Una troupe di attori inglesi viaggia attraverso città e villaggi dell’India interpretando le opere di Shakespeare, con la speranza di raccogliere i soldi sufficienti a rientrare in Inghilterra.
Dal romanzo omonimo (1910) di Edward M. Forster. Conflitto tra due mondi (due culture, due mentalità) all’interno della società londinese del primo Novecento: le due sorelle Schlegel della piccola borghesia colta e progressista e i ricchi, conservatori Wilcox, fondatori senza fasto né splendore dell’Impero. C’è anche una terza classe sociale, quella degli esclusi per censo ed educazione, rappresentata da Leonard Blast, povero e orgoglioso. La posta in gioco è Howards End, bella e scomoda dimora di campagna: appartiene ai Wilcox, passa in eredità a una delle due Schlegel e, infine, all’altra. sotto la vernice di raffinata eleganza, è un film (e un romanzo) attuale: beni immobili, sicurezza finanziaria, compagnie di assicurazione che falliscono, conflitti tra femminismo e vita domestica, attriti tra classi sociali. Premio speciale a Cannes e 3 Oscar: attrice protagonista (E. Thompson), scenografia (Luciana Arrighi) e costumi.
Regia di James Ivory. Un film Da vedere 1987 con Denholm Elliott, Hugh Grant, James Wilby, Helena Bonham Carter, Rupert Graves. Cast completoTitolo originale: Maurice. Genere Drammatico – Gran Bretagna, 1987, durata 140 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: V.M. 14 – MYmonetro 3,86 su 10 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. Dal romanzo (postumo) di E.M. Forster. Due compagni di università si innamorano tra di loro. Dopo la scuola, uno, timoroso della dura morale vittoriana, si sposa e cerca di dimenticare il suo passato omosessuale. Per l’altro è più difficile. Dopo essersi tormentato a lungo, finisce per accettare la propria identità sessuale. Ivory soddisfa la sua ambizione di portare in cinema il romanzo “proibito” di Forster, ma la tematica ormai suona un tantino scontata (dopo molti film sull’argomento).
Stevens (Hopkins) è stato per trent’anni il maggiordomo di Lord Darlington (Fox), gentiluomo formale e ingenuo e molto influente, che prima della guerra stava dalla parte dei nazisti. Quando Darlington muore la tenuta viene acquistata da certo Lewis (Reeve), americano pragmatico, …ma con un suo stile. Stevens si mette così in viaggio per riassumere l’antica governante Sara Kenton (Thompson), che se n’era andata vent’anni prima, per (infelicemente) sposarsi. La ritrova, ma le cose rimangono come sono. Nel frattempo Stevens è stato maggiordomo impeccabile, mancando persino di assistere il padre morente per non compromettere il perfetto servizio di una cena, e ignorando tutto il resto della vita, sentimenti compresi, incapace di giudicare gli errori enormi del suo padrone che, come tale, era sempre dalla parte del giusto. Il maggiordomo sembra vacillare solo quando la governante gli dichiara il suo amore, anche se subito torna formale e non riesce a liberarsi dei lacci. Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, il film è indubbiamente seducente. Ambiente, interpretazione, storia, dialogo, tutto perfetto. Del resto il nostro tempo sembra fatto apposta per farsi incantare dall’eleganza, dall’onore, dal senso del dovere, dalla limpidezza dei sentimenti, dalla forma quando aderisce alla sostanza. Efficaci anche le istantanee storiche che mostrano una società inglese snob, distaccata e ingenua e “politicamente dilettante”, capace di credere a un ministro tedesco che definisce Hitler un “uomo di pace”.
Dai romanzi Mrs. Bridge (1959) e Mr. Bridge (1969) di Evan S. Connell. Itinerario matrimoniale tra gli anni ’30 e ’40 dei coniugi Bridge di Kansas City: Walter G., avvocato di successo, conservatore in tutto, e India che vive all’ombra del marito, dedita ai tre figli, alla casa in ordine, alle buone maniere, al bridge con le amiche finché le affiora il dubbio che forse la vita potrebbe essere diversa. Sebbene la sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala, assidua complice della ditta Merchant-Ivory, ricuce i due romanzi per far posto a Newman (sotto le righe), il film è soprattutto il ritratto di Mrs. Bridge (Woodward, squisita): suo è lo struggente finale. C’è qui qualcosa di nuovo nello splendore, e nei limiti, del calligrafico cinema letterario di Ivory: una dimensione autobiografica che gli dà vibrazioni e trasalimenti proustiani. Come i coniugi Newman, Ivory appartiene alla generazione dei figli di Walter e India: il loro mondo è quello con cui hanno dovuto fare i conti.
Quando Lucy Honeychurch e sua cugina Charlotte si trovano nel loro albergo di Firenze con delle stanze senza la vista sull’Arno promessa, i signori Emerson, padre e figlio, intervengono ed offrono le loro camere. Per Lucy, che in Inghilterra ha un fidanzato ad attenderla, questo incontro non rimarrà senza conseguenze.
Ivory si ispira in questa occasione alla vita del romanziere James Jones per affrontare il tema del rapporto tra due mondi lontani e reciprocamente diffidenti come quello francese e quello americano. Lo scrittore con moglie, figli, figlio adottivo e governante vive a Parigi negli anni Sessanta e Settanta. Ivory indaga le ragioni del cuore e della ragione con la consueta abilità, ma anche con l’altrettanto consueta perfezione tendente all’algido. Così i personaggi finiscono con l’occultare lo sfondo storico/sociale dicendoci molto di se stessi, ma poco (tranne per l’accuratissima ricostruzione filologica) del periodo storico in cui vivono.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.