Ungheria, 1869. La polizia austro-ungarica, al comando del conte Raday, cerca di individuare, tra i gruppi di rivoluzionari del 1848 passati al brigantaggio, gli uomini – chiamati “i senza speranza” – del leggendario Sándor Rosza. Finiranno tutti sul patibolo. Presentato a Cannes 1966, il film impose il nome di Jancsó all’attenzione della critica internazionale e forma – con L’armata a cavallo (1967) e Silenzio e grido (1968) – una sorta di trilogia storico-rivoluzionaria. In tutti e 3 i film il regista isola un gruppo di personaggi in un luogo aperto e ne analizza i rapporti in una ieratica e geometrica azione, ritmata da lunghi, sinuosi piani-sequenza. All’insegna di un radicale pessimismo il suo codice poetico si definisce per una serie di rifiuti: dell’intreccio narrativo, degli aspetti più esteriori del realismo socialista (romanticismo, sentimentalismo, pompierismo epico), della psicologia, dell’illusione del realismo, dei moventi ideologici. La traduzione letterale del titolo è “Poveri giovani”.
Mark Steven Johnson. dirige un thriller ambientato sui monti Appalachi in cui De Niro interpreta Benjamin Ford, un veterinario militare americano che vive in solitudine nelle montagne boscose, cercando di dimenticare gli orrori della guerra in Bosnia in cui ha combattuto, finché una visita inaspettata di un misterioso viandante (Travolta) con cui stringerà subito amicizia, cambierà la sua esistenza.
Nel condominio di una Parigi prossima ventura, dove il degrado fisico e morale troneggia su tutto, si intersecano le storie di strani personaggi: papà, mamma e figli Tapioca che sono affetti da una fame inestinguibile; la coppia benestante che è tutta presa nei progetti di fantasiose maniere per suicidarsi; i fratelli Kube che trascorrono i giorni costruendo insoliti giocattoli e souvenir; il macellaio Clapet che scambia carne umana con sacchi di lenticchie; sua figlia Julie che coltiva la passione per la musica studiando al violoncello… Un giorno Julie si innamora di Louison, clown dall’animo innocente, giunto nel caseggiato in cerca di alloggio e disposto a pagarsi il vitto occupandosi della pulizia dei locali. Quando intuisce che il padre lo ha scelto come nuova vittima per rifornirsi di carne, la ragazza non esita ad allearsi con una banda di teppisti – i “trogloditi vegetariani” che vivono nel sottosuolo – per salvargli la vita. Atmosfere surreali sottolineate da una fotografia cupa e da un accompagnamento musicale stridente, enfatizzano le strane vicende dei protagonisti costretti a condividere un palazzo simile ad una prigione bunker, visitato da un postino pazzoide che riverbera la violenza del mondo esterno.Il pubblicitario Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, vignettista umoristico e futuro regista di Alien 4 – La clonazione, collaborano alla realizzazione di un film eccentrico e visionario che strizza l’occhio – con eclettica disinvoltura – a Gilliam, Fellini, Clair, Carné e ai fumetti post-apocalittici francesi. Accolto tra gli applausi della critica, il film inaugurerebbe la nuova stagione del “realismo magico o poetico” del cinema francese. Parabola feroce e amara dell’impossibilità di una convivenza civile, o sarcastica parodia degli stilemi di un certo fanta-horror, il film è senza dubbio un’opera originale e provocatoria, ma come tutti i film di esordio che ambiscono allo status di “pellicola d’autore” sfiora i difetti di un intellettualismo narcisistico che appesantisce il (possibile) racconto di troppi e cervellotici significati.
Basato sul romanzo breve di Harlan Ellison Un ragazzo e il suo cane (1969), la storia di un adolescente e del suo cane telepatico, in lande postapocalittiche dove sopravvivere è pericoloso. Diretto da un celebre caratterista del cinema e della tv americani (Pat Garrett e Billy the Kid, Casinò) e interpretato da un Don Johnson appena ventiseienne, un cult movie bizzarro, poco conosciuto e venerato da Quentin Tarantino.
Due film di Jarmusch in uno. Nel primo, la giovane Alice si ritrova a camminare in mezzo a una foltissima vegetazione che cresce rigogliosa dove una volta c’era il suo quartiere cittadino, ora distrutto da una guerra fantomatica; nella seconda parte, un cortometraggio, un italiano e un americano fanno conoscenza bevendo un caffè e fumando una sigaretta. Molto stralunato e pessimistico il primo, divertente il secondo. Coffee and Cigarettes è stato girato nel 1986, in concomitanza con Daumbailò, e dura cinque minuti. Permanent Vacation è invece il suo film di debutto, una tesi di laurea.
L’autista di bus di linea Paterson vive nell’omonima cittadina industriale (New Jersey) con la creativa e premurosa moglie Laura. Jarmusch dirige un’ode all’esistenza ordinaria nell’arco temporale di 7 giorni. Gli umori della vita si riflettono nella routine di coppia di un aspirante poeta (che adora le poesie di William Carlos Williams, nativo di Paterson) e di una solare attivissima casalinga, ossessionata dal bianco e nero. Tutti i giorni sembrano uguali. Eppure c’è una sfumatura sempre diversa in questo racconto fatto di grazia e malinconia dove i personaggi restano fedeli a loro stessi, estranei alla rassegnazione. Siamo lontani dall’autocompiacimento stanco della eccentrica coppia di vampiri Swinton-Hiddleston, ma anche dai guizzi geniali che hanno caratterizzato la cinematografia del talentuoso regista.
Dopo i remoti gigli spezzati (1919) di D.W. Griffith, ecco i fiori rotti con cui J. Jarmusch, coerente cineasta “off Hollywood”, vinse il premio della giuria a Cannes 2005. Maturo e intristito Don Giovanni che ha fatto i soldi con i computer, Don Johnston riceve una lettera anonima dove gli si rivela che 20 anni prima ha contribuito a mettere al mondo un figlio maschio. Spinto da un amico etiope, detective dilettante, e da un inconfessato desiderio di paternità, parte per incontrare le 4 donne che potrebbe aver messo incinte. Ma, come dice egli stesso (con una battuta trovata da Jarmusch in una lettera dal carcere di Gramsci), il passato non può essere recuperato né fondare il futuro: conta soltanto il presente. Impregnato di una densa malinconia che ha anche una funzione conoscitiva, svariante nei toni che passano dall’ironia al sarcasmo, dall’elegia all’analisi critica, è un film di lineare e calma semplicità, eppure ricco di sottrazioni e di piccoli dettagli che si sommano tra loro, dipanando una storia in immagini piane e significative che indagano su una certa dimensione della società statunitense. Gli fa da motore il laconico B. Murray con i suoi tragicomici silenzi e quella miscela di malinconia e malignità che lo rendono un attore unico. In grande forma l’intero reparto femminile. Fotografia: Frederick Elmes. Scene: Mark Friedberg. Distribuzione: Mikado.
Il viaggio clandestino dal Montana a Washington D.C., su un treno merci e poi su un TIR, di un genio di 10 anni, figlio di un cowboy e di una casalinga entomologa. Va a ritirare un prestigioso premio scientifico per aver inventato una macchina a moto perpetuo. Si porta dentro il trauma della misteriosa morte del gemello, suo opposto e preferito del padre. Dal romanzo La mappa dei miei sogni (2009) di R. Larsen, sceneggiato dal regista con Guillaume Laurant. È una favola verosimile, in cadenze di commedia con sottotraccia tragica, che racconta un avventuroso viaggio di iniziazione alla maggiore età. Ma è anche una mordace critica, e un rifiuto ben motivato, del sogno di successo oggi imperante. Jeunet conferma la sua originalità inventiva e la sua raffinatezza estetica, per la 1ª volta in 3D. Fotografia di Thomas Hardmeier.
In un porto in rovina i Ciclopi, banda di criminali ciechi, rapiscono bambini per consegnarli ai Krank che ne risucchiano il cervello per ricavarne i sogni di cui per il precoce invecchiamento sono ormai incapaci. In cambio ne ottengono occhi artificiali. Tra i rapiti c’è il piccolo Denrée, fratellino adottivo del buon gigante One che, aiutato dalla vivace Miette di nove anni, lo ritrova e sconfigge i Krank. Ancor più bizzarro del precedente Delicatessen , è una favola gotica ricca di rimandi letterari e pittorici, imperniata su tipici temi della letteratura per l’infanzia. Contributi audiovisivi di prim’ordine: fotografia: Darius Khondji, musiche: Angelo Badalamenti, costumi: Jean-Paul Gaultier. Effetti speciali di insolita raffinatezza e invenzioni di sofisticata ingegnosità: le pulci assassine, i cloni che ballano la rumba, le perfide sorelle siamesi. Scritto da J.-P. Jeunet e Max Caro, che ne ha curato anche la direzione artistica, con Gilles Adrien. In concorso a Cannes, divise la critica. Inosservato in Italia.
Quando è ancora bambino, Bazil riconosce fra le foto che documentano la morte del padre, saltato in aria con una mina antiuomo durante una missione in Marocco, il marchio di una fabbrica di armamenti. Da grande, mentre fa il turno di notte a un videonoleggio, viene colpito alla fronte da una pallottola volante durante una sparatoria. Salvo per miracolo, Bazil si ritrova senza casa e senza lavoro, con la sola certezza che il proiettile che lo ha colpito e che ancora sta nella sua testa proviene da un’altra fabbrica d’armi. Dopo qualche notte trascorsa lungo la Senna e qualche giorno passato a fare l’artista di strada, viene invitato da un barbone a entrare a far parte di una famiglia di clochard creativi che vivono in un mondo di materiali riciclati. Assieme a loro, Bazil medita la sua vendetta contro i potenti signori della guerra. I favolosi mondi di Jean Pierre Jeunet più invecchiano e più si fanno giovanili, gioiosamente immaturi. Allo stesso tempo, più le loro ambientazioni vanno collocandosi nel mondo reale (dai paesaggi postatomici di Delicatessen e La città perduta si passa alla Parigi contemporanea di Amélie e a quella pre-bellica di Una lunga domenica di passioni) e più le sue storie paiono trasformarsi in fiabe, racconti edificanti di personaggi in balia di un “favoloso destino”. Sempre meno dark e ciniche e sempre più giallo pastello o virate a seppia, le favole di Jeunet non smentiscono tuttavia un peculiare interesse per alieni e burattini. In L’esplosivo piano di Bazil lo ritroviamo nella banda dei clochard di Tire-Larigot, praticamente una summa di tutti i personaggi finora incontrati nelle sue opere precedenti: adulti bizzarri e mai cresciuti, freak dall’animo puro e un po’ autistico, artisti geniali in un mondo immaginario fatto di scarti e recuperi presi dal cinema e dai cartoni animati. Proprio come nei mondi dell’animazione, ognuna di queste bislacche marionette fa del proprio infantilismo e della sua ingenuità un punto di forza, la leva motrice per concepire trappole, invenzioni fantasiose e progettare una vendetta al contempo personale e universale contro due ricchi magnati dell’industria bellica. A sua volta, Jeunet converte in modo definitivo questa “regressione infantile” dei suoi personaggi in una questione di stile, lavorando principalmente su gag e dinamiche recuperate con inventiva dal muto e dal dominio di possibilità più elastiche e leggere della comicità slapstick. Ancor più degli altri film di Jeunet, L’esplosivo piano di Bazil diventa perciò un lungo gioco, una recita di adulti bambini piena di idee fantasiose e affidata a un gruppo di grandi caratteristi guidati da un attore dalle fenomenali capacità mimiche come Dany Boon. L’espressività del creatore di Giù al nord trasforma Bazil in un eroe tenero e romantico a metà fra Chaplin e Bugs Bunny. In una tale avventura dalle possibilità infinite e surreali, Jeunet può dispiegare tutto il suo fantasioso arsenale di idee estrose e di brillanti creazioni. Tanto farsesco da suscitare qualche perplessità di fronte all’ingresso brutale dei drammi reali (le foto dei bambini mutilati). Eppure tanto incredibilmente immaginifico e pazzoide da realizzare un altro “favoloso mondo” dove solo caso e fantasia sono al potere.
Poco prima del golpe comunista bulgaro del 1944, Moth è incarcerato con una falsa accusa di omicidio. Liberato finalmente dalle costrizioni della sua ingiusta sentenza di carcerazione, si ritrova nella Sofia totalitaria degli Anni Sessanta. Rilasciato sulla parola si caccia nei guai e incappa nello stato comunista. Le sue notti frenetiche disegnano la geografia di una città ferocemente autocratica e una parata di personaggi eccentrici, mentre gli emarginati lo attirano nell’inferno del disastro.
Five girls in the South Korean port city of Incheon graduate from high school and struggle to keep their friendship alive, even as adulthood forces them down separate paths. Hae-Jo (Ji-young Ok) takes a job in the financial world, while Ji-young becomes withdrawn following a family tragedy. Twin sisters are satisfied peddling junk jewelry on the street. And despite the best efforts of Tae-hee (Bae Doo-na) to keep everyone together, the girls become increasingly distant.
40 anni dopo la canzone di David Bowie “Space Oddity” – che raccontava le peripezie di un astronauta intristito – suo figlio esordisce nella regia con un film di SF intimista a basso costo, scritto da Nathan Parker e imperniato sul tecnico Sam Bell che, da 3 anni solo su una base lunare, lavora per la multinazionale Lunar Industries per spedire ogni giorno capsule di Elio 3, energia solare più pulita di quella terrestre. Lo aiuta Gertie, robot parlante: lo consiglia, lo tiene in contatto video con moglie (che forse sta per lasciarlo) e figlia, gli serve cioccolata calda, lo rade. 2 settimane prima del rientro gli capita un incidente in jeep e scopre l’esistenza di un replicante, un altro Sam Bell. In attesa della squadra di salvataggio, i due cercano di superare la reciproca crisi d’identità. Prodotto da Trudie Styler, moglie di Sting, fotografato da Gary Show, musicato da Clint Mansell, è un film artigianale all’antica (senza computer-graphic ): una SF da camera, con un suo semplice spessore originale anche nella spettrale parte finale da incubo e delicate sfumature sui temi della solitudine e del valore della memoria. Rockwell se la cava bene nella doppia parte.
Nota vicenda della libertina e parvenue, amica di Napoleone, interpretata da una straripante e incontenibile Sofia Loren. Ricostruzione accurate e regia di un grande maestro del film storico completano il quadro di questa imponente produzione, alla fine, però, eccessivamente prolissa e vacua.
Tragicomica storia di un gendarme nato in una casa tagliata in due dal confine tra Italia e Francia. Un contrabbandiere approfitta della situazione e lo denuncia come apolide; gli fa annullare il matrimonio e perdere il posto.
Dal romanzo di Stendhal. La versione italiana è divisa in due episodi: Ombra del patibolo e Amanti senza speranza. Protagonista è il giovane Fabrizio del Dongo che, dopo aver combattuto nelle armate napoleoniche, va ad abitare a Parma presso la giovane zia, la Sanseverina. La zia è corteggiata da molto tempo senza fortuna dal malefico tiranno del ducato, ma si offrirà a lui il giorno in cui Fabrizio, cacciatosi nei guai, sta per essere messo a morte. Non ci sarà bisogno del sacrificio della zietta: il tiranno viene ucciso da un brigante di strada.
Nella Francia prerivoluzionaria, un nobile vive una doppia identità di gentiluomo e brigante. La polizia gli dà la caccia, ma senza poterlo mai catturare: un fratello gemello permette infatti al “Tulipano Nero” di avere sempre ottimi alibi.
Come si rieduca un malvagio naziskin danese quarantenne in libertà vigilata che, accolto in una improbabile microcomunità di rieducazione annessa a una chiesa protestante, si trova alle prese con la problematica metafisica dell’esistenza di Dio e del Diavolo. In vari modi gli altri sono fuori di testa: un pastore protestante con tumore al cervello; un ex tennista obeso, alcolista, stupratore e cleptomane; un rapinatore di benzinai pakistano in odio alle multinazionali del petrolio e una scarmigliata donna alla deriva. E il figlioletto del pastore, paralizzato in testa e nel corpo. Se volete un film politicamente scorretto, stravagante, sull’orlo del delirio, non mai banale e imprevedibile. 4 Oscar danesi 2006 (film, sceneggiatura, effetti speciali, pubblico) e nel 2005 premi al Festival di Amburgo, Courmayeur, Reykjavik, San Paolo, Sundance, Varsavia. Tutto fa perno su un albero di mele da cui cavare una torta.
Castella, ricco e incolto industriale, assiste di malavoglia a una recita della tragedia Berenice (1670) e s’innamora della prima attrice da cui prende lezioni di inglese. Racine cambia la sua vita e, indirettamente, quelle di sua moglie, dell’autista e della guardia del corpo al suo servizio, di una barista che spaccia marijuana. Felice esordio nella regia dell’ebrea tunisina Jaoui, sceneggiatrice emerita (l’ultimo Resnais e Aria di famiglia ) e attrice deliziosa, con un’agrodolce commedia dal titolo che significa anche il gusto per gli altri, perché vi coabitano personaggi di ambienti sociali diversi tra cui la comunicazione è difficile. Il suoi temi sono il settarismo, lo spirito di gruppo, la dittatura del gusto, le pene d’amore. Miscela rara di psicologia e sociologia, crudeltà e compassione, solidità di costruzione e cura infallibile delle sfumature, semplicità e raffinatezza. Si ride delle situazioni e dei personaggi e subito dopo si soffre con loro perché ciascuno ha le sue ragioni. Scritta in tandem con Bacri, come al solito. La regia della Jaoui è più inventiva di quel che sembra. Grande successo in Francia.
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