Per svolgere adeguatamente un’indagine sull’antisemitismo in America, un giornalista, dietro consiglio della fidanzata, si finge ebreo. Cozza inevitabilmente contro la “barriera invisibile” che si interpone tra gli appartenenti a quella razza e un certo tipo di società. Kazan svolge il suo compito onestamente, dando al film l’impronta di un documento sulle condizioni di vita degli ebrei Usa. Gregory Peck (definito dal regista uno zero di bell’aspetto) è bravo ma impersonale. Meglio di Gregory Peck recitano Dorothy McGuire e John Garfield. Il successo avuto dal film è dovuto più alla nobiltà dell’assunto che al suo intrinseco valore.
Hong Kong, 1962. I coniugi Chow e i coniugi Chan si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti contigui. Sono il signor Chow e la signora Chan a rientrare più di frequente a casa ed è così che nel giro di breve tempo scoprono che i rispettivi consorti sono amanti. La volontà di comprendere le ragioni del tradimento subito li porterà a frequentarsi sempre più spesso e a condividere le sensazioni provate.
Girando la 7ª versione cinematografica del più truce dramma di Shakespeare, il giovane regista australiano, al suo 3° LM, ha accuratamente evitato il confronto interpretativo con mostri sacri quali O. Welles, A. Kurosawa e R. Polanski, rimanendo fedele al testo shakespeariano, riprodotto nei dialoghi, e puntando tutte le sue carte sulla forma e sull’uso ben temperato della cinetecnologia: messinscena suggestiva e potente, ma anche storicamente realistica, e dunque sobria, che rende al meglio, con squisita raffinatezza estetica, i lunari e nebbiosi paesaggi, gli edifici (scenografia di Lauren Briggs-Miller, Nick Dent, Rebecca Milton, Marco Anton Restivo) e i costumi (di Jacqueline Durran), le selvagge e cruente battaglie della Scozia medievale. Decisive la fotografia di Adam Arkapaw, di vivida cupezza e la musica celtica di Jed Kurzel. Ma l’acqua della vita – in questo caso meglio sarebbe dire della morte – gli è infusa dalle intense interpretazioni di Fassbender e Cotillard, che si trasformano in posseduti dal male, e dall’altissimo livello di tutti gli altri attori, non per caso figli della grande tradizione teatrale inglese di impronta shakespeariana.
Nel 1630 il rônin (samurai errante e disoccupato) Hanshiro Tsugumo chiede a un potente signore ospitalità per potere fare seppuku (ossia harakiri) secondo il rituale prescritto. Per dissuaderlo gli si racconta la storia di Motome, un altro rônin, che tempo prima aveva fatto la stessa richiesta ed era stato obbligato a darsi la morte con un pezzo di bambù, invece che con la spada che non aveva, prima di farsi decapitare come il rito prescrive. Tsugumo rivela che Motome era suo genero e che si era già vendicato, disonorandoli, dei tre responsabili della sua morte. Morirà anche lui, eroicamente. Film di prim’ordine: alla magistrale costruzione drammaturgica, incalzante nella sua solennità, e alla suggestiva tenuta figurativa, con squarci di violenza inaudita per l’epoca, unisce una forte carica di critica sociale verso il formalismo del bushido (il codice d’onore dei samurai) e una impressionante descrizione della miseria del XVII secolo attraverso la quale traspare un discorso sul Giappone moderno.
Clean, Shaven è un filmstatunitense del 1994 scritto e diretto da Lodge Kerrigan, che cerca di affrontare obiettivamente il tema della schizofrenia e di chi ne è affetto raccontando il tentativo disperato di un uomo schizofrenico di riprendersi sua figlia dalla madreadottiva.
Il film inizia con immagini astratte e suoni allucinati. Peter Winter è stato recentemente dimesso da un istituto di salute mentale e subito dopo il rilascio si trova a fare i conti con un mondo che gli è estraneo.
Un film di Junji Kurata. Con Tsunehiko Watase, Shotaro Hayashi, David Freedman, Nobiko Sawa, Shotako Hayashi, Tomoko Kiyoshima, Maureen Peacock, Fuyukichi Maki, Catherine Laub, Hiroshi Nawa, Ginji Nakamura, Masataka Iwao, Goro Oki, Yusuke Tsukasa, Akira Moroguchi, Yukio Miyagi Titolo originale Kyoryu: Kaicho no densetsu. Drammatico, durata 90 min. – Giappone 1977. – VM 14 – MYMONETRO Terremoto 10° grado valutazione media: 2,00 su 1 recensione.
Il ritrovamento di alcune strane uova preistoriche conservate in un blocco di ghiaccio è motivo di esultanza nel mondo scientifico giapponese, ma la serie di improvvise e violentissime scosse di terremoto che accompagnano la scoperta non lascia presagire nulla di buono alla popolazione. Ed infatti, mentre il Fujiama riprende ad eruttare fuoco e fiamme, gli abitanti della regione fuggono terrorizzati all’apparizione di uno spaventoso plesiosauro emerso dal profondo degli abissi per puntare minaccioso contro di loro. Militari e scienziati non sanno quali misure adottare per fronteggiare il pericolo, ma un paleontologo è convinto che il Giappone sfuggirà alla distruzione grazie ad un provvidenziale intervento della natura. Lo studioso ha ragione: le uova si schiudono e i pterodattili che baldanzosi vengono alla luce crescono quel tanto che basta per sferrare l’attacco decisivo contro il mostro marino. Erroneamente tradotto in inglese come Legend of Dinosaurs and Monster Birds (nel film non ci sono dinosauri di sorta), Kyoryu: Kaicho no densetsu è un “kaiju eiga” senza Godzilla e l’assenza del mostro dall’alito atomico si fa sentire. Stando al giudizio dei più informati, la regia di Junji Kurata è anonima, il plesiosauro – presentato come un parente povero del mostro di Loch Ness – fa più bella figura sui manifesti che nella pellicola e l’accompagnamento musicale di Masao Yagi è un delirante miscuglio di tonalità giapponesi, jazz e ritmi country western.
Ci sono due tracce audio: ho guardato velocemente ma sembra che una sia italiano con alcune scene non doppiate ma con sub, l’altra tutta giapponese.
Sulle frizzanti musiche di Cole Porter si svolge la storia di un pirata che si finge governatore, di un attore che si finge pirata e di una ragazza che vive sognando il mare, ama il pirata come un mito e poi sposa l’attore. Uscito sui nostri schermi con ben 32 anni di ritardo, il film è l’adattamento di una commedia (1942) di S.N. Behrman piuttosto insignificante. Kelly e Garland si scatenano in una cornice scenografica eccentrica e raffinata. Almeno 3 sequenze di balletto memorabili per l’impiego dello spazio: l’esibizione nella piazza di Puerto Sebastian, “Mack the Black” e “Be a Clown” che riassume la filosofia del film.
Edit 26/2/24 sostituita versione satrip con bdrip 720p
Nella notte di Helsinki si incontrano due solitudini, quella di un operaio meccanico e di una cassiera di supermercato. Entrambi hanno il desiderio di conoscersi meglio ma un numero di telefono scritto su un foglietto viene perduto e quindi l’incontro viene rinviato mentre la loro situazione sul versante sociale non sta affatto migliorando. Soprattutto per lui che non riesce a smettere di bere alcolici.
Aki Kaurismaki chiude con questo film una quadrilogia sul lavoro iniziata nel lontano 1986 con Ombre in paradiso in cui il netturbino Nikander e la cassiera di supermercato Llona non ottenevano l’ascesa sociale sperata.
Si era poi passati ad Ariel che a sua volta non raggiungeva gli obiettivi auspicati per concludere con La fiammiferaia in cui Iris, operaia in una fabbrica di fiammiferi, finiva con l’avvelenare coloro che causavano la sua infelicità.
Sembrava dovesse trattarsi di un percorso ormai concluso nel 1989. Invece, trentaquattro anni dopo, la situazione sociale (finlandese e purtroppo non solo) richiede di tornare sul tema. I due protagonisti appartengono con pieno diritto alla galleria di personaggi che il regista ci ha fatto incontrare nel corso degli anni con la loro malinconia profonda, con dei nodi nell’animo difficili da districare ma anche, o forse proprio per questo, con il desiderio di avere qualcuno che comprenda non tanto le loro parole quanto i loro silenzi.
Ci si innamora questa volta ma non c’è, nascosto dietro le spalle, l’inganno come in Le luci della sera. C’è invece il bisogno di uscire dal grigiore di una società sempre più ripiegata su sé stessa e incapace di guardare oltre. Pronta a licenziare chi si porta a casa dal lavoro un prodotto ormai scaduto che finirebbe nella pattumiera come chi, essendosi ferito sul lavoro, viene a sua volta licenziato con il pretesto del consumo di alcol. Su questo argomento Kaurismaki, che non ha mai nascosto la sua passione per i superalcolici, torna più volte quasi volesse mettere in guardia da quello che si sta trasformando da piacere, seppure eccessivo, in doloroso segnale di un vuoto esistenziale.
Intorno ai due protagonisti (e all’amico di lui che tiene molto a che le sue esibizioni al karaoke vengano apprezzate nella giusta misura) c’è un mondo o, meglio, c’è un’Europa che deve, dopo oltre 70 anni tornare a confrontarsi con la guerra. Ogni volta che la protagonista accende la radio le notizie riguardano l’Ucraina e, in particolare, Mariupol e i bombardamenti sugli obiettivi civili.
Terza parte di una trilogia proletaria, è il ritratto di Iris che passa la vita tra la fabbrica di fiammiferi dove lavora, genitori incolori e taciturni, disinganni nei rapporti amorosi (un amore finito, un aborto). Conquistata l’indifferenza di cui è vittima, compra un topicida, consuma alcuni quieti delitti e aspetta l’arrivo dei poliziotti. Dialoghi ridotti al minimo, assenza di psicologia, attori gelidi, è un film sotto il segno di una radicale antiretorica e di un ascetismo figurativo che ricorda Bresson. Cinema disperato della sottrazione.
Licenziato dalla miniera lappone dove lavora, Taisto (T. Pajala) eredita da un compagno suicida una Cadillac bianca con cui parte verso il sud. Due balordi lo rapinano. Trova lavoro nel porto, aggredisce uno dei due che l’avevano derubato ma, non avendo denunciato il furto, finisce in carcere. Evade con il nuovo amico Mikkonen (M. Pellonpää). Per trovare il denaro necessario a espatriare fanno una rapina durante la quale muore Mikkonen. Taisto uccide i complici e, con l’amata Irmeli (S. Haavisto), s’imbarca sul cargo Ariel che parte per il Messico. “Kaurismäki si serve del suo film per passare in rassegna, a tutta velocità, tutti i generi cinematografici… A forza di rassomigliare a tutto, questo film non assomiglia a niente se non ai film di Kaurismäki” (S. Kronlund).
Dal romanzo (1955) di Vladimir Nabokov: intellettuale cinquantenne si fa mettere i sensi in fantasia da un’aizzosa quattordicenne e, per starle vicino, ne sposa la madre vedova. È una passione senza speranza, un gorgo nel quale sprofonda fino all’omicidio. Poco apprezzato dalla maggior parte dei pedanti critici dell’epoca, il 1° film britannico di Kubrick migliora ogni anno che passa: anche a livello stilistico e drammaturgico, la scrittura filmica rivela le sue qualità, reggendo il confronto con la capziosa prosa di Nabokov. Più che un dramma, è una inventiva e persino divertente commedia nera in cui si riconoscono diversi temi del successivo cinema kubrickiano. Recitazione ad alto livello con un Sellers straordinario nel suo proteiforme istrionismo. Durante le riprese la Lyon aveva 13 anni, ma col suo sessappiglio ne dimostrava 3 o 4 in più. Ridistribuito in Italia nel 1998. Rifatto nel 1997.
Melodye Amerson, una giovane insegnante, giunge in un paese situato in una valle un po’ fuori mano per lavorare nella scuola locale, ma si scontra ben presto con l’inspiegabile resistenza degli abitanti e degli scolari che sembrano intenzionati a custodire un misterioso segreto. Melodye, fiduciosa e disponibile verso il prossimo, non si lascia scoraggiare dalla fredda accoglienza.
Edit 22/2/24: ho tolto il link della versione ita perchè su segnalazione di un utente il film è risultato incompleto, ci sono solo gli ultimi 30 minuti circa.
Questa versione in inglese è di bassa qualità ma è il meglio che sono riuscito a trovare in rete. I subita sono stati tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
8 racconti (“Questi sogni che ho visto” dice il titolo giapponese), legati dalla presenza di un personaggio che parla in prima persona. I primi 2 rimandano all’infanzia dell’autore; i 3 successivi agli anni ’30 e ’40; didattici il 6° e il 7° sull’apocalisse nucleare. Le nostre preferenze personali vanno al 2° (“Il pescheto”) e all’8° (“Il villaggio dei mulini”), ma ammiriamo anche il 1° (“Sole attraverso la pioggia”), il 3° (“La tempesta”), il 5° (“Corvi” su Van Gogh con M. Scorsese); non ci dispiace il 4° (“Il tunnel”). Realizzato con la consulenza di I. Honda ( Godzilla ), l’apporto finanziario di Steven Spielberg e George Lucas, gli effetti speciali dell’Industrial Light & Magic. Ora visionario, ora tenerissimo, sempre di alto livello figurativo.
Quando il cinema incontra l’arte l’esito non è mai banale ed è sempre un arricchimento. Soprattutto se, come accade in Loving Vincent, ogni singolo fotogramma del film è realizzato a mano.
Dorota Kobiela, pittrice polacca, e il regista inglese Hugh Welchman, hanno intrapreso questa avventura sei anni fa per raccontare, attraverso uno stile da cinema noir, le ultime settimane di vita del pittore olandese trasferitosi ad Arles, in Francia, nel 1888.
Vincent Van Gogh, l’artista più noto al mondo, pioniere dell’arte contemporanea e personaggio tormentato, nel luglio 1890 si spara in un campo di grano nei pressi di Arles. Il giovane Armand Roulin, figlio del postino Roulin, unico amico di Van Gogh -, non convinto del suicidio dell’artista, ripercorre le sue ultime settimane di vita incontrando le persone che, anche nei momenti più drammatici, gli sono state vicine.
Da Adeline, la padrona di casa del pittore, a pére Tanguy, fino al pescatore o il dottore Paul Gachet e la figlia tutti rigorosamente ritratti a olio, restituendo vita all’immediato e riconoscibile stile di Van Gogh. La casa gialla, il campo di grano e i fiori azzurri, la stanza con la sedia… realizzati con pennellate vivide, colori visionari e brillanti, e quel movimento fluido tipico del tocco “vangogghiano”, si alternano al bianco e nero delle parti narrative.
Un film prodotto con tenace e minuzioso lavorìo in cui più di 100 artisti, con la tecnica del Painting Animation Work Station hanno animato un thriller interamente costituito da pittura che coinvolge totalmente lo spettatore.
XII secolo: la guerra tra i clan Minamoto e Heike impazza e il principe Yoshitsune, reduce da una vittoriosa battaglia navale, rientra alla capitale. Calunniato presso il fratello, lo shogun Yoritomo, Yoshitsune si trova costretto a fuggire, seguito da sei fedelissimi samurai. Per salvarsi dovranno attraversare il territorio nemico, senza rivelare la propria identità. Nel 1945 squassato dalla guerra appena conclusa, Kurosawa Akira riesce a confezionare tra mille difficoltà il suo primo jidai geki, un piccolo capolavoro che anticipa i temi del successivo La fortezza nascosta. Per far fronte alla scarsità di mezzi, un parco pubblico di Tokyo diviene una foresta e i cavalli spariscono dal copione in quanto irreperibili, senza contare le battaglie che il regista deve combattere con il doppio organo preposto alla censura, nipponico e statunitense. Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre riprende un classico del teatro Kabuki, e ancora prima del teatro N, sulla cosiddetta “beffa di Ataka” e ne fa una parabola sul potere e sul valore dell’uomo, che prevale su gerarchie e tradizioni costituite. L’uso dei primi piani e l’espressionismo della recitazione è figlio di un cinema ancora legato all’era del muto, ma l’efficacia delle performance attoriali non ne risulta affatto diminuita. Basta infatti un cenno del principe Togashi (interpretato da Susumu Fujita) per far capire che, nonostante la verità sui finti monaci sia trapelata, a vincere è la comprensione umana per il sacrificio di un samurai disposto a violare formalmente il codice pur di rispettarlo nella sostanza, arrivando a umiliare il proprio signore pur di metterlo in salvo. Onore e valore dell’individuo hanno così la meglio su dogmi insensati, secondo un tema che tornerà in molte opere del maestro giapponese. L’elemento peculiare de Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, aggiunto da Kurosawa, riguarda il personaggio del facchino-giullare – interpretato dal comico Enoken – che funge da coro critico, con incursioni da protagonista nella vicenda: un idiot savant clownesco – altro topos dell’autore, basti pensare a Ran – contrapposto agli ieratici samurai-monaci, che intuisce prima di altri la natura delle cose e la asseconda con il suo buon cuore. Con un finale aperto e inatteso, che ne suggerisce un nuovo ruolo nell’intera vicenda.
Un ex poliziotto compie una rapina con tre banditi. Ognuno di essi non conosce l’altro, e poiché si sono serviti di un camion uguale a quello di un innocente, questi viene arrestato e poi rilasciato. Si improvvisa allora detective
Da un romanzo di Budd Schulberg (autore anche della sceneggiatura) e articoli di Malcolm Johnson. Terry Malloy, scaricatore di porto ed ex pugile, ha per fratello il pezzo grosso di una gang che controlla il sindacato dei portuali di New York. Una faticosa crisi di coscienza lo spinge a testimoniare contro la sua corruzione criminale. Film nero _ girato per intero a New York, quasi sempre in esterni _ con forti implicazioni sociali, sottintesi etici, risvolti politici e accensioni melodrammatiche, è il trionfo dell’ambiguità di Kazan che, come Schulberg, aveva molti conti da regolare con i comunisti e li regola, imbrogliando le carte. È anche il trionfo di uno stile di recitazione, quello del Metodo, cioè dell’Actors’ Studio. Brando memorabile come il bianconero di Boris Kaufman. 7 Oscar (film, regia, sceneggiatura, fotografia, scenografia, Brando, Saint, montaggio) e un Leone d’argento a Venezia.
Dal romanzo (1952) di Howard Fast: nel 73 a.C. il gladiatore trace Spartaco promuove una rivolta di schiavi contro il governo di Roma, sconfigge una legione e si dirige verso il sud. È sconfitto dall’armata di Crasso che fa crocifiggere seimila schiavi sulla via Appia. Come film di S. Kubrick è un ibrido: troppe paternità (lo sceneggiatore Dalton Trumbo e soprattutto il produttore-attore K. Douglas che in un primo tempo aveva ingaggiato il regista Anthony Mann) e una certa eterogeneità stilistica. È poco kubrickiano il richiamo a una nozione di progresso di cui la vicenda del “primo rivoluzionario della storia” è simbolica portatrice. Gli appartiene per le scene di battaglia e di violenza (cui collaborò il grafico Saul Bass), la mescolanza di ragione e passione nei personaggi principali, la splendida direzione degli attori tra cui spiccano L. Olivier e C. Laughton. È, comunque, il migliore – e il più adulto – dei colossi storici di Hollywood. Ridistribuito nel 1991 in un’edizione restaurata con l’aggiunta di una quindicina di minuti. 4 Oscar: fotografia (Technirama 70) di Russell Matty, Ustinov attore non protagonista, scene e costumi.
A Manhattan (ricostruita in studio a Pinewood, GB) alla fine del ‘900, la quieta vita di una giovane e agiata coppia – un medico e una gallerista con una bambina – entra in crisi quando cominciano a incrociarsi desideri, fantasie sessuali, adulteri sognati o mancati. L’epilogo è pragmatico, non consolatorio. Pur nella sua sostanziale fedeltà, il 13° e ultimo film di Kubrick, sceneggiato con Frederic Raphael, reinventa il romanzo breve Traumnovelle ( Doppio sogno , 1926) di A. Schnitzler. Opera imperfetta, un po’ ripetitiva e incompiuta (nel montaggio) che a livello stilistico rifiuta ogni pathos, è leggibile in chiave ironica, psicanalitica, politica, persino filosofica come suggerisce il titolo: per vedere meglio – per accedere a un'”altra” visione – bisogna tenere gli occhi ben chiusi. Fondato sul numero 2 (la coppia, lo specchio, il doppio, ecc.), è un film che trasuda denaro nella sua impietosa descrizione dei rapporti di classe, di censo, di potere, soprattutto sui poveri e sulle donne e sui loro corpi. È forse il film più politico di Kubrick, sostenuto da quel moralismo laico, materialista, settecentesco che l’ha sempre guidato nell’esplorare territori di una frontiera “che separa, ma per ciò stesso, connette” (U. Curi). Qui la frontiera è tra realtà e sogno nel senso che la vita è strutturalmente anche sogno, non contenuto ma forma della Traumnovelle .
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