Forse sulla scia del successo dell’americano The Day After, la televisione inglese produce la cronaca immaginaria del “dopo bomba” in Inghilterra. Con freddo stile documentaristico, il regista Mick Jackson racconta il dramma della popolazione di Sheffield investita da un’improvvisa deflagrazione atomica, mostrando sullo schermo scene di morte, sofferenza e devastazione con una cura accentuata per il dettaglio sensazionalistico. La critica dice che il film non lascia niente all’immaginazione: dai bozzetti familiari di vita quotidiana si passa alla impietosa rappresentazione della distruzione prospettando un futuro senza speranze per coloro che sono sopravvissuti alle radiazioni.
A Norristown, in Pennsylvania, fra villette a schiera e campi di granturco, vive la famiglia Salmon. Susie, la primogenita, è un’adolescente qualunque, appassionata di fotografia e innamorata del compagno di scuola Ray Singh. Il 6 dicembre 1973, dopo aver avuto il suo primo incontro romantico con lui, Susie viene fermata sulla strada di casa dal vicino, il signor Harvey, tranquillo ometto di mezza età con la passione per le case di bambola. Dopo averla fatta entrare in un piccolo rifugio sotterraneo da lui stesso costruito, Harvey la violenta e la uccide brutalmente. Lo spirito di Susie si trova così a muoversi fra la terra e il cielo in una sorta di limbo fatto di ricordi e di fantasie, da dove può vedere e patire per quel che succede ai suoi cari e al suo omicida nel mondo mortale.
I “fast food” esistono anche su un pianeta molto lontano dal nostro: peccato che Lord Crumb, proprietario di un’importante catena galattica, abbia preso di mira la Terra: dove intende sterminarne gli abitanti per poter così offrire carne fresca ai suoi clienti.
Frank Goode è un ex operaio in pensione e ora vedovo. I suoi quattro figli, che avrebbero dovuto raggiungerlo e per i quali sta preparando una festosa accoglienza, accampando le più diverse motivazioni si defilano. Frank, nonostante il parere contrario del medico, decide che, se loro non possono venire, andrà lui a trovarli facendo loro una sorpresa. Si troverà così a scoprire che le vite di coloro ai quali pensava di avere dato il meglio non sono rosee come gli avevano fatto credere. La regola secondo la quale i remake (soprattutto quelli made in Usa) sono inferiori agli originali abbisogna ogni tanto di un’eccezione. Questo Stanno tutti bene di Kirk Jones rappresenta l’eccezione. Pur seguendo piuttosto fedelmente la sceneggiatura del film di Tornatore, Jones riesce a offrirne una rilettura attuale. Grazie a un De Niro che sfugge periodicamente (e per nostra fortuna) alle commedie ‘alimentari’ che il suo agente gli propone per tirare fuori il suo lato migliore che non è stato indebolito dallo scorrere degli anni. Perché qui la tendenza degli script americani a ‘spiegare’ assume valore quando all’inizio ci viene presentata la vita metodica di Frank, ex operaio con un milione di cavi messi in sicurezza alle spalle. Quel milione di cavi che gli ha consentito di pensare che i suoi figli avrebbero vissuto un American Dream diverso dal suo. Il Frank di De Niro esprime con gli occhi, che stanno diventando sempre più delle fessure, una convinzione che ha costruito con fatica dentro di sé sentendo però nel profondo di stare mentendo a se stesso. La convinzione è quella di aver fatto il suo dovere di padre spingendo i figli a dare sempre di più e, soprattutto, a tenere il fiato sul collo a David il più refrattario e, al contempo, quello che si sentiva più in dovere di realizzare le aspettative paterne. Non si dimentica Mastroianni vedendolo in azione. Ci si accorge invece che quando una sceneggiatura valida viene rivisitata con rispetto e con un cast all’altezza (Rockwell e Barrymore in particolare) non si è fatta solo un’operazione commerciale ma le si è restituita la vitalità. Anche con quella molteplicità di finali che possono costituire il momento più commovente ma anche il più debole. Che qui viene abilmente marcato dall’ambiguità inserendolo nel contesto del Natale, ampiamente retoricizzato dal cinema americano.
Vita ribalda e vagabonda di Michelangelo Merisi (1571?-1610) detto il Caravaggio. Risse, ferimenti, omicidi, torbidi rapporti con i potenti della Chiesa e i bassifondi. Amori ambigui, morte romanzesca. Girato interamente in teatro di posa, il film attrae e respinge, affascina e irrita, talvolta sorprende. È tutto tranne che una biografia tradizionale di cui conserva tutt’al più lo schema narrativo a flashback.
Brevi episodi, intervallati da pause buie, per questo film senza montaggio, lento e affascinante, che racconta le avventure di Willie, ex profugo ungherese perfettamente integrato in un’America che non ha nulla di magico. A scombussolare la sua vita, tranquillamente scandita da una cronica mancanza di denaro, alla quale cerca di porre rimedio con il gioco d’azzardo, ci penserà una sconosciuta cugina, che gli piomba in casa all’improvviso.
Siamo durante la seconda guerra mondiale, alle prese con la costruzione della bomba atomica da parte di un gruppo di ricercatori, fra i quali il celeberrimo Robert Oppenheimer. Leslie Groves è il generale che conduce l’operazione denominata Progetto Manhattan. Dal regista di Mission e Urla del silenzio,un film un po’ prolisso anche se in parte risulta interessante. Controllata l’interpretazione di Paul Newman.
Sung-soo, agiato businessman, ha un fratello, povero e solo, di cui non ha mai rivelato l’esistenza alla propria famiglia. Di fronte all’ennesimo grido di aiuto di quest’ultimo decide di andarlo a trovare e di affrontare finalmente i propri sensi di colpa mai sopiti. La verità che è destinato a scoprire, però, è ben più inquietante e sorprendente rispetto a quanto atteso. Il brutale incipit delinea immediatamente i confini di genere del debutto di Huh Jung, iscrivendolo a pieno titolo nei canoni del nero thriller sudcoreano: disturbante, crudo e senza speranza. Cinema fortemente di genere, in cui la reiterazione di temi, personaggi e scene clou non rappresenta un problema, specie fin tanto che il pubblico premia ogni nuova uscita del filone, quasi a rivendicare con forza un primato che tanta influenza ha avuto e continua ad avere sul thriller mondiale di grande e piccolo schermo.
In Valacchia, a metà del XIX secolo, padre e figlio inseguono a cavallo un uomo, un povero diavolo fuggito dalla residenza di un dispotico Boiardo. Accusato prima di furto e poi di adulterio, Carfin, zingaro e schiavo, trova rifugio nella campagna e nella soffitta di un contadino tollerante.
Un mostro marino, la cui nascita è probabilmente imputabile allo smaltimento abusivo, avvenuto anni prima, di agenti inquinanti da parte di un’equipe di scienziati, emerge dal fiume Han, a Seul, attaccando e uccidendo i villeggianti intenti a godersi una bella giornata di sole: la creatura mutante, dopo aver mietuto numerose vittime, prende prigioniera una bambina, Hyun-seo. Nonostante l’intervento militare americano, che finirà per fare più danni che altro, sarà la disastrata famiglia della piccola a risolvere la situazione… L’impatto con The Host è al tempo stesso spiazzante ed esaltante. Sulla carta, la pellicola di Bong Joon-ho, sembra un classico “b-movie con mostro gigante e assassino”, ma mano a mano che passano i minuti, lo spettatore si rende conto di stare assistendo a uno spettacolo completamente diverso. Lo splendido script infatti, permette al film di cambiare registro narrativo con una velocità che lascia senza fiato: commedia, tragedia, azione, riflessione politico-sociale, tutti elementi mischiati assieme e atti a ottenere un genere nuovo e inclassificabile.
Bong Joon-Ho, oltre che abile sceneggiatore, si dimostra regista talentuoso, capace di regalare sequenze visionarie e memorabili (il primo attacco del mostro, l’arrivo sulla scena dell’arciera Bae Doo-na, l’inquietante finale), mentre l’eccellenza degli effetti speciali made in Weta, la peculiarità della colonna sonora e la perfetta interpretazione di tutto il cast fanno il resto. Sottesi, ma non troppo, molti temi scottanti e attuali: l’ambiente e la sua distruzione da parte dell’uomo, l’onnipresenza militare americana, il ruolo politico della Corea del Sud nello scenario globale, l’ottusità dei governi. Sopra ogni cosa, la speranza, incarnata da una famiglia di losers che lottando contro tutti e tutto, salva il mondo. Fino all’arrivo della prossima creatura…
1986. Il detective Seo è inviato da Seul in una piccola città tra le campagne coreane per indagare sugli omicidi di un serial killer, ma si scontra con l’ottusità e la superficialità dei poliziotti locali. Tratto dal romanzo di Kim Kwang-rim, si basa su una storia vera avvenuta alla fine degli anni ’80 in Corea del Sud. È un periodo difficile, gli interrogatori risentono ancora del periodo della dittatura, quando estorcere le confessioni era all’ordine del giorno. L’urgenza di trovare un colpevole a tutti i costi annebbia il giudizio dei poliziotti. Ma c’è aria di cambiamento e alcune scene lo indicano chiaramente, come quella in cui i bambini non ubbidiscono all’ordine del coprifuoco urlato dai soldati per le strade: piccoli indizi della democrazia a venire. Un buon thriller, giocato sui campi lunghi di grande respiro. Vincitore, tra gli altri, anche di 3 premi al Torino Film Festival.
Yun-ju è un nullafacente che non ha i soldi per corrompere il suo preside e diventare professore; frustrato, si sfoga con i cani del vicinato, cercando goffamente di eliminarli. Di contro Hyun-nam, giovane svampita ma di buon cuore, decide di indagare per scovare il rapitore di cani. Mascherato sotto i panni della commedia surreal-demenziale, Barking Dogs Never Bite lavora sottopelle e insinua più di un dubbio sulla sua reale natura. Commedia bizzarra o riflessione tutt’altro che banale e tutt’altro che ottimista sul quotidiano? Verrebbe da propendere per la seconda ipotesi, anche considerato il prosieguo della carriera – Memories of Murder, The Host, Mother– di uno dei maggiori talenti emersi dalla Corea del Sud di terzo millennio, quel Bong Joon-ho che si rivelerà solidissimo autore apprezzato internazionalmente e nel contempo brillante interprete dei gusti del pubblico sudcoreano, da cui sarà sistematicamente ripagato con incassi da capogiro.
È negli anfratti della vicenda, anziché nell’intreccio principale, che si coglie l’amarezza dell’analisi di Bong; un aspirante professore che deve pagare per diventarlo, la Tv come unica via per il successo dei più sfortunati in una vita altrimenti inutile, ma soprattutto le condizioni di lavoro disagiate di una donna incinta in un sistema fondamentalmente misogino come quello coreano. Nell’assurdo della superficie, invece, pullula una fauna variegata di psicosi umane, talora a livelli parossistici, come il custode che si cucina cani nello scantinato o il barbone che ripara le antenne e vive nei ripostigli del condominio. Un mondo caotico e privo di un filo logico, che porta naturalmente a solidarizzare con i reietti, i disadattati, coloro che si rifiutano di aderire a comportamenti e priorità che implicano comportamenti nel migliore dei casi stupidi, nel peggiore malvagi. Per i teneri di cuore come Hyun-nam – una giovane e già bravissima Bae Doo-na (Mr. Vendetta), di lì in avanti specializzata nella parte della ragazza stralunata – resta solo tanta frustrazione, benché questa non incrini minimamente l’ottimismo proprio dei semplici. Pregevole anche la colonna sonora, a base di un avant-jazz schizoide che si rivela appropriato per punteggiare le sequenze più folli, quelle in cui il Fato più si diverte a prendersi gioco dei personaggi, permettendo loro di incontrarsi e/o scontrarsi senza che possano mai capire – ammesso che esista – la direzione corretta da seguire.
Il regista Jarmusch, pur non apparendo del tutto in forma, si dimostra comunque sempre pungente. Cinque storie in taxi in cinque città molto diverse tra loro. A New York c’è l’attore Mueller-Stahl, che finito a Brooklyn per accompagnare un cliente, non trova più la strada del ritorno. A Roma c’è Benigni, qui troppo vicino a Il piccolo diavolo, che tra parolacce e fantasia sessuali fa quasi venire un infarto a un monsignore. A Los Angeles c’è Gena Rowlands, che lavora nel cinema e vuole far fare un provino a una tassista mascolina. A Parigi c’è Beatrice Dalle, cieca ma non troppo e infine a Helsinki un autista ha a bordo tre ubriachi.
Il capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri e veterano della guerra in Afghanistan, si risveglia su un treno di pendolari senza avere la minima idea di dove si trovi. Di fronte a lui Christina, una bella ragazza che lo conosce ma che lui non riconosce affatto. In tasca (e nello specchio) l’identità di un giovane insegnante di nome Sean Fentress. Poi l’esplosione, che squarcia il convoglio. Ma Colter non è morto, da un monitor un ufficiale donna lo informa che dovrà tornare sul treno per identificare l’attentatore e prevenire un successivo, più micidiale attacco. Ogni volta che farà ritorno sul treno avrà solo 8 minuti a disposizione. Di più non gli è dato sapere, la missione è top-secret, il suo nome: “Source Code”.
Costato più di 20 miliardi, il quinto film di Jodorowsky è una fiaba indolore. Distribuito in Italia dopo più di due anni dalla realizzazione, è stato un completo insuccesso. La grinta e gli artigli del regista sembrano essersi consumati, sperando forse di creare un prodotto di largo consumo. O’Toole rifà il personaggio perduto nelle fantasie, mentre il vero regalo del film è Omar Sharif, tornato grande attore. Due uomini coabitano nelle fogne. Meleagre è un ex nobile che filosofeggia e viene mantenuto da Dima, barbone e ladruncolo.
Un film che lascia senza parole e non perché si abbandoni solo alla musica, ma perché la prima reazione che suscita, per chi non abbia avuto la furbizia di fuggire dopo la prima mezz’ora, è il silenzio. Un silenzio pregno però di domande, prima fra tutte: come è possibile che un film del genere sia stato prodotto? Ancora: come hanno potuto artisti del livello di Alejandro Jodorowsky, ma anche un Fabrizio Gifuni e una Sonia Bergamasco, parteciparvi come attori? Ma soprattutto come pensare di farlo uscire nelle sale cinematografiche? Dopo il primo, ben più promettente Perduto Amor, Franco Battiato è andato a impelagarsi in una storia senza capo né coda, al limite fra verosimiglianza e comicità (ma inevitabilmente più vicino a questa). A parte la qualità (volutamente?) amatoriale della fotografia, del montaggio, le battute improbabili dei personaggi, l’imbarazzo più pesante sta nelle vicende della coppia di autori televisivi protagonista. Alla ricerca di studiosi, scienziati e filosofi da intervistare per il loro programma in giro per il mondo, i due incontrano uno sciamano che sottopone la Bergamasco a una seduta di ipnosi regressiva. Lei, nella vita ossessionata da Beethoven, scopre di esserne stata, in una vita precedente, il principe mecenate. Da qui un lungo flash back sugli ultimi anni di vita, le manie e le follie di questo Beethoven-Jodorowsky. E poi il finale: il ritorno alla “realtà” con la tv dell’albergo dove alloggia la troupe televisiva che annuncia il colpo di stato di un fantomatico partito democratico mondiale. A tratti didascalico, a tratti enigmatico, sempre pretenzioso e inutilmente intellettualistico.
Figlio di emigranti ebrei ucraini esiliati in Cile, Jodorowsky reimmagina la propria infanzia, conservando la verità dei personaggi ma trasponendo gli eventi in un universo poetico. In questa biografia immaginaria, Alejandrito cresce nella merceria “Ukrania” del padre, ateo e severissimo, che lo costringe a prove di resistenza fisica e coraggio eroico, mentre la madre, le cui parole escono sotto forma di canto, rappresenta un porto sicuro e sentimentale. Ma è proprio il padre, Jaime, il vero protagonista di questo poema epico che lo vede passare dallo stalinismo convinto alla fascinazione per il dittatore don Carlos Ibañez, che si era ripromesso di uccidere, fino alla redenzione e alla riscoperta di sé. C’è veramente tanto di tutto in questo racconto: ci sono l’Odissea di Omero, l’Amarcord di Fellini, il Vangelo (la parabola di Jaime lo vedrà prima storpio poi falegname poi martire), ci sono estratti dai libri dell’autore stesso e c’è la psicomagia da lui teorizzata (anche se qui mai nominata), affidata alla figura della madre, che guarisce il marito dalla peste e dall’infermità e il figlio dalla paura dell’oscurità. Il racconto è lungo, dunque, ma straordinariamente coerente nella resa visiva, nonostante le continue invenzioni sceniche e l’avvicendarsi di costumi fantasiosi e situazioni spettacolari (come la mostra canina o la morìa di pesci sulla battigia). Il ritorno del regista dopo ventitrè anni di lontananza dal cinema avviene dunque nel nome del suo spirito migliore e più apprezzato, quello surrealista o, in questo caso, soprattutto simbolista, e ha tutta l’aria di un gesto psicomagico esso stesso, dall’impatto emotivo comprovato. Si ride e ci si commuove, in un film in cui la madre crede che suo figlio sia una reincarnazione di suo padre e intanto Jodorowsky stesso adopera il talento istrionico di suo figlio Brontis per fargli interpretare suo padre, a dimostrazione di una complementarietà senza contraddizioni tra esperienza artistica e esperienza di vita (come del resto ribadisce la presenza in scena del regista demiurgo, presenza comunque discreta). Non mancano, evidentemente, le esagerazioni e gli eccessi, specie nel capitolo cristologico, o nell’evocazione del circo ma fanno parte del pacchetto e sono onorevolmente bilanciati dalla presenza di sequenze di rara bellezza (il bambino nero di lucido da scarpe) e intensità narrativa (il piccolo lucidascarpe che annega a causa della suola nuova e liscia). Jodoroswky si conferma dunque un regista che crede ancora, potentemente, nell’immagine e nella costruzione dell’inquadratura, senza però rinunciare ad una narrazione altrettanto ricca ed evocativa.
Una didascalia spiega che “topo” in spagnolo significa talpa, un animale che scava le sue gallerie nel buio e “quando arriva alla luce diventa cieco”. In questo caso l’uomo destinato a diventare cieco è una specie di eroe western che deve liberare un villaggio da quattro “maestri della pistola”.
Harlan Thrombey, romanziere, editore e carismatico patriarca di una bizzarra famiglia allargata, è morto. Scoperto dalla giovane cameriera Marta la mattina dopo un’imponente festa di compleanno per i suoi 85 anni, il cadavere eccellente ha la gola tagliata ma sembra essere il frutto di un suicidio. La lussuosa villa di campagna di Thrombey vede l’arrivo di due ispettori di polizia, dell’investigatore privato Benoit Blanc, e dei familiari del ricco imprenditore, guidati dai figli Linda e Walter e dalla nuora Joni. Con un’eredità che fa gola a ognuno di loro, e con un’indagine che gratta sotto la superficie degli eventi, la costernazione lascia velocemente il posto al sotterfugio e al pregiudizio.
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