Ghost Dog è il soprannome di un sicario di colore, che vive solitario in una sporca terrazza del New Jersey seguendo i precetti del Bushidō, il codice di comportamento del samurai. Vive semplicemente; l’unico piacere che si concede è l’allevamento dei suoi piccioni, servendo il suo signore, un mafioso italoamericano che gli aveva salvato la vita otto anni prima. Quando però, nell’adempimento di uno dei suoi « contratti », si viene a trovare faccia a faccia con la figlia del padrino, le cose si complicano.
Alla fine dell’Ottocento William Blake, giovane contabile, viaggia in treno da Cleveland (Ohio) a Machine (Arizona) alla ricerca di un impiego. Ucciso un uomo per legittima difesa, fugge braccato dai cacciatori di taglie. Lo aiuta il pellerossa Nessuno, convinto che egli sia l’omonimo poeta inglese (1757-1827). Il suo è un viaggio iniziatico verso la morte. Scritto da Jarmush che inizialmente si era scelto come cosceneggiatore Rudy Wurlitzer, importante figura della controcultura USA negli anni ’60 e ’70. È il migliore tra i visionari acid-western di quel periodo. Più che anomalo, è un film innovatore nel genere, specialmente nel rapporto con i nativi e la loro cultura. È un western lento, qua e là onirico con un BN più nero che bianco, paesaggi insoliti senza cielo, forti striature ironiche e grottesche, momenti di violenza risolti in modi sdrammatizzati, un eroe antieroico, un buffo tormentone sul tabacco che manca, dolente colonna musicale alla chitarra di Neil Young. Cerca la poesia e talvolta approda al poeticismo. 1° film di Jarmush ambientato nel passato, non urbano, attraversato dalla violenza. E il più costoso (9 milioni di dollari). 1° western in BN dopo L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Premio Felix come miglior film non europeo del 1996.
12 episodi con ambientazione fissa compongono un progetto iniziato nel 1986 e che attraverso gli anni giunge infine a compimento. Come in tutti i film ad episodi, sta allo spettatore eleggere i suoi favoriti, e in C&C c’è di che scegliere. Tanti grossi nomi prestano il loro volto all’amico Jarmusch, in un carosello di personaggi che hanno in comune tre cose: fumano, bevono caffè e parlano di cose assolutamente prive di senso. La palma d’oro per il dialogo più improbabile a Tom Waits e Iggy Pop, due tra gli individui più “storti” e indispensabili del nostro tempo. Per quanti condividono e vivono l’idea che caffè+sigarette sia il matrimonio più riuscito di sempre, potrebbe diventare un vero manifesto.
L’abuso spropositato delle risorse del pianeta ha provocato la frattura della calotta polare e lo spostamento dell’asse terrestre, scambiando il giorno con la notte e risvegliando i morti dal riposo eterno. A Centerville, da qualche parte in Ohio, il mondo chiede il conto agli uomini, divorati nei diner, dentro i motel ‘old school’ alla Psyco, nei centri di detenzione, nelle fattorie, nelle stazioni di servizio. A difendere l’ordine e la cittadina ci sono soltanto Cliff Robertson, capo della polizia di Centerville, Ronnie Peterson, agente che sembra sapere tutto di zombie e di eradicazione dei morti-viventi, e Mindy Morrison, poliziotta fifona che vorrebbe tanto fuggire lontano. Attaccati alle loro fissazioni terrene (caffè, Chardonnay, telefonini, chitarre, antidepressivi…) e risoluti a divorare ogni essere vivente, gli zombie dovranno vedersela anche con Zelda Wiston, impresaria di pompe funebri e virtuosa della katana. Spade o fucili, le cose volgono al peggio, a meno di non essere di un altro mondo…
Adam colleziona chitarre d’epoca e compone pezzi di musica elettronica, che i fan ascoltano appostati sotto la sua casa di Detroit, dalla quale pare non uscire mai. Eve vive a Tangeri, tra stoffe pregiate e libri in tutte le lingue, e trascorre le nottate in compagnia di Christopher Marlowe nel “Café Mille Et Une Nuits”. Adam e Eve sono colti, bellissimi e vampiri. Osservatori privilegiati del divenire del nostro mondo, si muovono cercando di farsi corrompere il meno possibile dalle brutture del presente, cibandosi soltanto di sangue raro di laboratorio, apprezzando il silenzio e la compagnia reciproca. Adam, solitario e sensibile, chiuso nella sua roccaforte nella città simbolo della musica ma anche delle macerie del capitalismo, sta cedendo alla malinconia più oscura, al lamento funebre, al refrain senza fine uguale a se stesso. Tocca alla donna, anima più aperta e trasformista, forse anche più edonista e impermeabile, intraprendere il viaggio notturno che non può mancare all’appello in ogni pellicola del regista di “Night on Earth” e “Mistery Train”. Solo chi ama rimane vivo; chi sa amare letteralmente per sempre, chi rispetta il mondo che abita, la sua arte, la letteratura, il progresso della scienza, il suono dei nomi. Gli altri, quelli che credono di essere vivi solo perché batte loro il cuore, quelli che hanno perso il gusto, lo sguardo e il dizionario, sono creature noiose e pericolose. Sono loro – i cosiddetti esseri umani – i veri cannibali, gli zombie: gente che si sveglia sempre troppo tardi, che usa e getta, immemore del passato, incurante del futuro, impantanata in un presente più che mai buio, anche e soprattutto alla luce del sole. Jarmush politico, Jarmush esteta, Jarmush notturno, Jarmush rock. Jarmush puro. Con Solo gli amanti sopravvivono il più elegante e sottilmente spiritoso dei registi indipendenti americani gira un elogio dell’artificio artistico come prova di reale umanità, oltre che un’ispiratissima ballata romantica, capace di raccontare ancora l’amore come un’esperienza piacevolmente debilitante, che fa vacillare le ginocchia e girare la testa come gira la puntina sul giradischi, come gira il sangue che scende nell’imbuto, come l’effetto di una droga pesante. “Funnel of love” gracchia splendidamente il pezzo di apertura. Perché allo snobismo divertito dei nomi in codice, dell’allusione agli altri vampiri illustri, delle citazioni e delle battute sul talento che non rima mai con successo, corrisponde un trattamento dell’argomento amoroso tutt’altro che snob, leggero e discreto come la camminata di Tilda Swinton e intriso di sincera empatia e lunare post-romanticismo.
È meticolosamente controllato il film di Jim Jarmush sui limiti del controllo. Un killer americano segue una serie di indizi improbabili per effettuare una misteriosa missione criminale. The Limits ha una struttura ridondante ben chiara: una serie di incontri bizzarri, delle anomalie (de Bankolé che prende due espressi in tazze separate in ogni bar), delle ricorrenze apparentemente marginali che poi convergono gradualmente (i fiammiferi, l’elicottero) e delle strizzate d’occhio (al killer di Ghost Dog, al treno o all’ossessione per il tabacco di Dead Man). Tra le apparizioni esplicitamente grottesche ci sono gli autoironici Tilda Swilton, John Hurt e Bill Murray. In una costruzione lenta e ripetitiva a restare nella mente sono soprattutto il montaggio di Jay Rabinowitz e la fotografia di una Spagna assolata di Cristopher Doyle. Ma lo spettatore che si lascia semplicemente trasportare dalle sensazioni é tutt’altro che superficiale: Jarmush ci fa viaggiare sui margini del controllo per riportarci al punto iniziale, le sensazioni appunto.
Sono tre episodi che avvengono contemporaneamente e hanno in comune lo stesso albergo dove si sistemano per la notte i personaggi delle tre vicende. Lontano da Yokohama vede come protagonisti due giovani giapponesi che adorano l’Occidente e che vanno a Memphis perché è la città di Elvis Presley. Un fantasma racconta di una giovane vedova che deve trasportare in aereo la salma del marito e incontra un pazzo che le dice di conoscere il fantasma di Elvis Presley per circuirla. In Perduti nello spazio tre rapinatori da strapazzo fuggono da un negozio di liquori dopo aver sparato al proprietario e passano la notte nell’albergo di cui sopra. Nel film appare Screemin’ J. Hawkins, grande cantante blues, poi si ode la voce di Tom Waits che fa il dj e tra gli interpreti c’è pure Joe Strummer, cantante del celebre gruppo rock dei Clash.
Brevi episodi, intervallati da pause buie, per questo film senza montaggio, lento e affascinante, che racconta le avventure di Willie, ex profugo ungherese perfettamente integrato in un’America che non ha nulla di magico. A scombussolare la sua vita, tranquillamente scandita da una cronica mancanza di denaro, alla quale cerca di porre rimedio con il gioco d’azzardo, ci penserà una sconosciuta cugina, che gli piomba in casa all’improvviso.
Il regista Jarmusch, pur non apparendo del tutto in forma, si dimostra comunque sempre pungente. Cinque storie in taxi in cinque città molto diverse tra loro. A New York c’è l’attore Mueller-Stahl, che finito a Brooklyn per accompagnare un cliente, non trova più la strada del ritorno. A Roma c’è Benigni, qui troppo vicino a Il piccolo diavolo, che tra parolacce e fantasia sessuali fa quasi venire un infarto a un monsignore. A Los Angeles c’è Gena Rowlands, che lavora nel cinema e vuole far fare un provino a una tassista mascolina. A Parigi c’è Beatrice Dalle, cieca ma non troppo e infine a Helsinki un autista ha a bordo tre ubriachi.
Dieci registi raccontano in dieci minuti una storia legata al tempo. Il racconto portante, e con un certo destino, è quello di Herzog che narra della tribù degli Uru Eu Au. Vissero nella foresta amazzonica per diecimila anni, in uno stato men che primitivo. Non conoscevano neppure i metalli. Così questa tribù si presentò nel 1981 a una spedizione di inglesi e brasiliani. La tesi di Herzog è che bastarono dieci minuti di contatto coi “civili” per distruggere quei diecimila anni di civiltà.
Un disc-jockey disoccupato alla deriva e un ruffiano meno duro di quel che pretende di essere finiscono in prigione. Nella stessa cella capita un improbabile e stralunato turista italiano dall’inglese maccheronico e patafisico. Esistono tre personaggi e una serie di luoghi, più che una storia. Partendo da una sceneggiatura con un largo margine di improvvisazione, Jarmusch mescola i generi, gli stili, i toni, ma soprattutto lascia liberi i tre attori in un gioco dove l’ironia si alterna con la buffoneria. Se si accettano le regole, è un film di una simpatia cui è difficile resistere.
Due film di Jarmusch in uno. Nel primo, la giovane Alice si ritrova a camminare in mezzo a una foltissima vegetazione che cresce rigogliosa dove una volta c’era il suo quartiere cittadino, ora distrutto da una guerra fantomatica; nella seconda parte, un cortometraggio, un italiano e un americano fanno conoscenza bevendo un caffè e fumando una sigaretta. Molto stralunato e pessimistico il primo, divertente il secondo. Coffee and Cigarettes è stato girato nel 1986, in concomitanza con Daumbailò, e dura cinque minuti. Permanent Vacation è invece il suo film di debutto, una tesi di laurea.
L’autista di bus di linea Paterson vive nell’omonima cittadina industriale (New Jersey) con la creativa e premurosa moglie Laura. Jarmusch dirige un’ode all’esistenza ordinaria nell’arco temporale di 7 giorni. Gli umori della vita si riflettono nella routine di coppia di un aspirante poeta (che adora le poesie di William Carlos Williams, nativo di Paterson) e di una solare attivissima casalinga, ossessionata dal bianco e nero. Tutti i giorni sembrano uguali. Eppure c’è una sfumatura sempre diversa in questo racconto fatto di grazia e malinconia dove i personaggi restano fedeli a loro stessi, estranei alla rassegnazione. Siamo lontani dall’autocompiacimento stanco della eccentrica coppia di vampiri Swinton-Hiddleston, ma anche dai guizzi geniali che hanno caratterizzato la cinematografia del talentuoso regista.
Dopo i remoti gigli spezzati (1919) di D.W. Griffith, ecco i fiori rotti con cui J. Jarmusch, coerente cineasta “off Hollywood”, vinse il premio della giuria a Cannes 2005. Maturo e intristito Don Giovanni che ha fatto i soldi con i computer, Don Johnston riceve una lettera anonima dove gli si rivela che 20 anni prima ha contribuito a mettere al mondo un figlio maschio. Spinto da un amico etiope, detective dilettante, e da un inconfessato desiderio di paternità, parte per incontrare le 4 donne che potrebbe aver messo incinte. Ma, come dice egli stesso (con una battuta trovata da Jarmusch in una lettera dal carcere di Gramsci), il passato non può essere recuperato né fondare il futuro: conta soltanto il presente. Impregnato di una densa malinconia che ha anche una funzione conoscitiva, svariante nei toni che passano dall’ironia al sarcasmo, dall’elegia all’analisi critica, è un film di lineare e calma semplicità, eppure ricco di sottrazioni e di piccoli dettagli che si sommano tra loro, dipanando una storia in immagini piane e significative che indagano su una certa dimensione della società statunitense. Gli fa da motore il laconico B. Murray con i suoi tragicomici silenzi e quella miscela di malinconia e malignità che lo rendono un attore unico. In grande forma l’intero reparto femminile. Fotografia: Frederick Elmes. Scene: Mark Friedberg. Distribuzione: Mikado.