L’americano Mr. West, presidente dell’YMCA, visita l’Unione Sovietica con il cowboy Jeddy come guardia del corpo. A Mosca viene sequestrato da una banda di ex nobili che cercano di truffarlo finché arrivano i veri bolscevichi a salvarlo. Commedia ironica in cui il cinema americano, codificato in generi (commedia, western, ecc.), è parodiato e, insieme, esaltato. Non appartiene a nessun genere, ma ne attraversa molti con una libertà di sperimentazione che ne fa uno dei primi esempi, e tra i più briosi e inventivi, di cinema sul cinema senza trascurare mai, in cadenze pungentemente satiriche, il discorso politico. Nel suo accanito rifiuto del naturalismo e dell'”illusione di realtà” è il frutto di un momento storico in cui l’avanguardia era ancora liberamente praticata.
A five-person team of gold prospectors in the Yukon has just begun to enjoy great success when one of the members snaps, and suddenly kills two of the others. The two survivors, a husband and wife, subdue the killer but are then faced with an agonizing dilemma. With no chance of turning him over to the authorities for many weeks, they must decide whether to exact justice themselves or to risk trying to keep him restrained until they can return to civilization.
Nel mezzo del cammino della loro vita, due compagni di scuola s’incontrano dopo molti anni: Marek (Zarnecki) fa il ricercatore scientifico, reduce dagli USA e dall’URSS; Jan (Mislowicz) si è isolato con la moglie in una sperduta stazione meteorologica, rinunciando alla carriera universitaria e al successo. Film – il 1° di Zanussi – dove non accade assolutamente nulla, se non il confronto (ma non il conflitto) tra due persone, due visioni del mondo. L’autore non propende per nessuno dei due perché probabilmente sono due facce della stessa medaglia, cioè di sé stesso. Perciò è aperto a interpretazioni e definizioni plurime (film-saggio, film-dibattito, film-riflessione), paragonato a una composizione musicale da camera. Nella sua dimessa, quasi sciatta semplicità, è stilisticamente raffinato. Mislowicz non è un attore.
Un film di Masaki Kobayashi. Con Tatsuya Nakadai, Michiyo Aratama, Ineko Arima, Chikage Awashima, Keiji Sada, Sô Yamamura, Akira Ishihama Titolo originale Ningen no jôken I. Drammatico, b/n durata 208 min. – Giappone 1960. MYMONETRO Nessun amore è più grande – La condizione umana I valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Sommando le tre parti della trilogia di cui è composto, Ningen no Joken (La condizione umana) è il film più lungo di tutta la storia del cinema (579 minuti; cioè quasi 10 ore). È anche una grande opera il cui regista ha dichiarato: “Ho avuto durante la guerra le stesse esperienze del mio eroe Kaji. Ho voluto far rivivere il tragico destino degli uomini che sono stati costretti a far la guerra senza volerla. Kaji (Tatsuya Nakadai) è al tempo stesso oppressore e oppresso, e capisce che non può smettere d’esser oppressore senza diventare oppresso. Certo, ho voluto denunciare i delitti di guerra, ma anche mostrare come una società umana possa trasformarsi in un organismo inumano”. L’azione si svolge nella Manciuria “colonizzata” dai Giapponesi tra il 1943 e 1945. I. Kaji, ingegnere minerario, e sua moglie (Michiyo Aratama) si ribellano contro i maltrattamenti inflitti ad alcuni deportati cinesi: Kaji viene imprigionato, poi mobilitato. II. La guerra e la sconfitta del nord del paese. III. La disfatta nipponica e la vita in un campo di prigionia sovietico. Questo immenso affresco antibellico, pieno di rivolta umanitaria, non esita a denunciare nel modo più diretto gli orrori e le crudeltà della guerra. Autore impegnato, Kobayashi vi si rivela come uno dei maggiori registi giapponesi del dopoguerra.
Un film di Wong Kar-wai. Con Andy Lau, Jacky Cheung, Maggie Cheung Titolo originale Mongkok Carmen. Drammatico, durata 95 min. – Hong Kong 1988. MYMONETRO As Tears Go By valutazione media: 2,75 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Al suo primo film Wong Kar-wai non è ancora autore ma è già protagonista. As Tears Go By è un mix di stili contrastanti ma vibra di tutta la passione che solo il cinema di Hong Kong degli anni ’80 sapeva regalare. Sorta di remake sotto mentite spoglie del Mean Streets scorsesiano, è la storia di Wah, un gangster squattrinato, disilluso e per nulla ambizioso tentato dall’amore per una lontana cugina ma prigioniero di questioni d’onore e del bisogno di proteggere l’avventato Fly, dotato di una propensione rara per cacciarsi nei guai ad ogni occasione. Wong Kar-wai si mantiene nei limiti del cinema commerciale e di genere, con musiche ad effetto – colonna sonora comunque strepitosa, tra il jazz-rock di Teddy Robin Kwan e il remake di Take My Breath Away dei Berlin – e rispettando il canovaccio del noir con tutti i suoi cliché, ma è stilisticamente che reinventa il tutto. Luci al neon, step framing per sbalestrare lo sguardo durante le scene d’azione, inquadrature suggestive e figlie della nouvelle vague (alternate ad altre ancora molto grezze), ossia quelle che diverranno le stimmate di un autore memorabile e che in As Tears Go By si mescolano con effetto inebriante alla spensieratezza del cinema popolare.
Robin di Locksley, detto Robin Hood, vive nella foresta di Sherwood a capo di un gruppo di simpatici fuorilegge. Salva un poveraccio, che ha ucciso un cervo per fame, dalla spada dello sceriffo di Nottingham e poi irrompe col cervo sulle spalle proprio nel salone del banchetto dello sceriffo. Aggredito riesce a fuggire. Nella foresta fa prigioniera Lady Marian, cugina di re Riccardo, per il quale Robin Hood si batte contro l’usurpatore Giovanni Senza Terra. Lo sceriffo cerca in ogni modo di contrastare il ritorno del legittimo re, ricorrendo a ogni intrigo.
Giappone, 1944: durante un’operazione chirurgica, il dottor Kyoji Fujisaki si procura un taglio ad un dito e viene infettato dalle spirochete di Susumu Nakada, il paziente che stava operando. Dopo aver eseguito le analisi del sangue, il medico si rende conto di aver contratto la sifilide e di non avere medicinali a sufficienza per debellare la malattia.
Kurosawa realizza un’altra opera, dopo Non rimpiango la mia giovinezza, L’angelo ubriaco e Cane randagio, sulla realtà giapponese durante e dopo la guerra; come già era accaduto per L’angelo ubriaco, il film passò al vaglio della censura americana ed al regista venne ordinato di modificare il finale, in cui originariamente Fujisaki impazziva per il peggioramento della malattia, troppo lugubre e soprattutto poco rispettoso verso i reali malati di sifilide.[1]
Primo film del regista a non essere finanziato dalla Toho, Il duello silenzioso fu la prima ed unica collaborazione artistica tra Kurosawa ed il prolifico compositore Akira Ifukube (autore tra l’altro delle musiche di Godzilla); i due ebbero diversi diverbi durante le riprese e decisero alla fine del film di intraprendere strade diverse
Non ho trovato versione in italiano. I subita sono tradotti da google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un detective privato nero, Treck, elimina un pericoloso gangster. Un’incallita criminale, socia d’affari del defunto, incarica i suoi uomini di toglierlo di mezzo.
Due criminali evasi da un carcere dell’Alaska salgono su un convoglio ferroviario in manovra. Il macchinista, colpito da sincope, muore. Il treno continua la sua corsa verso il disastro. 2° film hollywoodiano del russo Končalovskji, fratello di Nikita Michalkov, scritto da Djordie Miličević, Paul Zindel ed Edward Bunker, che rimaneggiano una sceneggiatura di Kurosawa. Se si passa sopra alle clamorose inverosimiglianze, alle troppe coincidenze e al personaggio amorfo del giovane Roberts, il risultato è ammirevole e il finale indimenticabile. Ottima fotografia di Alan Hume. In antitesi con gli abituali personaggi positivi, Voight è una convincente bestia umana con le cicatrici.
Chungking Mansions, Hong Kong, 1994. L’agente 223 (Takeshi Kaneshiro) non riesce a dimenticare Ah Mei, la ragazza che l’ha lasciato, e arriva ad abbrutirsi mangiando ananas scaduto. Incontra una donna misteriosa con una parrucca bionda (Brigitte Lin) e se ne innamora. L’agente 663 (Tony Leung) frequenta assiduamente un chiosco dove lavora Ah Fei (Faye Wong), la quale si innamora di 663 senza che questi se ne renda conto. Storie apparentemente parallele che parallele non sono, che in modo quasi impercettibile si toccano, o meglio si sfiorano, talora ingannando lo spettatore meno smaliziato. Per esempio quando Ah Fei compra il pupazzo di Garfield mentre la killer è fuori dal negozio, in un cortocircuito impossibile (dal momento che Ah Fei non può ancora aver conosciuto l’agente 663). Questo perché Wong Kar-wai – che col Tempo sin da Days of Being Wild ingaggia un duello che non troverà mai fine – distorce la continuity dell’intreccio nella stessa maniera in cui altera il senso di un’istantanea del presente, adottando a profusione lo step-framing, ovvero quella tecnica che permette, con un astuto trompe l’oeil, di congelare un singolo personaggio del frame mentre il resto della scena sembra muoversi a velocità doppia.
Strumenti che permettono a Wong di (sovra-)comunicare la sensazione di solitudine e di smarrimento di uomini (e donne, anche se il pdv è principalmente maschile) in una metropoli così spersonalizzante da ridurre le identità a meri numeri. Ma per quanto annullate nella massa queste identità anelano alla ricerca dell’altro da sé, del proprio completamento, comprendendo che la difficoltà, se non l’impossibilità, di un successo è parte del gioco, crudele e spesso inspiegabile, su cui si regge il sentimento d’amore. Se il quadro generale tocca temi cari a Wong Kar-wai e li eleva a un apice di compiutezza, sono i dettagli ad aver reso Hong Kong Express un oggetto di culto – per quanto esoterico: Tony Leung che dialoga con i suoi pupazzi e indumenti, California Dreamin’ dei Mamas & Papas suonata a massimo volume, la dissertazione di Kaneshiro sulle ore e i centimetri che separano da un incontro (e da un innamoramento). Tutto costruito con la perizia di uno stratega dei sentimenti, che sa di poter donare a ogni dettaglio vita propria, ma infonde una passione così sincera nella sua creazione che non si corre mai il rischio di intravedere la mano che muove i fili da lassù. Apprendendo che il film è stato girato nelle pause di lavorazione dell’interminabile Ashes of Timenon ci si crede, ma è anche così, nella fretta o quasi per gioco, che nascono opere fondamentali. Con la stessa apparente (e un po’ fatalista) casualità con cui, in Hong Kong Express, uomini e donne si amano o si lasciano e segnano così indelebilmente le loro vite.
Con l’aiuto di una giornalista spregiudicata Lonesome Rhodes, cantante girovago dell’Arkansas, diventa un folk-singer di successo, un idolo delle folle televisive, un demagogo megalomane. Sarà la giornalista a determinare la sua fine. Scritto, come Fronte del porto, da Budd Schulberg (dal suo racconto Your Arkansas Traveller), è uno dei più critici film americani sull’industria culturale e i mass media, sostenuto da un ritmo sincopato e da un’energia forsennata. “Il più americano dei miei film”, lo definì Kazan: troppo in anticipo sui tempi per avere successo. La difficile commistione di satira e tragedia è quasi perfetta. Come sempre in Kazan, la recitazione è ammirevole. 1° film per Griffith e Remick.
Un film di Buster Keaton, Donald Crisp. Con Buster Keaton, Frederic Vroom, Kathryn McGuire Titolo originale The Navigator. Comico, b/n durata 60 min. – USA 1924. MYMONETRO Il navigatore valutazione media: 4,00 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un multimilionario, stanco della vita dello scapolo, decide di sposarsi e di fare il viaggio di nozze a bordo di una nave che porterà lui e la moglie a fare un giro intorno al mondo. Ma per una serie di equivoci il nostro finisce su di un natante privo di equipaggio che lo conduce in pieno oceano alla deriva. Sempre grande Buster Keaton.
In un villaggio del Gilan, regione al nord dell’Iran devastata dal terremoto del giugno 1990, un regista ha difficoltà nel girare un film perché tra due giovani del luogo, scelti come interpreti, è in corso una contrastata storia d’amore. Kiarostami, n. 1 del cinema iraniano, chiude la “trilogia del terremoto”, formata da Dov’è la casa del mio amico? e E la vita continua con un film mirabile per semplicità e trasparenza, ma anche raffinato nella sua dialettica tra realtà e finzione che rinnova la categoria del “cinema nel cinema”. Da antologia il campo lunghissimo finale: infatti i film di Kiarostami sono anche una riflessione sulla percezione.
ho anche una versione in lingua originale (persiano) con subfra
Stanco della movimentata vita cittadina, Buster Keaton si trasferisce in una grossa fattoria dove viene assunto come guardiano di mandrie. Un giorno, mentre una di queste viaggia su un treno per essere venduta, alcuni banditi tentano di impossessarsene. Ma il nostro eroe riesce a impedire il furto coll’unico aiuto di una mucca! Capolavoro comico.
Di giorno traghettatrice in una riserva di pesca e prostituta di notte, la silenziosa Hee-jin distoglie dal suicidio un giovane fuggiasco due volte assassino e ne diventa l’amante. L’ossessione amorosa è l’amo feroce che li conduce a fare altre vittime e a una tragica fine. In altalena fra tragico e grottesco, all’insegna di un ironico darwinismo sociale, è un crudelissimo film dove si postula una identificazione tra uomo e pesce. Interamente giocato sull’ambiguità simbolica del pesce (segreta immagine del pene, ma anche animale a sangue freddo, alieno dalle passioni). K. Kim, autore a pieno titolo, “gioca su questa doppiezza e costruisce un complesso gioco a intarsi in cui interagiscono vari gradi di ferocia e dipendenza.” (A. Morsiani). Braccato dalla polizia, lui inghiotte un mazzetto di ami. Quando se ne va, lei se li infila nella vagina. La storia termina con un ritorno nell’acqua, cioè nel liquido amniotico, che è anche un’immersione nell’inconscio. Alla Mostra di Venezia 2000 fece scalpore tra il pubblico e sconcertò i critici.
La sempiterna diatriba tra gli strenui difensori del cinema come Arte e quanti osteggiano una cinematografia che non diverta, trova uno stallo, di quando in quando, in prodotti come questo di Ki-duk, tutto incentrato sul “tipo cattivo” interpretato dal suo attore feticcio Cho Jae-Hyun. Perché sebbene sia questo un film tutt’altro che di facile lettura, è innegabile la sua capacità di coinvolgere fasce di pubblico di ogni provenienza. Violento, torbido, spesso al limite della decenza, Bad guy è un apice creativo dell’ex-pittore coreano, che disgusta e mette a dura prova i principi morali di chi guarda, eppure svestendolo della capacità e diritto di smettere di guardare. Cui si aggiunge, a film finito, l’ancor più viscida sensazione di aver assistito a qualcosa di grande, e al tempo stesso sporco. La trama stessa, riassunta in parole, è imbarazzante: un brutto tipo si innamora al primo sguardo di una giovane studentessa e per farla sua decide di metterla al suo livello, la rapisce, la costringe per mesi a prostituirsi, finché la ragazza non cambia completamente il proprio modo di vedere il mondo. Ma come per tutto il cinema di Kim Ki-duk, non ci sono parole adatte a descrivere ciò che solo in sé si realizza. I sentimenti protagonisti sono tutt’altro che sofisticati, ma vivi e presenti nella loro concretezza, fisici perfino. È qui che l’amore perde la sua poetica dell’Eros e diviene frenetica carnalità, così come l’amore immenso, utopico, è rappresentato dalla privazione del sesso, cosa che in questo contesto risulta ancor meno comprensibile. Tanti sono del resto i temi messi in agenda dal regista in un’opera che lascia il segno, unica nonostante gli echi del cinema classico si percepiscano bassi e continui, un vero capolavoro nel suo genere: un genere che, appunto, non esiste.
Sette ex studenti contestatori degli ultimi anni ’60 all’università del Michigan si ritrovano ai funerali di un amico e passano il weekend insieme. Ricordano i vecchi tempi, parlano del presente e del futuro. È diventato un film di culto per gli ex sessantottini di mezza Europa. Sapiente e un po’ ruffiano ritratto collettivo di una generazione disillusa, divertente e amaro, sostenuto da un dialogo scoppiettante e da un’ottima squadra di attori, sebbene “troppo scritto”. Presenza virtuale di Kevin Costner come l’amico morto. Figurava in alcuni flashback, eliminati al montaggio dal regista. Scritto da L. Kasdan con Barbara Benedek. Tre nomine agli Oscar (film, sceneggiatura, Close). Sullo stesso tema John Sayles, in Return of the Secaucus 7 (1979), è più autentico e originale.
Cinque stagioni (tempo circolare), due personaggi principali, una casetta ancorata in un laghetto tra i monti, un’azione scandita ogni dieci anni, mezzo secolo di ascesi per diventare un vero uomo. È la storia di un bambino educato con rispetto affettuoso da un anziano monaco, dall’infanzia innocente e crudele (primavera), all’adolescenza appassionata che scopre l’amore carnale (estate), poi ossessione che sfocia nella gelosia omicida (autunno) e infine la quieta saggezza dell’ingresso nell’alta età (inverno). E il ciclo ricomincia con un bimbetto abbandonato. Opus n. 8 di un regista coreano abituato a raccontare drammi contemporanei, ribollenti di violenza e crudeltà, è un film straordinario per bellezza paesaggistica. Nei primi due capitoli può dare il sospetto di un estetismo pittorico fin troppo raffinato, come un calligrafico esercizio idilliaco di stile. Nella 2ª parte, però, quando dal mondo esterno irrompono le passioni, le invenzioni narrative e registiche si susseguono. In inverno, sul lago ghiacciato anche la natura si fa minacciosa, non più incontaminata nel suo splendore. Così infantilmente scherzosa nel 1° capitolo dov’è applicata a rane e pesci, la grossa pietra che faticosamente l’adulto e atletico monaco trascina sino alla vetta più alta diventa la metafora della pena del vivere, ma anche di un’ascesa alla conquista di una pace autentica. Premio del pubblico a Locarno 2003. Fotografia (Dong-hyeong Baek) e musica (Ji-woong Bark) di prim’ordine.
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