Desiderio d’omicidio (赤い殺意) è un film del 1964 diretto da Shōhei Imamura.
Il film racconta la storia di una casalinga triste e grassoccia che vive in povertà con un marito. Dopo essere stata violentata da un ladro, viene ripetutamente avvicinata da questi che si innamora perdutamente di lei. Divisa tra il suo marito adultero e non amante e lo stupratore, lotta per trovare la felicità.
Non ho trovato subita in rete. gsubita sta per subita tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Non credo esista versione in italiano, almeno io non l’ho trovata.
Vincent (Blanchet), potente ministro, costretto a dare le dimissioni per una cantonata politica, ricomincia a vivere. Perde la giovane amante, si fa cacciare dalla moglie, scopre la sua casa invasa da famiglie nordafricane, recupera la vecchia madre (Piccoli!), riaggancia le ex amichette, riprende il giro dei bar con i vecchi amici, riscopre i piaceri della pigrizia pensante. Intanto il suo successore assaggia l’ebrietà e le incertezze del potere. Può sembrare una favola poetizzante e leziosa, un po’ demagogica, avulsa dal mondo e dalla realtà sociale, ma è semplicemente una commedia controcorrente, in linea con tutti i film passati di questo georgiano, trapiantato a Parigi negli anni ’80, che ha il genio della scrittura leggera e non crede nel progresso, ma nemmeno nel catastrofismo nichilista oggi di moda. Sembra, la sua, una facile disinvoltura, ma soltanto per chi non sa coglierne la ricchezza musicale delle situazioni, impregnate di una buffoneria sottile, affidata ai gesti e ai comportamenti più che ai dialoghi. Non è forse spiazzante il suo bestiario, la galleria degli animali, buffi perché fuori dal loro contesto (asini, tucani, ghepardi, bisonti)? Dietro l’apparente frivolezza del racconto “c’è una sorta di tessitura molto compatta, la confezione di una trama fine, densa, quella di un vestito ideato da un sarto artista e filosofo” (J.-F. Rauger).
Se Ichikawa in Italia è noto soprattutto per una pietra miliare del pacifismo su celluloide, e cioè L’arpa birmana da molti considerato il suo capolavoro, senza ombra di dubbio lo spettatore più sensibile a certe problematiche esistenziali resterà fortemente impressionato da Conflagrazione; un’opera in cui le sottili inquietudini e quel senso soffocato di ribellione ereditati dal testo di Mishima convergono in una forma elegante, studiatissima nella struttura narrativa a flashback, da cui derivano però momenti di tensione taglienti come rasoi.
Dal romanzo omonimo (1910) di Edward M. Forster. Conflitto tra due mondi (due culture, due mentalità) all’interno della società londinese del primo Novecento: le due sorelle Schlegel della piccola borghesia colta e progressista e i ricchi, conservatori Wilcox, fondatori senza fasto né splendore dell’Impero. C’è anche una terza classe sociale, quella degli esclusi per censo ed educazione, rappresentata da Leonard Blast, povero e orgoglioso. La posta in gioco è Howards End, bella e scomoda dimora di campagna: appartiene ai Wilcox, passa in eredità a una delle due Schlegel e, infine, all’altra. sotto la vernice di raffinata eleganza, è un film (e un romanzo) attuale: beni immobili, sicurezza finanziaria, compagnie di assicurazione che falliscono, conflitti tra femminismo e vita domestica, attriti tra classi sociali. Premio speciale a Cannes e 3 Oscar: attrice protagonista (E. Thompson), scenografia (Luciana Arrighi) e costumi.
Disposta su 4 piani temporali – il Medioevo in Georgia; gli anni della rivoluzione bolscevica; quelli dello stalinismo in Russia; il presente a Parigi e in Georgia – dove, in un fitto e fluido intersecarsi, ritornano gli stessi attori-personaggi in panni diversi, questa ilare e nerissima tragicommedia ha per protagonisti gli uomini del potere (re, boiardi, rivoluzionari, uomini della nomenclatura comunista) che oggi si sono trasformati in mafiosi, fanatici nazionalisti, uomini d’affari, insomma briganti che saccheggiano legalmente le ricchezze del Paese. Iosseliani torna in patria, senza staccarsi da Parigi, per regolare i conti con il socialismo reale e, più in generale, con il tempo sporco della Storia. Nelle cadenze dolorose eppure piane e lievi di una parabola che attinge linfa dal realismo fantastico della letteratura russa (Bulgakov più che Gogol), questo suo 7° film è anche il 1° esplicitamente politico, dunque il suo 1° film violento. Il tema centrale è la crudeltà e l’insensatezza del potere, di qualsiasi potere. Cara da sempre al regista, l’idea della ripetitività o della circolarità regge la storia degli uomini (delle crudeltà umane), e lo stesso film. Passano i secoli, gli uomini non cambiano. In questa lezione di storia che è anche una lezione di cinema, conta il mondo, cioè lo stile di Iosseliani: leggerezza, calma, ironia tragica. Conta il suo sguardo. Non più di 200 inquadrature, piane e calcolatissime, senza primi piani, con pochi dialoghi e semplici, grande attenzione ai rumori, alla musica, ai canti. “La vera commedia è sempre fondata sul dolore” (O. Iosseliani). Gran Premio Speciale della giuria a Venezia 1996.
Uxbal ha due figli, Ana e Mateo che ama profondamente e una moglie, Marambra, con la quale c’è un rapporto conflittuale che li spinge a separazioni e a tentativi di riappacificamento. Uxbal vive di manodopera clandestina che sopravvive ammassata in tuguri (i cinesi) o cerca di far crescere il proprio figlio in condizioni comunque estremamente precarie come l’africana Ige. Uxbal si trova a confronto con la morte anche di minorenni. Uxbal attende la morte, la sua. Uxbal ha un cancro che gli lascia poco da vivere. Per Alejandro Gonzales Inarritu è finalmente arrivato il film della maturità. Liberatosi dell’autoimposta necessità di far prevalere gli incastri di montaggio sulla qualità della sceneggiatura si autorizza in Biutiful a portare sullo schermo una storia tanto lineare quanto complessa e profonda. È come se quell’anello che Uxbal dona all’inizio del film (si scoprirà molto più tardi a chi) affermandone l’autenticità a dispetto di quello che ne ha detto la moglie, fosse un patto con lo spettatore. Non si cercherà più di mescolare le carte, di lavorare sulla dimensione degli scarti temporali per occultare eventuali vuoti di scrittura. Grazie al corpo/cinema di Xavier Bardem Inarritu si mette a nudo e ci costringe a ‘guardare’ il dolore, a sentirlo penetrare in noi, a condividerlo. Scegliendo però sin dall’inizio una delle città ‘da cartolina’ per eccellenza: Barcellona. Se Woody Allen, spinto da esigenze di budget e con una punta di autoironia, ci aveva portato a spasso per i luoghi cari al turismo di massa Innaritu fa l’opposto. La Barcellona di Gaudì sta racchiusa in un lontano panorama. La città di cui percorriamo strade e vicoli è un organismo divorato, come quello del protagonista, da un cancro sociale che ha prodotto metastasi ovunque. Non c’è nulla di ‘biutiful’ se non forse, la speranza che cova nello sguardo di Mateo e in quella sua attesa di un viaggio premio sui Pirenei. Pochi film hanno saputo far ‘sentire’ in modo così partecipe e lucido il magma ribollente di un animo in cui ai molteplici sensi di colpa sociale si mescola inestricabilmente la mancanza di una figura paterna (che si spera di ritrovare nell’aldilà) e, al contempo, il sentirsi padre fino all’estremo, fino all’ultimo. Fino a oltre la morte.
Silverio Gama, giornalista e documentarista messicano, si è perso nel mezzo del cammino, da qualche parte tra il paese natio e quello di adozione. Eternamente diviso tra Messico e Stati Uniti, dove ha fatto crescere i suoi figli, Silverio Gama è il primo periodista latino-americano a vincere un prestigioso premio internazionale. Nel tempo che lo separa dalla premiazione ufficiale a Los Angeles, passa in rassegna la sua vita, quella professionale e quella personale, segnata dalla morte di Mateo, il figlio che ha vissuto una manciata di ore prima di decidere che il mondo era un brutto posto. Tra presente e passato cerca un senso e trova il capolinea.
Un assassino semina il terrore nella metropolitana. Uccide le sue vittime in un determinato giorno della settimana nelle ore di affollamento. Una psicologa svolge delle indagini e viene a sapere che un medico, con il quale ha avuto una relazione, si occupa di lavaggi del cervello. Un thriller agghiacciante.
Hasumi e Hoshino sono due amici che condividono una passione per la musica della cantante Lily Chou Chou. Iniziando la scuola media, i due si allontanano: Hoshino diventa il capo dei bulli della scuola che derubano i compagni e poi maltrattano le ragazzine, costringendole a prostituirsi, mentre Hasumi è una vittima impotente che prova a reagire. L’unico posto in cui rifugiarsi è una chat-room, dedicata alla cantante, in cui i protagonisti condividono sogni e segreti con gli altri utenti sconosciuti, confondendo completamente il reale e il virtuale.
A taxing woman (マルサの女, Marusa no onna) è un film giapponese del 1987 scritto e diretto da Juzo Itami. Ha vinto numerosi premi, inclusi sei importanti riconoscimenti agli Academy Awards giapponesi. La protagonista del film, interpretata da Nobuko Miyamoto, è un’ispettrice fiscale dell’Agenzia Nazionale delle Entrate giapponese, che utilizza varie tecniche per scoprire gli evasori fiscali. Si dice che il regista sia stato ispirato a realizzare il film dopo essere passato a una fascia fiscale molto più alta in seguito al successo del suo film The Funeral. Un sequel, A Taxing Woman 2, che presenta alcuni degli stessi personaggi ma con un tono più cupo, è stato distribuito nel 1988.
Una revisora fiscale, Ryōko Itakura, analizza i conti di diverse aziende giapponesi, scoprendo redditi nascosti e recuperando tasse non pagate.
Middle America. Un ex malavitoso Jack Jordan (Benicio Del Toro) torna a casa in macchina per la festa del suo compleanno. Troppo veloce in una curva investe e uccide un padre con le sue 2 bambine. Nonostante la sua sofferenza, Cristina (Naomi Watts) concede il dono del cuore di suo marito. Il felice beneficiario di questo dono, Paul (il bravissimo Sean Penn) rinasce una seconda volta e si allontana da sua moglie (Charlotte Gainsbourg) per andare alla ricerca della donna che il suo nuovo cuore aveva amato fino all’incidente. Ecco presentato in lineare la trama di un film denso che ruota, come fa il montaggio, intorno alle vicende devastanti dei 3 protagonisti che provano a ritrovare il senso della loro vita. Scavando profondamente nel dramma, il film tratta di molti (troppi) argomenti: fanatismo religioso, inseminazione artificiale, dono di organi, aborto, vendetta, ingiustizia della sorte, moralità, paura della morte e peso della propria vita: 21 grammi (dicono che sia il peso che perdiamo al momento della morte!) nella bilancia con il peso della vita dei propri cari. Interpretato magistralmente dai 3 protagonisti, questo film ricco di emozioni drammatiche sconcerta di sicuro ma non lascia indifferenti. Resta però una domanda: 21 grammi è (s)montato senza logica temporale per metterci nella stessa confusione mentale dei 3 personaggi principali (come nel film Memento) o per dare un tocco originale ad un film con dei temi che non lo sono più?
Estate 1945 in Giappone, prima della resa. Il cinquantenne Fuu Akagi (Emoto) fa il medico condotto in una cittadina costiera. La convinzione che esista una diffusa e contagiosa epidemia di epatite e le sue diagnosi che ne derivano gli hanno meritato il nomignolo di dottor Fegato ( kanzo Senseï ), ma l’hanno indotto a impiantare in casa, con mezzi di fortuna, un laboratorio per scoprirne il virus. È un soldato olandese (Gamblin), da lui capitato perché ferito mentre evadeva dal campo di prigionia che attira su Akagi e i suoi amici la brutale repressione dei militari. La vicenda si chiude il 6 agosto quando all’orizzonte si leva il fungo atomico di Hiroshima: un epilogo straordinario per bizzarra inventiva. Reduce dalla Palma d’oro di Cannes 1997 con L’anguilla (ex aequo con Kiarostami), realizzato dopo otto anni di inattività forzata, Imamura continua il suo coerente itinerario con un film tratto dal romanzo di Ango Sakaguchi, da lui adattato con Daisuke Tengan. È un banchetto dove sfila una quantità di piatti: la commedia, il dramma, il pathos, la violenza, l’erotismo ora sano ora perverso, l’omaggio a una figura d’altri tempi, la denuncia di un militarismo ottuso e feroce, l’amore, la depravazione, l’affetto per i marginali fuori dalla norma. Imamura li racconta con una scrittura registica di classica asciuttezza con un passo spiccio e la capacità di lasciare che la realtà e i personaggi siano liberi di rivelarsi senza un coinvolgimento troppo emotivo da parte dell’autore.
La città di New York vive attimi di terrore quando un potente terremoto rischia di distruggere l’intera città. In una disperata corsa contro il tempo il maggiore della divisione e il capo dei vigili del fuoco cercano di mettere in atto un piano di emergenza per salvare la metropoli e i suoi abitanti mentre assistono impotenti alla perdita dei loro cari e alla devastazione di tutto ciò che hanno costruito.
Hollywood Salome USA, Genere: Drammatico durata 77′ Regia di Erick Ifergan Con Vincent Gallo, Nina Brosh, Seymour Cassel, Eyal Doron, Louise Fletcher, Francis Milton, Gregory Wood, Melissa van der Schyff
Johnny, un predicatore di strada senza un soldo, trascorre il tempo a distribuire opuscoli e a diffondere la parola di Dio. Durante una delle sue giornate, Johnny incontra Sarah, una bella parrucchiera che ha appena perso il lavoro. Per Sarah, è amore a prima vista: segue Johnny fino a casa e cerca inutilmente di sedurlo. Nonostante sia attratto da lei, Johnny la respinge ma Sarah non demorde, continuando a stargli dietro con la speranza di riuscire a fargli cambiare idea.
È, nella struttura di un puzzle, un ballo di ladri, un girotondo di destini in cui volteggiano i sentimenti e gli oggetti, rubati e rivenduti, che buone o cattive azioni fanno passare di mano in mano. E una folla di personaggi: mercanti d’armi, bionde ricche d’energia e di amanti, scassinatori romantici, battone dal cuore d’argento, anarchici della terza età, un barbone filosofo, un genio della meccanica, camerieri, manicure, bambini, poliziotte. E un ritratto di una dama dell’Ottocento che diventa a rasoiate sempre più piccolo. 1° film occidentale di un regista georgiano, anarchico sorridente che ha il genio di un’insopportabile leggerezza.
Una troupe di attori inglesi viaggia attraverso città e villaggi dell’India interpretando le opere di Shakespeare, con la speranza di raccogliere i soldi sufficienti a rientrare in Inghilterra.
Ciò che l’occhio non vede è una sorta di documentazione d’autore firmata da otto registi durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Il critico Tullio Kezich scrive a proposito di questo documento: «Ciò che l’occhio non vede lo vede l’obiettivo della macchina da presa. Questa tesi, che si direbbe di ispirazione antonioniana, mosse quattro anni fa l’iniziativa del produttore americano David L. Wolper che in occasione dei giochi di Monaco ha invitato alcuni autori cinematografici a illustrare ciascuno un aspetto della manifestazione.
A Yentown vivono immigrati provenienti da ogni parte del mondo. Tra di loro c’è Ageha, una ragazza a cui è da poco morta la madre, che viene sballottata in giro fino a quando una prostituta di nome Glico decide di prendersi cura di lei. Ageha fa la conoscenza di altri poveri immigrati e tutti insieme – grazie allo spirito di solidarietà reciproca – riescono ad arrangiarsi. Improvvisamente tutti i loro sogni sembrano avverarsi per magia.
Un misterioso amuleto finisce tra le mani di un ragazzino che, preso da smania erotica, assale un gran numero di fanciulle. Dopo numerosi, grotteschi episodi arriva finalmente uno stregone, che inghiotte l’amuleto e finisce agli inferi.