La sceneggiatura con fotografie dal film è stata pubblicata in inglese nel 1967 da Faber & Faber, tradotta in francese dall’autore nel 1972 per Les Éditions de Minuit e in italiano da Maria Giovanna Andreolli per Einaudi (1985). Le edizioni recenti contengono anche un articolo-ricordo di Alain Schneider, Com’è stato girato «Film» (1969).In una strada fatiscente si vede un uomo rifuggire affannosamente dallo sguardo della macchina da presa. Lo si vedrà inquadrato di schiena fino al finale del cortometraggio. Il personaggio (chiamato O nella sceneggiatura) subisce alcuni avversi contatti umani: scontra una coppia di passanti, raggiunto l’interno di un edificio, incontra un’anziana, tutti reagiscono sgomenti alla sua visione. Segue il rifugio in una camera dell’edificio, di cui esso possiede la chiave. Se la corsa è finita, continua l’angoscioso agire del personaggio, che si rivolge ora agli animali ed oggetti presenti nella stanza. Dopo aver preso visione del luogo cala la tendina della finestra e copre lo specchio alla parete. Ancora un’altra perlustrazione e si accomoda in una sedia a dondolo nel centro della stanza. Lo scopo di O è aprire una busta contenuta in una valigetta ed esaminarne il contenuto
Dopo vent’anni di onorato servizio in qualità di sceriffo, Jim Flagg viene messo con eccessiva fretta in pensione dai maggiorenti della sua città. Flagg abbozza, ma presto ha l’occasione per dimostrare quanto il pensionamento fosse avventato. Una banda di fuorilegge sta per compiere un grosso colpo. Flagg lo sventa con l’aiuto di un coetaneo (un fuorilegge, anche lui messo in pensione dai giovani colleghi).
Due carcerati, il bianco Johnny Jackson e il nero Noah Colleen, scappano insieme dal furgone blindato della polizia. Sono legati tra loro da una catena, ma litigano e fanno a botte in continuazione.
Roma: età di Tiberio imperatore. Il giovane e nobile Marcello ritrova a un’asta di schiavi la bella Diana, innamorata di lui da quando erano bambini. Marcello acquista lo schiavo Demetrio soffiandolo a Caligola, futuro imperatore. La vendetta non si fa attendere, Marcello è inviato come tribuno in Palestina, cioè nella terra più irrequieta di tutto l’impero. È proprio il momento dei fatti di Pilato e Gesù. Questi è condannato a morire sulla croce e l’incarico della crocefissione viene affidato proprio a Marcello che, bagnatosi col sangue del Cristo, non regge al rimorso e quasi impazzisce. Torna a Roma ricevuto da Tiberio, che dopo aver ascoltato il racconto del tribuno lo rimanda sul luogo a cercare la tunica di questo strano predicatore. Intanto Diana è stata promessa a Caligola, ma ama più che mai Marcello. In Palestina il romano ritrova Demetrio che custodiva la tunica. Marcello si è ormai convertito quando torna a Roma. Nel frattempo Caligola è diventato imperatore e non ha dimenticato. Marcello viene catturato e condannato a morte. Diana sceglie di morire con lui. La Fox aveva scelto questa storia di Lloyd Douglas dagli evidenti accenti mélo per un’importantissima operazione di cinema: La tunica doveva rappresentare la prima, vera, concreta risposta del cinema a quello che stava diventando lo strapotere della televisione. Così il film venne fotografato in cinemascope e il vecchio schermo quadrato venne praticamente moltiplicato per tre. È stata una delle più importanti invenzioni del cinema, la prima di una serie che arriva ai nostri giorni e che continuerà. La Fox era specializzata nella versione di grandi romanzi più o meno popolari (di autori come Hemingway e Fitzgerald, per esempio), realizzando una contaminazione efficace e tutto sommato positiva, anche se venivano privilegiati il sentimento e l’effetto. Anche La tunica, seppur scritto da un autore meno nobile di quelli citati, rientra perfettamente in questi concetti. Il risultato, sul piano squisitamente cinematografico, fu ottimo, il film fece grandi incassi ed ebbe la nomination per l’Oscar. Dunque si può affermare che il 1953 sia l’ultimo anno dell’era non televisiva, l’ultimo anno del cinema puro, senza condizionamenti. Il critico Mario Guidorizzi, forse con un pizzico di paradosso, nel saggio introduttivo del suo Hollywood afferma proprio che il cinema finisce nel 1953. Vale la pena ricordare i cinque titoli finalisti per gli Oscar di quell’anno: Da qui all’eternità (vincitore), Giulio Cesare, Il cavaliere della valle solitaria, Vacanze romane e, appunto, La tunica. Se era la fine di un’epoca, era uno splendido canto del cigno.
Siamo nel 1946, la seconda guerra mondiale è terminata da poco e in una piccola città – che ora fa parte della Polonia ma prima era tedesca – una giovane vedova, Emilia, incontra un soldato americano, Norman, che deve indagare sui crimini di guerra. Entrambi, sconvolti dalla guerra, arrivano lentamente a capire che il passato non conta: per quanto possa essere stato difficile e pieno di sofferenza, l’amore e la speranza sono sempre possibili. Premiato con il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Edit 20/4/24 I subita che ho integrato nel file sono difettosi e si fermano al 15° minuto. Nella cartella trovate un file .srt con i subita funzionanti (tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dei debiti dai clienti in ritardo, Kang-do si comporta come un macellaio, storpiando orribilmente le sue vittime e seminando la morte. Fino a quando non si presenta alla sua porta una donna che dice di essere la madre e si addossa la colpa di ogni suo crimine, pentita di averlo abbandonato alla nascita e lasciato crescere senza amore. Dopo averla sottoposta alle prove più terribili per accertarsi che dica la verità, Kang-do accetta finalmente la donna ma la paura di perderla lo mette, per contrappasso, nella posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime. La vita, la morte, il denaro. Per Kim Ki-duk c’è un termine di troppo, un intruso fatale. La pietà non è un trittico ma una figura sacra, che prevede solo due attanti. Il denaro non dovrebbe avere un posto tra questi temi, ma l’ha acquisito, ed è un errore che domanda giustizia, o meglio, un giustiziere. Non c’è dubbio che Pietà sia un film sulla sproporzione. Lo dice in un sol colpo (d’occhio) l’immagine della coppia protagonista: un ragazzo gigantesco e una piccola signora, e lo ribadisce ogni scena, ogni sfumatura. La crudeltà di Kang-do è fuori misura, così come la stupidità di alcuni debitori. Lo sono la capacità di sopportazione dell’una, l’ingenuità dell’altro, l’architettura della vendetta. Lo sono, dunque, le scelte in sede di racconto e di regia: le scene di sesso dichiaratamente eccessive, l’enfasi musicale, l’utilizzo di un’attrice, Min-soo Cho, dalla bravura fuori dell’ordinario. Eppure, non si può fare a meno di avvertire anche un eccesso di sicurezza, da parte del regista sudcoreano, uno sfoggio di sé, che qualche volta toglie forza a ciò che avviene dentro l’inquadratura, o più semplicemente le impedisce di sorprenderci. È un genere, questo, che Kim ha già cavalcato e nel quale eccelle, ma non incanta più. Se non fosse per la massiccia dose di ironia che ha calato in questo diciottesimo film, probabilmente più che in ogni altro lavoro precedente, il rischio sarebbe quello della predica morale leggermente ridondante, come lo è il kyrie eleison finale. “Signore, pietà”. Salvato dall’ironia, Kim regala allora, nonostante tutto, un film circoscritto e alto, in parte ispirato dal connazionale Park Chan-wook, ma intimo e sporco, meno lirico e più radicato nelle “passioni” di questo tempo buio.
Il figlio di un circense eredita dal padre un circo e cerca di migliorare le cose. Non riuscendoci tenta la carta della televisione. Un film che coniuga la vita con la politica in un gioco non destinato a un vasto pubblico. Vinse il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Un film di Chen Kaige. Con Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li Titolo originale Bawang bieji. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 170 min. – Cina, Hong Kong, Taiwan 1993. MYMONETRO Addio mia concubina valutazione media: 3,38 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il titolo è preso da un’opera cinese dei primi del Novecento, scritta da Mei Lanfang. Il regista cinese Chen Kaige vive a New York, trapiantato da vero intellettuale. E il film, un affresco politico nascosto sotto la patina del melodramma, media la cultura cinese con lo stile registico occidentale. Non è certo una pecca, specialmente se il risultato, come in questo caso, è lusinghiero. Due bambini diventano amici mentre apprendono la durissima arte dell’attore. Infatti in Cina per calcare il palcoscenico si deve sottostare a regole durissime. Una volta scelti come attori per una famosa opera con protagonisti un re e la sua concubina le loro vite cambiano. L’attore che interpreta il personaggio femminile si immedesima a tal punto da diventare geloso e pericoloso quando l’amico si innamora di una prostituta. Tra intrecci politici e sentimentali si giunge alla tragedia. Bravi tutti gli interpreti principali, soprattutto Leslie Cheung e Gong Li, e una lode al direttore della fotografia, Gu Changwei.
Nel 1941, dopo il primo raid aereo tedesco su Belgrado, comincia l’ascesa del compagno Marko (Manojlovic), partigiano e borsanerista. In due anni lui e il suo amico Nero (Ristovski) accumulano una fortuna e la fama di eroi della resistenza finché convincono il loro clan a rifugiarsi in un sotterraneo e a fabbricare armi e altri prodotti per il mercato nero. Fa credere a tutti che la guerra continua, e intanto diventa un pilastro del regime socialista di Tito.
È difficile stringere in una definizione di genere un grande film visionario come il 5° lungometraggio del serbo Kusturica, che fa pensare ad Alice nel paese delle meraviglie riscritto da Kafka, con Hyeronimus Bosch come scenografo e Francis Bacon direttore della fotografia. È una tragicommedia musicale con le musiche tzigane di Goran Bregovic che di un racconto straripante di feste nuziali, riti collettivi e baccanali sono il filo conduttore e gli danno il ritmo. “C’era una volta un paese…” è il sottotitolo. La Iugoslavia, naturalmente. Kusturica dice che non è un film nostalgico, ma un necrologio. Forse il Paese di cui ha cercato di raccontare 40 anni di storia non è mai esistito. Underground è il sogno di un incubo, quello della Storia e del suo tempo sporco. 2ª Palma d’oro a Cannes dopo quella del 1985. Presentato come film della Comunità Europea. Esiste un’edizione di 7 ore, vista per la 1ª volta al Torino Film Festival.
Un film di Mikhail Kalatozov. Con Tatiana Samojlova, Alexei Balatov, Vassili Mercuriev, Aleksandr Shvorin Titolo originale Letjat Zuravli. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 97′ min. – URSS 1957. MYMONETRO Quando volano le cicogne valutazione media: 3,75 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Mosca 1941, subito dopo l’attacco tedesco. Boris (Balatov) e Vernoka (Samojlova), innamorati, si separano. Lui si arruola volontario e muore al fronte senza che la sua famiglia sia informata. Lei cede alla corte di suo fratello Mark (Svorin) e lo sposa senza amarlo. Tratto dalla commedia Eternamente vivi di Viktor Rozov, da lui stesso adattata, è forse il film più romantico mai uscito dall’Unione Sovietica. Suscitò grande interesse come un frutto del “disgelo” kruscioviano perché vi si mostravano imboscati e borsaneristi. Colpirono la rappresentazione dell’amore come un assoluto; la presenza dell’ardente Samoilova, l’unica attrice russa che ebbe una diffusa seppur effimera popolarità in Occidente; la raffinata tecnica di M. Kalatozov e del suo operatore Sergej Urusevskij, spinta sino a un delirante virtuosismo, ma che, contrapposta al greve accademismo del realismo socialista, sembrò il segno di un rinnovamento anche stilistico. Nel film volano le gru _ è un annuncio di primavera _ non le cicogne. I nostri ignoranti distributori ricalcarono il titolo adottato in Francia dove in gergo le gru indicano le femmine che offrono sesso mercenario. Palma d’oro a Cannes 1958 e successo internazionale.
Angst è un film del 1983 diretto da Gerald Kargl. Unico lungometraggio realizzato dal regista austriaco, è stato sceneggiato dallo stesso Kargl insieme al polacco Zbigniew Rybczyński, il quale si è occupato anche della fotografia e del montaggio.
Il film è interpretato dall’attore austriaco Erwin Leder e la sua trama è liberamente ispirata alla storia del serial killer Werner Kniesek.
Uno psicopatico, appena rilasciato dal carcere, si introduce in una villa isolata e inizia a dare sfogo al suo inguarito sadismo sulla famiglia che la abita, composta da una giovane donna, dal fratello ritardato e dall’anziana madre.
Quando lo Studio Gin’ei commissiona al regista Gen’ya Tachibana un documentario in commemorazione del suo 70 ° anniversario, si reca su una montagna isolata per intervistare un idol della sua giovinezza, l’enigmatica Chiyoko Fujiwara, che è stata l’attrice protagonista dello studio dal 1930 fino al 1960. Mentre Chiyoko rievoca la sua vita, Tachibana e il suo cameraman si trovano improvvisamente in un viaggio nel tempo ricco e brillante. I film di Chiyoko e ricordi personali si intrecciano con gli eventi reali e si estendono ai confini della realtà.
Potrà mai qualcuno raggiungere la terra promessa? Questo l’interrogativo che il film si pone narrando la storia di una famiglia turca, che, ridotta in povertà, è costretta ad emigrare illegalmente in Svizzera. Sono i racconti di guadagni sicuri a convincere Haydar che occorre partire. Convinta sua moglie Meryem e venduto il suo pezzo di terra, l’uomo prende però una decisione: quella di lasciare in patria, alle cure dei suoi genitori, i suoi sette figli. Suo padre lo convince però a portare con sé almeno uno dei suoi figli. I tre partono, così, in cerca di fortuna
Una donna incinta con già due figli rimane vedova. Partorisce una bimba e con molti sacrifici sopravvive aiutata da un poliziotto. Tratto dal romanzo di Betty Smith, questo film ebbe un successo straordinario.La descrizione di un quartiere popolare newyorkese è un saggio di bravura del giovane esordiente Kazan.
Durante la Ribellione di Heiji, nel 1159, il samurai Morito Endo viene incaricato insieme ad altri di scortare la dama di compagnia Kesa lontano dal palazzo assediato. La ragazza dovrà essere scambiata dagli assalitori per la sorella del Signore Kijomori, in modo da permettere a quest’ultima di mettersi in salvo insieme al padre. Kesa perde i sensi quando i ribelli attaccano la loro carovana, ma Morito, lottando eroicamente, riesce ad allontanarsi con lei, portandola infine alla casa del proprio fratello. Quando costui arriva, rivela che anche lui fa parte della ribellione e suggerisce a Morito di seguirlo. Morito rifiuta. Una volta che lui e Kesa sono al sicuro, Morito dimostra la sua lealtà a Kiyomori recandosi personalmente da lui per dargli notizie sull’insurrezione.
Kyoto, periodo Heian. Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l’assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
Nel misterioso Perù, una famiglia di orsi coltiva da decenni il mito dell’Inghilterra, paese ospitale e di ottimi gusti, come testimoniato dalla visita dell’esploratore Montgomery e dalla sua marmellata di arance. Così, quando giunge l’ora, il piccolo orso s’imbarca, con un cappello in testa e un cartellino che chiede gentilmente che ci si prenda cura di lui. Lo trovano alla piovosa stazione londinese di Paddington, tutto solo sotto l’insegna degli oggetti smarriti, i signori Brown e i loro figli Jonathan e Judy. Con loro, Paddington trova un nome, una casa e una famiglia, ma saranno soprattutto i Br own a scoprire di aver bisogno di Paddington almeno quanto lui ha bisogno di loro. Arriva per Natale, festeggiando la ricorrenza della sua nascita letteraria, il film tratto dalle storie di Michael Bond, un regalo più che gradito, destinato, nel suo genere, a diventare un classico. Benché a produrre sia David Heyman – lo stesso di Harry Potter – non c’è traccia di incantesimi tra i trucchi del film, eppure la formula della composizione è a suo modo magica, specie nella naturalezza con cui fonde passato cinematografico e presente, dando luogo ad una sintesi orignale, intrisa del meglio del genere.
Jerry Mulligan, finita la guerra, è rimasto a Parigi per dipingere. Vive in un localino dove il letto e il tavolino rientrano nel soffitto e nella parete e va a esporre i quadri, che nessuno compra, a Montparnasse. Viene abbordato da una ricca, attempata americana che gli compra un quadro. Ma poi conosce la giovane e graziosa commessa della quale si innamora, senza sapere che la ragazza sta per sposare il suo amico Paul. Un altro personaggio è il musicista-genio (Levant), che suona tutti gli strumenti dell’orchestra. Alla fine tutto va a posto. L’amore trionfa. Sulla base di questa trama quasi banale, “alla musical”, Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un’opera composita che figura benissimo nell’arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo “chansonnier” Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili. La Metro, nella realizzazione di questi film, era molto rigorosa e generosa, assumeva i più bravi consulenti da ogni parte del mondo. I balletti di Kelly sono studiati in scenografie che si richiamano ai grandi quadri impressionisti (Renoir e Monet soprattutto) e a Toulouse-Lautrec. Il numero centrale viene considerato un capolavoro anche dai grandi coreografi del balletto classico, come Béjard. Naturalmente la tendenza di Minnelli, in quasi tutti i suoi film, era una certa concessione al kitch, che nel musical quasi non andrebbe considerato “caduta”, ma valore aggiunto. Il film è uno dei più premiati nella storia degli Oscar, ben sei. Va detto che il musical è l’unica forma d’arte tutta e solo americana. Molto spesso Hollywood ha attribuito Oscar a film musicali (Gigi, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, Oliver!, West Side Story). L’anno dopo lo stesso gruppo produttivo (solo il regista Donen sostituì Minnelli) realizzò Cantando sotto la pioggia che… rimase senza Oscar pur essendo per certi versi più intelligente e con maggiore vedibilità a posteriori. Questa “tardiva” stagione del musical prodotta da Arthur Freed (Sette spose per sette fratelli, Spettacolo di varietà, Baciami Kate! e altri) rappresenta una punta qualitativa altissima del cinema, che poteva contare ancora sulle belle ingenuità indispensabili, sostenute da una tecnica ormai perfezionata.
Un film di Abbas Kiarostami. Con Ali Sabzian, Hassan Frazmand, Abolfazi Ahankhah Titolo originale Nema-ye nazdik. Drammatico, durata 100′ min. – Iran . MYMONETRO Close-up valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Facendosi passare per il noto regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, un povero disoccupato circuisce una ricca famiglia borghese. Smascherato, al processo si dichiara pentito e viene perdonato. A poche settimane di distanza dagli avvenimenti, A. Kiarostami ricostruì e filmò la vicenda con i suoi protagonisti veri. Il processo per truffa diventa un’arringa per il diritto alla finzione e il riconoscimento del bisogno di essere un altro. Il regista gioca a fare del documentario con la finzione e della finzione con il documentario. “La vicenda si svolge prescindendo da me. Più che negli altri miei, la realtà contenuta in questo film ne fa un caso a parte” (A. Kiarostami).
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