Della personalità di Peter Sellers si è sempre avuto una percezione complessa che, in qualche misura, non sembrava corrispondere all’immagine pubblica. Questo film, come tutti i biopic, tende a scavare proprio negli aspetti nascosti del personaggio offrendoci così il ritratto di un uomo frustrato dalla presenza incombente di una madre incapace di accettare che il figlio si separi da lei. Il film segue le tappe della carriera dell’attore prendendo le mosse dal suo passaggio dai successi radiofonici ai primi rifiuti da parte del mondo del cinema. Lo fa inanellando una colonna sonora di pregio e una serie di episodi che vanno dall’aneddoto al gossip. Geoffrey Rush offre al suo personaggio una notevole abilità mimetica nobilitando così un genere che, per definizione, ha l’indiscutibile tara di guardare spesso il mondo dal buco della serratura.
James Cleveland “Jesse” Owens parte per l’università, lasciando una figlia piccola, una ragazza ancora da sposare e una famiglia d’origine in precarie condizioni economiche. Sembra già una conquista, ma qualche mese dopo, grazie al coach dell’Ohio University, Larry Snyder, Jesse ottiene la convocazione per le Olimpiadi di Berlino. È il 1936 e la politica di epurazione razziale di Hitler divide il Comitato Olimpico Americano: partecipare o boicottare? La comunità afroamericana si pone lo stesso problema. Jesse sa una cosa: se andrà, non potrà permettersi di non vincere. Il regista Stephen Hopkins non è nuovo alla biografia: quella di Peter Sellers aveva fatto infuriare chi la trovava esageratamente critica tanto quanto chi la giudicava non abbastanza mostruosa. Con Race, titolo dal doppio significato, sembra evitare il rischio in partenza, rinunciando alle sfumature e optando risolutamente per un ritratto eroico di Owens, dall’inizio alla fine, nello sport e nella vita. D’altronde – sembra dire Hopkins – i conflitti esterni al personaggio sono tali e tanti che lo mantengono comunque e perennemente sotto pressione. E così è: la scelta di raccontare i giochi olimpici più controversi della storia porta con sé una quantità di materiale narrativo ingente, e il regista lo gestisce aspirando ad un modello di racconto classico, che in qualche momento gli riesce bene e in altri meno. La volontà di mantenersi politicamente corretto (per esempio conducendo il film sul binario parallelo del riscatto del coach bianco insieme al campione nero) riduce, però, il tasso di tensione, così come l’impressione che il battere ogni record non costi a Owens fatica alcuna, e l’immagine del suo reiterato primato, nello stadio bianco che doveva magnificare agli occhi del mondo il Terzo Reich, resta la sola a tentare di ristabilire un equilibrio. La regia, più che altro, vive di rendita della forza della Storia, limitandosi a non fare danni quando si tratta di mettere in campo le interpretazioni di Goebbels e di Leni Reifensthal, qui sdoganata come artista super partes, ben voluta e finanziata dal Fuhrer ma interessata ad un altro fine assoluto, la riuscita del suo film. Del suo uso potenzialmente strumentale dell’atleta di Cleveland, così come della censura che gli Stati Uniti del Sud operarono sulla notizia dei miracoli berlinesi di Jesse Owens, il film non fa menzione. Race corre alla meta ma, dal punto di vista filmico, è una vittoria poco sudata: senza le sfumature, la foto-ricordo è piatta.
Un film di Henry Hathaway. Con Chill Wills, Diane Varsi, Don Murray Titolo originale From Hell to Texas. Western, durata 100 min. – USA 1958. MYMONETRO L’uomo che non voleva uccidere valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un giovane cowboy quacchero uccide accidentalmente il figlio di un ricco ranchero e si trova addosso i familiari della vittima. Farebbe una brutta fine perché, per motivi religiosi, non può sparare addosso agli avversari, ma un atto di generosità gli salverà la vita
Un beluga ( Delphinapterus leucas , detto delfino bianco) è inseguito nei mari di Grecia dal povero Billy Bolla (P. Villaggio), attore di varietà, di cui ha inghiottito il libretto della pensione, e dal truce Marcov (A. Haber), trafficante d’armi che vorrebbe servirsene come siluro in un attentato terroristico. Sarà salvato dai ragazzini. Ideata e prodotta da Ciro Ippolito, tratta da un romanzo di Emilio Nessi, questa commedia di avventure marinaresche in chiave di favola appartiene più a lui che a Nichetti che trasforma Villaggio e Haber in personaggi da cartoon e lascia spazio all’ottimo L. Gullotta che s’inventa un grammelot greco-partenopeo che non dispiacerebbe a Fo.
Un giorno d’estate, i figli ormai adulti tornano a visitare i genitori anziani nella casa che abitano da anni. Il figlio e la figlia sono accompagnati dalle rispettive famiglie per questa che è una rara occasione per riunire tutto il clan familiare. Si ritrovano per commemorare l’altro figlio (fratello), il maggiore dei tre, tragicamente annegato in un incidente quindici anni prima. La casa avita appare spaziosa, confortante e immutabile, come sempre. Ma qualcosa, nel gruppo familiare, nelle singole persone, è impercettibilmente mutata.
Con impeccabile e asciutto stile documentaristico, il prolifico regista hollywoodiano Henry Hathaway racconta una vittoriosa azione del controspionaggio americano, che grazie a un suo agente infiltrato fra spie naziste scardina l’intera rete negli Stati Uniti.
Una giovane immobilizzata su una sedia a rotelle giunge in casa del padre, che vive con la seconda moglie. Il padre è assente e la matrigna si comporta in modo strano. Thriller di taglio tradizionale ricco di suspense con colpo di scena finale, sulla scia di Les Diaboliques, scritto con competenza da Jimmy Sangster. Funzionale bianconero di D. Slocombe. Titolo in USA: Scream of Fear.
Tratto da un’idea dello scalatore Reinhold Messner, il film narra la sfida tra Vince Roccia, un famoso rocciatore solitario, e un giovane e presuntuoso tecnico della scalata. In realtà l’unico uomo ad aver raggiunto la vetta è qualcun altro, che ha avuto il gusto di lasciare una piccozza con una foto di Mae West. Strutturato come un buon film televisivo ma al di sotto delle aspettative per un autore come Herzog. È stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia.
Nei mari della Groenlandia il capitano di un cacciatorpediniere USA dà la caccia a un sommergibile non identificato (presumibilmente sovietico), disposto a scatenare un conflitto atomico. Vigoroso, teso, efficiente dramma marinaresco sulla guerra fredda di taglio antimilitarista dove si mescolano i temi di Il dottor Stranamore e di L’ammutinamento del Caine. Recitazione di classe.
Sette professori ospitano una sciantosa ricercata dalla polizia. Uno s’innamora, ricambiato. Parafrasi sarcastica di Biancaneve e i sette nani, un cocktail ad alta gradazione alcolica di glottologia e gangsterismo con dialoghi ricchi di battute spiritose. Billy Wilder tra gli sceneggiatori. Rifatto dalla stesso Hawks con Venere e il professore (1941).
Gu-nam fa il tassista a Yanji ed è un Joseonjok, ossia un sino-coreano che parla entrambe le lingue, sostanzialmente visto come uno straniero dai primi e come uno schiavo dai secondi. Gu-nam deve infatti ripagare un debito enorme, contratto in seguito all’acquisto di un visto da parte della moglie, tornata in Corea. Approfittando della sua disperazione, il sordido Myun Jung-hak gli propone un modo per riappropriarsi della sua libertà: tornare in Corea per uccidere un uomo. Per Gu-nam si presenta l’occasione duplice di affrancarsi e di ritrovare la moglie.
Nella cittadina di Goksung (Corea), l’arrivo di un giapponese coincide con l’inizio di un’epidemia mortale. La polizia brancola nel buio fino a quando la figlia del detective Jong-hoo si ammala. Thriller rurale tipico della produzione sudcoreana di genere dell’ultimo ventennio – a partire dal capolavoro Memories of murder (2003) in poi – con un ritmo non serrato, efficace nel catturare lo spettatore. Ma la sceneggiatura mescola (male) diversi elementi horrorifici che solo la bravura dei protagonisti tiene insieme. Interessante la tematica religiosa: lo sciamanesimo e i suoi riti sono ancora molto considerati in alcune zone, dove la superstizione popolare resiste e sfrutta la chiusura mentale delle generazioni passate.
L’ex-poliziotto e attuale lenone Jung-ho si insospettisce dopo che un po’ delle sue ragazze scompaiono nel nulla. Temendo una fuga o peggio un acquisto sottobanco da parte di terzi, decide di indagare per conto suo sul mistero, finendo così per scoprire un orrore ben più profondo. Sono diversi i motivi per cui Chaser alla sua uscita ha rappresentato una splendida sorpresa. In primis il fatto che per Na Hong-jin si tratti di un debutto (e un debutto di questo livello in Corea non lo si vedeva da anni), secondariamente il fatto che, pur aggiungendosi alla già nutrita galleria di film coreani sui serial killer, riesca a brillare per più di un verso. Antesignano e pietra di paragone per tutto ciò che concerne il binomio serial killer-polizia inefficiente è (e rimarrà) il capolavoro Memories of Murder, ma il fattore doppiamente inquietante di Chaser è la differente ambientazione; se il film di Bong Joon-ho era ambientato durante il disfunzionale e sanguinario regime militare degli anni ’70-’80, Chaser mostra che anche in tempi di democrazia i mali che affliggono la società sono i medesimi. La politica, ancora una volta, si piglia la precedenza anche quando non dovrebbe e il personalismo del sindaco, preoccupato solo degli attentati e della popolarità, finirà per causare un meccanismo domino con ripercussioni gravissime sull’intera faccenda.
Non è un giallo perché si sa subito chi è il colpevole. Non è un thriller perché manca di azione. È soltanto in parte un dramma giudiziario sebbene la soluzione sia squisitamente legale. Che cosa è allora? Una battaglia di parole e di sguardi tra due maschi – l’autore di un (tentato) uxoricidio e un procuratore distrettuale che rappresenta l’accusa. È un film che fa aspettare anche se lo spettatore un po’ sveglio indovina presto il finale. Quel che conta in un buon criminal film è l’itinerario per raggiungerlo. Scritto e ben dialogato da Daniel Pyne e Glenn Gers, ha soltanto una palese smagliatura, ricucita col filo bianco, nel detective che arriva nella villa del delitto: è lui l’amante della vittima che raccoglie la confessione del colpevole. È improbabile che abbia avuto per mesi un’appassionata relazione con una signora sposata ignorandone nome e indirizzo. E come faceva Crawford a sapere che sarebbe intervenuto proprio lui? Il vero protagonista non è un Hopkins già visto, ma Gosling, giovane attore emergente alle prese con un personaggio complesso. Come il solito, Hoblit dirige con una elegante sicurezza che tracima qua e là nel calligrafico sullo sfondo di una Los Angeles altoborghese.
I meriti più evidenti dell’opera includono un cast impeccabile. Sarebbe difficile immaginare attori diversi al posto di Claude Rains e Cary Grant, apoteosi dei loro personaggi sullo schermo. La scelta di Ingrid Bergman era quasi indispensabile, insieme a Casablanca sarebbe stato uno dei ruoli iconici della sua carriera. Ma il vero trionfo del film è la complessità emotiva e morale della vicenda. Lo script di ferro di Ben Hecht e Oden Clifford è geniale nel gioco di due uomini, uno contro l’altro, innamorati della stessa donna: l’intreccio sentimentale più lineare che esista. È l’anatomia di una storia d’amore in cui ne sono mappati gli elementi di contraddizione, tra tradimento e lealtà, tra onore e irresponsabilità. Una duplicità che serve ad intensificare la potenza del suo finale dall’impianto quasi bressoniano. Per il cineasta il film è ricco di echi delle sue opere precedenti e future e segnato dalla presenza di temi molto ricorrenti nella sua cinematografia (dall’inganno di identità alle madri invadenti). La pellicola fu una delle esperienze hollywoodiane di maggior successo per il grande maestro, dopo Rebecca, la prima moglie il regista cominciò a ad andare maggiormente incontro ai gusti del pubblico e agli stilemi americani. Durante la preparazione della sceneggiatura Hitchcock si mise alla ricerca di un Mac Guffin attorno a cui far ruotare la storia e alla fine decise che i cospiratori avrebbero trafficato illecitamente dell’uranio allo scopo di realizzare una bomba atomica. Gli Studios si disinteressarono addirittura al film, pensando che il MacGuffin fosse troppo ridicolo. Ironicamente Hitchcock aveva centrato l’elemento segreto e l’FBI lo aveva seguito per tre mesi per scoprire la fonte della sua informazione. Nel 1946 il governo degli Stati Uniti era ancora molto sensibile all’argomento e J. Edgar Hoover, allora capo del FBI secondo alcune indiscrezioni si mostrò titubante per la realizzazione del film, fermo restando che nel copione non vi era alcuna menzione del FBI o di armi nucleari. È celeberrima la sequenza che partendo dall’alto di una scalinata (uno dei topoi adorati dal maestro del brivido, essendo la scala sempre al centro di moltissime scene madri dei suoi film), con un vertiginoso movimento di gru, arriva scendendo in mezzo ad una folla fino ad una chiave stretta nelle mani di Ingrid Bergman. Da antologia. Per TruffautNotorius è la quintessenza di Hitchcock.
Edit 15/6/2024 sostituito con versione Criterion Collection
Nel 1951 una bambina povera di campagna a dieci anni va a servizio in città in una famiglia dove impara a tenere la casa. A vent’anni, diventata bellissima, va a lavorare in casa di un amico della famiglia che lascia la fidanzata per lei. Scritto e diretto da un vietnamita cresciuto in Francia, benché di produzione francese e girato a Parigi, è un film vietnamita tenero e squisito che ha per tema centrale la condizione e il lavoro femminili. Profondamente orientale nel linguaggio e nelle immagini, nell’attenzione ai gesti e ai riti domestici, negli indugi incantati sui microavvenimenti della natura. Premiato a Cannes con la Caméra d’or per l’opera prima. Titolo vietnamita: Mui du du xanh .
Un gruppo di gangster, su commissione di un avvocato in cattive acque, compie una rapina in una gioielleria. Qualcosa non funziona. La banda, malgrado uno dei suoi componenti resti gravemente ferito, porta a termine il colpo. Ma uno degli organizzatori, messo sotto torchio dalla polizia, finisce col confessare. L’avvocato preferirà il suicidio all’infamante arresto. Ad uno ad uno gli uomini della banda vengono catturati o uccisi. Probabilmente il miglior film di gangster mai realizzato, cinematograficamente perfetto. Una visione livida e lucida di una comunità di emarginati, che ha un suo codice e che accetta la propria esistenza senza illusioni. Ogni personaggio ha una logica, anche il più marginale, nel disegno corale di una società che il regista mostra senza il fastidioso realismo poetico di stampo francese. Persino il personaggio del “professore”, il cervello della banda, è disegnato con precisione e senza coloriture dal grande caratterista Sam Jaffe. La perfetta esecuzione tecnica è dovuta probabilmente, oltre che al talento di Huston, al fatto che a produrre il film fosse la M.G.M, garante di una professionalità spesso travisata e giudicata un limite, senza la quale si può essere geni quanto si vuole, ma si finisce irrimediabilmente nella sciateria. Quasi sempre. Un film d’autore resta sempre tale, purché non si abbia la pretesa che ogni essere vivente abbia l’obbligo morale di assistervi e compiacersene. Giungla d’asfalto è un raro esempio di impegno artistico e professionale in perfetto equilibrio di valori. Uno stuolo di caratteristi, quali solo il cinema americano è in grado di sfornare, compongono la galleria di vincitori e vinti. Un gioco delle parti non privo di romanticismo, quello autentico, che scaturisce dalla mancanza di ferocia; un elemento ben presente nella società odierna. Sterling Hayden, che in seguito confermerà di essere come attore un perdente di successo, nel ruolo di Dix Handley ha una ruvidezza che nulla aveva a che fare con lo star system di allora. Né gli è da meno l’elegante e fatalista Louis Calhern, nel ruolo dell’avvocato. E Marilyn Monroe è inconsapevolmente la perfetta incarnazione di tutti i personaggi che avrebbe interpretato in seguito.
Prodotto da Dino De Laurentiis, diviso in 2 parti, racconta i primi 22 capitoli del Genesi. La parte introduttiva della Creazione è affidata alle immagini del fotografo Ernst Haas. Colosso mitico-religioso hollywoodiano in salsa italiana con alcune sequenze di alta suggestione spettacolare (l’arca di Noè, la torre di Babele). Non è difficile per i fan di Huston individuarvi le costanti tematiche e stilistiche dell’agnostico regista americano; agli altri basta lo spettacolo. “… le autorità ecclesiastiche hanno così paura delle controversie dogmatiche che preferiscono vedere un ateo che filma il Genesi piuttosto che affidarlo a un cattolico. Sono persuaso che se non avessero trovato un ateo si sarebbero accontentati di un ebreo” (J. Huston). Tra gli interpreti spicca la coppia Scott-Gardner. Uno degli sceneggiatori è il raffinato Christopher Fry.
Alfred Hitchcock presenta (Alfred Hitchcock Presents) è una serie televisivaamericana creata da Alfred Hitchcock. In Italia era conosciuta con il titolo di “Hitchcock presenta Hitchcock”. La serie non ha una trama lineare, né personaggi fissi, ma tutti gli episodi hanno un elemento in comune: il crimine, che viene perpetrato a volte nelle forme più inimmaginabili e grottesche. Lo stesso Hitchcock ebbe a dire, riguardo alla serie “Essa riporta il crimine in casa, dove esso risiede”. In questa release troverete il corrispettivo della serie “Alfred Hitchcock Presenta” uscita in edicola per DeAgostini. La collezione era di 28 DVD da 3 episodi ciascuno, totale di 84 episodi quindi una selezione di tutte gli episodi usciti dal 1955 al 1962
Il regista morì prima della messa in onda. La serie fu preceduta da un pilot formato da 4 episodi, tutti remake della serie classica. Ogni segmento era introdotto da un filmato colorizzato di Alfred Hitchcock, tratto dalla serie originale.
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