Un reduce della guerra di Secessione che non ricorda nulla del suo passato scopre di essere ricercato come disertore dell’esercito nordista. Fa delle indagini e riesce a stabilire la propria innocenza e a riconquistare la moglie, nel frattempo risposatasi con un bandito.
Clay O’Hara torna dalla città dove vive alla fattoria per vendicare il padre e il fratello trucidati dai ladri di bestiame. Si fa nominare vicesceriffo, ma lo sceriffo (che è d’accordo con i malviventi) si sbarazza di lui mettendolo sulla traccia di un pistolero.
Harry Deane è un curatore d’aste trattato come un travet dal suo capo arrogante ed è in cerca del colpo della vita più per vendetta che per avidità. Con l’aiuto del Maggiore mette su un’abile truffa fondata sull’incompetenza dei potenti e sul talento misconosciuto dei più deboli. Harry deve vendere a Lionel Shaband un falso Monet e portare a casa una dozzina di milioni di sterline. E non solo, forse. Se siete scacchisti o comunque giocatori “strateghi”, saprete che il gambit è una mossa a sorpresa che favorisce l’avversario sul breve termine perché poi si possa avere un vantaggio tattico sullo stesso nei momenti decisivi della partita. E questo valeva per il ladro gentiluomo Michael Caine nel film originale del 1966, molto meno in questo remake al limite del demenziale con Colin Firth. Il punto, però, è che Michael Hoffman – già autore del faticoso The Last Station – si ritrova per le mani la sceneggiatura dei fratelli Coen che da un po’ di tempo a questa parte si producono in esercizi di stile, percorrendo generi vari. In questo caso più del thriller truffaldino, dell’heist movie, quindi, viene approfondita la parte della commedia. Il regista è versatile e solido, il protagonista ha un talento e un aplomb che gli permette di percorrere ogni sentiero interpretativo (il monarca goffo e determinato de Il discorso del re, l’uomo senza qualità e irrisolto di A single man, il guitto elegante di questo film), la sceneggiatura è furba e con momenti molto divertenti. Ne esce fuori una pellicola discontinua che migliora nella seconda parte e che per catturare lo spettatore usa ogni mezzo: persino il peto di un’anziana signora e il rutto di una donna delle pulizie, abbastanza gratuiti entrambi. A questi ingredienti, infine, aggiungete Cameron Diaz, qui campionessa di rodeo texana che entra nella buona società londinese, con mise inadatte ma mozzafiato, il solito fascino da ragazzaccia e la sensualità da splendida quarantenne che combatte con ogni mezzo la vecchiaia. Per ora sconfiggendola alla grande. La sua verve da spalla comica ormai collaudata qui viene sfruttata il giusto, persino in un personaggio fin troppo bidimensionale. E c’è anche il comprimario giusto al posto giusto: Stanley Tucci, rivale di Deane e cialtrone colto e stolto. Tutti bravi, ma anche tutti che vanno sul sicuro: massimo risultato con il minimo sforzo. Perché in questo Gambit la particolarità è che la riuscita del film e l’efficacia sullo spettatore è sicuramente superiore al suo effettivo valore artistico, decisamente marginale. Il momento creativo più alto sembrano essere i titoli di testa, con un’animazione discreta a catturare l’attenzione. Nessuno, dal regista agli sceneggiatori fino agli attori, sembra realmente impegnarsi troppo, ma i 90 minuti scivolano via con gusto. Tutto è stato già visto, quasi ogni mossa è prevedibile con largo anticipo, il momento neriparentiano dell’Hotel Savoy è esilarante ma facilotto. In due parole, puro intrattenimento.
Da un romanzo di Ray Gaulden. Uno dei cinque bara a poker, gli altri lo impiccano. Pistolero, fratello dell’ucciso, lo vendica. È probabilmente il peggior western di Hathaway, nonostante Mitchum. Il meccanismo della suspense (chi è l’assassino?) non funziona. Musiche enfatiche di M. Jarre.
Storia dell’amicizia tra due donne trentenni di New York (Queens): Laura (Heche), che fa il tirocinio di psicologa terapista, sta per sposarsi con Frank (Field), ma si sente sempre più infastidita da lui e sempre più attratta da altri; Amelia (Keener) ha il complesso dell’abbandono, litiga più spesso con l’amica e perde l’amata gatta che, malata di cancro, si butta dalla finestra. Esordiente nel lungometraggio, N. Holofcener ha impiegato 5 anni per fare questa commedia fuori dagli schemi hollywoodiani in cui i personaggi contano più dell’intrigo: garbo; finezza nell’analisi dei sentimenti, dei comportamenti, dei complessi; sapienza nel dirigere.
Per vendicare la madre uccisa dagli agenti della Società Ferroviaria, i fratelli Frank (1843-1915) e Jesse James (1847-82), già soldati nella Guerra Civile, diventano fuorilegge. La storia di uno dei più mitici banditi della Frontiera _ rivisitata poi parecchie volte in modi diversi _ è esposta in questo film Fox in cadenze storicamente improbabili, ma suggestive nel suo impasto di scene d’azione e di sequenze di vita familiare. L’asciutta e tagliente regia di H. King, in contraddizione con la moraleggiante sceneggiatura di Nunnally Johnson, ne fa uno dei pochi memorabili western degli anni ’30. Filmato nel nuovo Technicolor da George Barnes
Barry è un contrabbandiere di stupefacenti. La polizia, che lo ha pizzicato, vuole la sua collaborazione per sgominare i grossi produttori di droga che fanno base in Columbia. L’uomo accetta ma dopo breve periodo deve cavarsela da solo.
Dal romanzo The Berlin Memorandum di Len Deighton: Harry Palmer, agente segreto britannico, deve far passare il muro di Berlino a un colonnello sovietico che intende disertare, ma c’è un altro agente inglese che fa il doppio gioco. 2° film della serie Harry Palmer, dopo Ipcress (1965) e prima di Il cervello da un miliardo di dollari (1967). Prima intrigante, poi sempre più confusa, la vicenda ha tante giravolte che persino Sherlock Holmes ne rimarrebbe spiazzato. C’è suspense, comunque, e alcuni colpi di scena sono ben piazzati.
Assoldato per un rapina durante una fiera Parker viene tradito dai criminali della sua banda e scaricato mezzo morto per strada. Raccattato e rimesso in sesto da una coppia di campagnoli il criminale medita una vendetta ad ampio raggio, un piano clamoroso nel quale viene coinvolta suo malgrado anche un’agente immobiliare in crisi finanziaria. Dall’incontro di due generi ben precisi, le storie di Donald Westlake con protagonista il criminale costantemente malmenato Parker e i film d’azione con Jason Statham, esce fuori un curioso ibrido che forse non rende giustizia a nessuna delle due fonti d’ispirazione. I romanzi di Westlake sono stati ampiamente saccheggiati dal cinema nel corso degli anni e in maniere a dir poco burrascose poichè lo scrittore non aveva un buon rapporto con gli studios. Ne hanno usufruito tra i molti anche Lee Marvin, Mel Gibson, Robert Redford e Jean-Luc Godard, però Parker è il primo film a basarsi su un suo racconto da quando l’autore è deceduto e per questo il primo a poter usare il nome del protagonista (dettaglio così decisivo da finire nel titolo). Seguendo quindi gli eventi di Flashfire: fuoco a volontàTaylor Hackford lentamente piega tutti gli angoli e smussa tutto ciò che non rientrerebbe nella parabola dell’eroe da Jason Statham, ovvero il duro senza scampo, dotato di un piano preciso e una vendetta da portare a termine. Per questo motivo ad ogni angolo e prima di ogni svolta sembra di intuire il meglio e poi ci si ritrova con una sua versione un po’ svogliata. Non solo il Parker adattato ai personaggi di Jason Statham perde quel senso di disperazione umana da noir filmico che era riuscito a guadagnare nelle sue precedenti incarnazioni cinematografiche (sorprendente quella di Mel Gibson in Payback) ma non guadagna nemmeno l’asciutta e spietata determinazione che l’attore britannico ha portato negli action movie moderni, finendo più dalle parti della vendetta nello stile del Conte di Montecristo. Anche l’unica caratteristica che hanno in comune i due personaggi (ovvero Parker e quelli solitamente incarnati da Statham), vale a dire la capacità di incassare senza fermarsi, nutrirsi di colpi ricevuti più che dati come un’instancabile macchina umana (sublimata dall’attore britannico in Crank), non sembra essere resa con la dovizia che sarebbe stato lecito aspettarsi. È allora il personaggio di Jennifer Lopez, agente immobiliare in cerca di denaro per una vita migliore, quello a cui più facilmente ci si affeziona. Entra in scena a metà film ma il suo mondo e i suoi problemi sembrano immediatamente più interessanti e coinvolgenti di quelli del protagonista. In questa storia trasformata in film di vendetta iperbolico e fumettoso (in cui anche un cockney come Statham viene creduto texano quando ne imita malissimo l’accento), Jennifer Lopez porta un peso umano e reale non indifferente, una complessità sentimentale e romantica (quella sì davvero da noir) che sorprendono. Quando i due agiscono in coppia sembra lei la protagonista del film, ovvero il personaggio le cui traversie sono più determinanti per lo spettatore.
Andrea Orsini, uomo di fiducia di Cesare Borgia, tradisce il suo signore per amore della bella Camilla, moglie del governatore di una città che il Borgia vorrebbe conquistare. Durante la battaglia, organizzata da Andrea, il Borgia viene battuto e Camilla, rimasta vedova, sposa il bell’Andrea.
Ospite nel castello della fidanzata in Inghilterra, si accorge che succedono cose terribili: le radiazioni di una meteorite trasformano in mostri piante e persone. Tratto da un bel racconto di H.P. Lovecraft The Color Out of Space, rifatto nel 1987 da David Keith (The Curse), è un horror che spreca una buona idea di partenza.
Una ragazza di provincia si trasferisce nella capitale americana e va ad abitare con un’amica in una pensione la cui proprietaria si arricchisce con la tratta delle bianche. Un ragazzo si innamora di lei ma la giovane, credendo che la tradisca con l’amica, cerca di conquistare il suo principale che a sua volta ha preso una cotta per la sua compagna. Questa un giorno scompare e i tre personaggi la cercano finché la trovano, smascherano il losco commercio e dichiarano reciprocamente i propri sentimenti.
Un vecchio guantone da baseball ricevuto improvvisamente per posta costringe Bobby Garfield, affermato fotografo di mezz’età, a ritornare indietro nel tempo e nel luogo, a quella lontana estate del 1960, quando straordinari eventi segnarono la fine della sua infanzia. È la mattina del suo undicesimo compleanno quando, nella casa dove Bobby (Anton Yelchin) abita con la madre, arriva Ted Brautigan (Anthony Hopkins). L’uomo è tormentato da un passato misterioso, e da strane trance precognitive che lo angosciano, eppure è in grado di instaurare col ragazzino un profondo rapporto di amicizia, prestandogli quelle attenzioni che la madre vedova (Hope Davis), troppo amareggiata e disillusa, non è in grado di dare al figlio. È così che Bobby scopre i valori dell’amicizia e del coraggio, ed è così che si innamora per la prima volta della sua compagna di giochi, Carol. Ma gli eventi precipitano, Carol è picchiata a sangue da un ragazzetto crudele, la madre di Bobby scopre a proprie tragiche spese la verità sul suo datore di lavoro, e Ted è costretto a rimettersi in fuga: gli uomini grigi che da tempo lo stanno braccando sono ormai vicini.
Anno 1642. Re Carlo I Stuart occupa militarmente il parlamento inglese. È la guerra civile. L’armata lealista, guidata da Oliver Cromwell, sconfigge il re che viene giustiziato. Turgido film epico con una preziosa fotografia (G. Unsworth) e un’efficace colonna musicale (F. Cordell), ben curato nella ricostruzione scenografica e nei costumi, grandi scene di battaglia, ma senza cuore né grinta, accademico come un libro di scuola, e un grave difetto di fondo: re Carlo (A. Guinness) è più simpatico di Cromwell (R. Harris). Forse corrisponde alla verità storica, ma drammaturgicamente è una debolezza. Oscar per i costumi di Nino Novarese.
Rientrato in licenza dall’Iraq, Mike Deerfield scompare. Aiutato solo da una poliziotta, suo padre Hank, agente della polizia militare in pensione, indaga e scopre la verità sulla sua morte orrenda e soprattutto sull’omertà dell’esercito nei confronti dei crimini commessi al fronte durante un’altra “sporca guerra”. 2ª regia d’autore, dopo Crash – Contatto fisico , di uno dei più originali e politicamente impegnati sceneggiatori di Hollywood, canadese di nascita e californiano dopo i 20 anni, che fece un lungo apprendistato nella pulp fiction TV. Tra i tanti film sulla guerra in Iraq è l’unico che si svolge interamente in USA. Ha la sua forza, e i suoi limiti, in una sceneggiatura compatta e sapiente che riesce a mettere in discussione con un’analisi impietosa l’ideologia militarista e il patriottismo fanatico. Si conclude con un’immagine metaforica che si conficca nella memoria degli spettatori coinvolti: l’alzabandiera “con le stelle e strisce rovesciate di un’America che chiama aiuto, bandiera fissata con il nastro isolante perché le cose continueranno così per chissà quanto” (B. Fornara). È anche la storia di una tragica presa di coscienza, quella dell’anziano Hank, un Jones straordinario di misura e di dolore represso.
Una squadra di hockey su ghiaccio si trova ultima in classifica e sul punto di essere liquidata. Ma il suo allenatore e giocatore Reggie si fa in quattro per salvarla. Monta colpi giornalistici con i cronisti, solleva l’interesse di grossi industriali, sul campo chiede (e ottiene) dalla compagine un’aggressività verbale e fisica senza limiti.
Il soggetto è ricavato da alcuni raccontini per ragazzi scritti da Ian Fleming, l’inventore di 007. Il geniale ma squattrinato inventore Potts (con due figlioletti e vecchio padre a carico) compra i resti di una gloriosa auto da corsa. La rimette in sesto e la inaugura con una gita al mare alla quale partecipa anche Stella, l’avvenente figlia di un fabbricante di dolciumi a cui Potts invano ha cercato di vendere la caramella che fischia da lui ideata. Per lo strano rumore che produce quando è in moto, la nuova auto viene battezzata Citty Citty, Bang Bang. Sulle ali della fantasia, Citty Citty porta gli allegri gitanti attraverso avventure incredibili, in terra e in cielo.
Mitch Haven è un giovane regista che vuole realizzare un film basato su una vera crime story che coinvolge un maturo politico del North Carolina e la sua giovane amante, Velma Duran. Mentre lavora alla sceneggiatura e cerca il giusto volto per la protagonista, s’imbatte nel provino della semisconosciuta Laurel Graham, che pare la reincarnazione del personaggio reale. E così è: Laurel è Velma Duran, lo sa lei e lo sa anche un detective assicurativo prestato al set come muratore. Intanto, Mitch Haven trasforma malauguratamente la passione per il film che sta girando in passione cieca per la sua musa.
Dopo 25 anni di matrimonio, Natalie insegnante e autrice di libri di filosofia, ex sessantottina, si trova di fronte a una svolta: i due figli, ormai adulti, sono andati fuori casa, il marito la lascia per un’altra, la madre muore, il suo allievo prediletto e principale collaboratore va a vivere in una casa isolata in campagna con alcuni amici, la casa editrice per cui scriveva la licenzia. Nonostante qualche momento – solitario – di sconforto, Natalie, molto cerebrale e intellettuale, trova un suo nuovo modus vivendi e la nascita di un nipotino la aiuta. Una Huppert sempre bravissima anche se ormai un po’ troppo confinata in ruoli di donna fredda e controllata (quando non perfida e perversa). È lei che regge il film, riflessione dolceamara sull’avanzare dell’età ma anche sulla libertà fisica e mentale dell’individuo.
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