa. Si fa viva la sua ex moglie, proponendogli un compenso di 10 000 dollari per mettere incinta lei e la sua nuova fidanzata. Accetta, le accontenta, la voce si diffonde, sono tante le danarose lesbiche avide di maternità che fanno la fila. Pur ben rimunerata, la vita di Armstrong si complica. Spike Lee non aveva mai fatto un film altrettanto scombinato, pessimista e virulento che tira al bersaglio contro due aspetti dell’America di Bush (che apre il racconto): gli scandali finanziari che hanno fatto collassare giganti produttivi come Enron, Worldcom, Tyco ecc. e l’ipocrisia sociale sui valori legati al sesso. Forsennato cocktail di un moralista che mescola commedia, farsa, satira, epica, grottesco (con intermezzo disegnato sulla carica degli spermatozoi). Scritto con Michael Genet. Girato in 28 giorni a New York da Matthew Libatique in 16 mm, trasferito in internegativo digitale. Musiche di Terence Blanchard.
Dall’autobiografia di Malcolm X, redatta con la collaborazione di Alex Haley. Vita e morte dell’afroamericano Malcolm Little (Omaha, Nebraska, 1925 – New York, 1965), ragazzo di strada soprannominato Detroit Red e Satan, convertito all’Islam col nome di Malcolm X dove la “X” sta al posto del cognome perduto nel tempo, ucciso il 21 febbraio 1965 da un commando di 5 sicari. La pista dei mandanti si biforca in 2 direzioni opposte: l’FBI da una parte e l’ala radicale della Nation of Islam dall’altra. Il film di Lee contiene 3 storie: un manifesto per i neri d’America, ossia un film a programma e di propaganda; una biografia agiografica in bilico tra il musical e il gangster movie ; una parabola evangelica su un profeta e martire. A tenere insieme le tre componenti ci sono un attore (Washington con la voce di Francesco Pannofino) e la regia di un direttore d’orchestra che conosce bene la sua musica. Pur con il suo pittoresco stereotipato, i passaggi agiografici, le omissioni strumentali, i manierismi, le astuzie oratorie, è il ritratto di un principe.
Quando al dottor Hess Green (Stephen Tyrone Williams) viene introdotto un misterioso artefatto maledetto da un curatore d’arte, Lafayette Hightower (Elvis Nolasco), viene incontrollabilmente attirato da una nuova sete per il sangue che travolge la sua anima. Tuttavia, non è un vampiro. Lafayette soccombe rapidamente alla natura vorace di questa sofferenza che trasforma Hess. Presto la moglie di Lafayette, Ganja Hightower (Zaraah Abrahams), va in cerca del marito e viene coinvolta in una pericolosa storia d’amore con Hess che mette in discussione la natura stessa dell’amore, della dipendenza, del sesso, e dello stato della nostra società apparentemente sofisticata.
Architetto nero di New York, con moglie e figlia, ha una relazione con la segretaria italoamericana, che ha il babbo e due fratelli a carico. Male accolta nei rispettivi ambienti, la loro storia li fa espellere dalle famiglie. Passata la febbre, vi rientrano. L’intrigo, semplice, del 5° film dell’afroamericano Lee serve per affrontare 2 temi principali: i rapporti interrazziali e quello della droga (da lui condannata con lucido furore). Concretezza, lucidità, energia e irridente umorismo sono le qualità del film, al servizio dell’efficacia del disegno dei personaggi. Superba compagnia di interpreti, colonna musicale curata da Stevie Wonder con le voci di Frank Sinatra e Mahalia Jackson. Premio a Cannes per S.L. Jackson.
Attrice nera, disoccupata a New York, accetta un lavoro come voce di una chat line erotica e diventa un numero: sei (six) come sesso (sex), in arte Lovely e, diventata la prima della classe, mette da parte una paccata di dollari per pagarsi il trasferimento a Hollywood. La parte telefonica è divertente, induce a pena (per i maschietti) o mette i brividi. Ben doppiata da Laura Boccanera, la Randle è simpatica, sexy, fin troppo brava. Ma il conflitto interiore che porta la protagonista a confondere finzione e realtà è raccontato in modi stentati. Che sia un’autobiografia camuffata, quella di Suzan-Lori Parks che l’ha scritta? Ghiotte imitazioni filmiche e brevi apparizioni di John Turturro, Madonna, Quentin Tarantino, Naomi Campbell, Ron Silver. Canzoni di Prince.
Dal romanzo omonimo di Richard Price. Della morte violenta del gestore notturno di un fast food a Brooklyn (New York) si accusa un nero, onesto padre di famiglia, ma l’anziano poliziotto bianco Rocco Klein concentra le indagini su un suo fratello sedicenne che spaccia droga pesante. Sul piano del racconto realistico corale sulla cultura della droga e della violenza nei ghetti neri, alimentata dai mass media, è ineccepibile, ma su quello dei risultati espressivi rivela uno S. Lee riconciliato e un po’ incerto. In un primo tempo doveva essere diretto da Martin Scorsese che ne è uno dei produttori.
Con la promessa di uno sconto di pena Jake (Washington), condannato a vent’anni per uxoricidio involontario, ottiene sette giorni di libertà vigilata per tornare a Coney Island e convincere il figlio diciottenne Jesus (Allen), famoso e conteso giocatore di pallacanestro delle scuole superiori, ad accettare una borsa di studio della Big State University, cara al cuore del governatore dello Stato. Compito difficile: il figlio lo odia. Con questo suo film (n. 11) didattico, manicheo e predicatorio Lee conferma la sua vocazione di “fulminante moralista del mondo nero, antitradizionale predicatore della cultura sociale afroamericana contrapposta alla Gomorra dei costumi bianchi” (R. Menarini). Il basket è uno sport che si presta bene a essere filmato per molte ragioni, ma qui diventa un veicolo di comunicazione (quasi un codice simbolico-espressivo nel rapporto tra padre e figlio), metafora esistenziale, strumento di critica sociale. Nessuno aveva mai analizzato con lucidità altrettanto caustica un mondo e un sistema dominati dall’industria, dal potere, dal denaro, dalla politica dei bianchi, dai trafficoni italoamericani, dagli agenti mafiosi, dagli sfruttatori del circo mediatico.
La vita di una famiglia nera di Brooklyn nei primi anni ’70: una madre di cinque figli si ammazza di lavoro per garantire una vita decente a loro e al marito, musicista jazz senza lavoro perché rifiuta i compromessi. Più che la storia, contano i personaggi, l’ambiente, la colonna sonora (musica, ma anche voci e rumori). Scritto con la sorella Joie Susannah e il fratello Cinqué, è il film più autobiografico, più ironico e meno aggressivo di S. Lee. Un po’ troppo nostalgico, forse, ma certamente non sdolcinato. Il suo rifiuto degli stereotipi sulla vita dei neri d’America è accanito, il suo stile visivo sempre originale.
Cronaca di un viaggio di 72 ore in autobus da Los Angeles a Washington, dove il 16 ottobre 1995 si svolse la “Million Man March” che, per iniziativa del reverendo Louis Farrakhan, discusso capo della nazione dell’Islam, portò un milione di uomini afroamericani a manifestare. A bordo viaggiano 15 personaggi, tutti neri e maschi, tra i quali un padre che, per disposizione giudiziaria, tiene ammanettato il figlio adolescente sorpreso a rubare. Vicino alla meta, il vecchio Jeremiah ha un attacco cardiaco e muore all’ospedale. Per stargli vicino, i compagni rinunciano alla manifestazione. Didattico, edificante, ma anche dialettico, divertente e commovente, energico e lucido, sostenuto da un ritmo veloce che sa prendersi i suoi momenti di pausa e di riflessione. 10° film di S. Lee ha come epicentro il problema dell’identità afroamericana attraverso la differenza e la complessità contro l’autocommiserazione e il vittimismo.
Per farsi licenziare con una pingue liquidazione, uno sceneggiatore/produttore afroamericano realizza un programma di varietà TV che è un concentrato dei peggiori stereotipi del razzismo paternalista in auge negli Stati Uniti quando non ancora non vigeva la prassi del “politicamente corretto”. La trasmissione, però, ha un grande successo, specialmente tra i neri. S. Lee continua imperterrito a fare il suo cinema politicamente impegnato sul fronte dei rapporti interrazziali, “ma stavolta si è fatto prendere la mano, soffocando quanto c’era di buono nella sua idea con un furore senza confini” (F. Liberti). Notevoli, comunque, le esibizioni di S. Glover e T. Davidson. Girato in digitale. Bamboozled significa turlupinati.
In un college per neri, uno studente impegnato combatte contro l’amministrazione e contro i suoi volgari e goliardici compagni. Una specie di Animal House in versione musicale, piena di idee e di provocazioni intelligenti. Scritto, diretto e interpretato (nella parte di Half-Pint) da un promettente, giovane Spike Lee.
Dieci registi raccontano in dieci minuti una storia legata al tempo. Il racconto portante, e con un certo destino, è quello di Herzog che narra della tribù degli Uru Eu Au. Vissero nella foresta amazzonica per diecimila anni, in uno stato men che primitivo. Non conoscevano neppure i metalli. Così questa tribù si presentò nel 1981 a una spedizione di inglesi e brasiliani. La tesi di Herzog è che bastarono dieci minuti di contatto coi “civili” per distruggere quei diecimila anni di civiltà.
Quattro persone vestite da imbianchini entrano nell’affollata hall del Manhattan Trust, una succursale di un’istituzione finanziaria internazionale a Wall Street. Nel giro di pochi secondi, i rapinatori mascherati mettono la banca sotto un assedio pianificato con chirurgica precisione, e i 50 tra clienti e impiegati diventano involontari ostaggi di un furto inattaccabile. I negoziatori degli ostaggi della Polizia di NY, i Detective Keith Frazier e Bill Mitchell vengono mandati sul luogo con l’ordine di stabilire un contatto con il capo dei rapinatori, Dalton Russell, e di assicurare il rilascio degli ostaggi. Ma le cose non vanno come previsto.
La calura è il tessuto connettivo di un’azione che si svolge dall’alba alla notte di una torrida giornata estiva sulla Bedford-Stuyvesant a Brooklyn, ha il suo epicentro in una pizzeria, il suo riferimento in una stazione radiofonica e si risolve in uno scoppio di violenza. È il 3° e il più maturo film di S. Lee: costruzione drammaturgica di ammirevole compattezza e ritmo, acuta analisi sociologica del calderone etnico nordamericano, un lucido discorso antirazzista che non indulge alla demagogia né ai buoni sentimenti, una colonna musicale (di Bill Lee, padre di Spike) di forte suggestione, affetto e rispetto per i personaggi.
New York, dopo l’11-9-2001, mentre di notte un fascio di luce segna il vuoto lasciato dal crollo delle Twin Towers a Manhattan. S. Lee e il suo sceneggiatore David Benioff – che ha adattato un suo romanzo – usano quel vuoto quasi a commento di un altro vuoto, poco visibile ma altrettanto luttuoso, per raccontare la storia di Monty Brogan, spacciatore che ha ancora un giorno di libertà prima di entrare in carcere per sette anni. In quelle 24 ore cerca di regolare i conti con sé stesso e con gli altri. È il film più “bianco” (più di SOS Summer of Sam ) del regista afroamericano e forse il più sconsolato e privo di speranza. Il suo tema centrale è la perdita dell’innocenza, riassunta in una domanda che non riguarda soltanto Monty e gli altri personaggi (nessuno dei quali è innocente) ma tutti gli americani – afroamericani compresi -, un’intera nazione: poteva essere diversamente? Se si toglie la paura di essere violentato in carcere, il protagonista accetta con quieta rassegnazione quel che lo aspetta. Anche la sua invettiva xenofoba e misantropa allo specchio contro tutta New York e le sue componenti etniche è uno sfogo, non una ribellione. 16° lungometraggio di Lee, e uno dei più coesi, coerenti, convincenti. Musiche di Terence Blanchard. Norton ammirevolmente sotto le righe.
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