Africa all’inizio della prima guerra mondiale. In una piccola missione metodista condotta dal pastore Samuel Sayer e da sua sorella Rose la notizia dello scoppio delle ostilità viene portata da Charlie, un canadese semialcolizzato che trasporta merci su un’imbarcazione denominata African Queen. Di lì a poco i tedeschi, che presidiano la zona, incendieranno il villaggio e feriranno a morte il pastore. Charlie propone a Rose di allontanarsi con lui ma la donna ha un progetto ben più ambizioso. Venuta a conoscenza della presenza della “Luisa” (una nave della Marina tedesca) in un lago raggiungibile percorrendo il fiume su cui la Regina d’Africa sta navigando, vuole farla affondare utilizzando l’esplosivo che Charlie trasporta. La missione non sarà facile ma cementerà l’inizialmente difficile rapporto tra i due trasformandolo in amore. “Una storia in cui due persone vanno su e giù su un fiume africano… A chi può interessare? Farete fallimento”. (Il produttore inglese Alexander Korda a Sam Spiegel nel momento in cui quest’ultimo decide di produrre La Regina d’Africa). Non sono pochi i film entrati nella leggenda del cinema per il loro valore e per le vicende produttive che li accompagnarono ma questa opera di John Huston è sicuramente uno dei più esemplari. Perché sin dall’inizio si trattava di un progetto a rischio a causa del soggetto (finì invece per costare 1,3 milioni di dollari incassandone subito 4,3 e offrendo ad Humphrey Bogart l’Oscar quale migliore attore). Il rischio ulteriore era poi costituito dalle riprese in esterno realizzate nel continente africano (tra Uganda e Zaire) con un protagonista (Bogart) troppo abituato agli studios per apprezzare la stravaganza. Che invece interessava molto a Huston, all’epoca maniaco della caccia grossa all’elefante. Peter Viertel (chiamato a sostituire nella stesura della sceneggiatura Patrick Agee che la stava completando direttamente in loco) documenta questa passione nel romanzo che diventerà nel 1990 un film con lo stesso titolo Cacciatore bianco, cuore nero, diretto e interpretato da Clint Eastwood. Se a questo si aggiunge il piacere leggermente sadico che il regista provava nel mettere in difficoltà gli attori il quadro è completo. Basti citare la scena in cui Charlie/Bogart è assalito dalle sanguisughe per capire come “il Mostro” (come lo chiamavano sul set) si divertisse. In studio fece portare un secchio pieno di veri anellidi salvo poi usarne di finti. Solo per mettere in tensione fino all’ultimo l’attore. Sul piano linguistico affascina ancora oggi la sfida colta da Huston nel realizzare un film che va oltre i generi consolidati. Infatti commedia, romanticismo, avventura e dramma si alternano e si fondono in un’opera sostanzialmente teatrale. Perché, sequenze iniziali e finali a parte, La Regina d’Africa è una pièce teatrale a due il cui palcoscenico è costituito dalle assi della scatarrante imbarcazione. La morte incombe e segna il percorso nonostante l’imposizione produttiva di modificare il finale del romanzo di C.S. Forester che si concludeva con il fallimento dell’impresa e la scomparsa di Rose nei flutti. Huston, nonostante l’happy end, scava nei corpi dei suoi protagonisti spingendoli allo stremo per compiere un’impresa non ‘eroica’ (non ne hanno le caratteristiche) ma ‘necessaria’. In questo va tenuto conto del fatto che il romanzo era stato pubblicato nel 1935, che c’erano stati due tentativi abortiti di tradurlo per lo schermo con le coppie Laughton/Lanchester e Davis/Niven ma che ora sulla pelle di molte famiglia americane bruciavano ancora i segni di una guerra vinta contro i tedeschi che era però costata le vite di molti soldati Ryan.
Ho inserito questo film, che non viene mai citato nelle classifiche colte e pochissimo ricordato dal grande pubblico. Le ragioni sono molte. La prima è, naturalmente, la qualità del film. La seconda è Huston, che lo diresse pochi giorni prima di morire, sapendo di morire e rappresentando, con un coraggio più che umano, il mistero che andava incontrando. La terza ragione è James Joyce, uno dei massimi scrittori del Novecento, che nessuno aveva mai tradotto in film. Joyce è la letteratura. Col suo celeberrimo Ulisse, e ancora di più col successivo Finnegan’s Wake, aveva stravolto i concetti del racconto, non più logico e conseguenza di fatti ma conseguenza di parole, con assonanze, analogie, memorie improvvise e atemporali. In tutto questo c’era davvero poco spazio per le immagini. Ma Joyce nel 1906 aveva scritto i racconti Gente di Dublino, diciamo secondo lo stile tradizionale. Un libro straordinario. Il cinema aveva già attaccato monumenti inattaccabili, come Mann, Kafka e Proust, riuscendo faticosamente ad aderire a storie e significati. Autori cinematograficamente difficili, specie gli ultimi due. Furore può anche essere condiviso da Steinbeck e Ford, e Il gattopardo da Lampedusa e Visconti, ma Il processo è di Kafka non di Welles, e Un amore di Swann è di Proust, non di Schlondorff. Huston riprese l’ultimo dei racconti di Dublino, dal titolo I morti. A Dublino, nel 1904, le sorelle Morkan danno un ballo annuale. È invitata la buona borghesia. Ci va Gabriel, con sua moglie Gretta. Si fa musica, c’è una cena, si parla di tutto: pettegolezzi, arte, il tempo, politica. Prima di lasciare la casa Gretta sente una canzone che letteralmente la sconvolge. La donna ammutolisce, chiude gli occhi, dolorosissimamente. Il marito se ne accorge. Lei gli racconta che quella canzone era cantata da un ragazzo, Michael Furey, morto a diciassette anni di polmonite, perché era rimasto sotto la pioggia per salutare lei che stava per partire. Gabriel è a sua volta sconvolto: non ha mai conosciuto davvero sua moglie, era all’oscuro di una vicenda tanto importante. Di notte, con Gretta che dorme, Gabriel pensa alla morte. Parla a se stesso guardando il buio oltre la finestra. Joyce conclude il racconto così: “Neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senz’alberi; cadeva lieve sulle paludi di Allen e più a occidente cadeva lieve sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, su ogni angolo del cimitero deserto in cima alla collina dov’era sepolto Michael Furey. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli. E l’anima gli svanì mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo, stancamente come se scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti”. Ma Huston non se la sente di far morire il protagonista e queste parole le fa dire a lui. Il film dunque interviene sulle straordinarie parole di Joyce con due licenze: un finale diverso e soprattutto le immagini. Huston mostra il buio, la neve sui vetri, un campanile nero, il ghiaccio sul fiume. La morte secondo le immagini del cinema. Grande cinema e grande letteratura: un soccorso reciproco e tempestivo.
Il vecchio John Huston riesce ancora a dare la zampata del leone in questa brillante trasposizione del romanzo di Flannery O’Connor. Protagonista è un giovane provinciale del profondo sud, psichicamente alterato, che persegue la sua folle ambizione di fondare una nuova Chiesa di Cristo senza Cristo.
Ho anche una versione in inglese se qualcuno dovesse essere interessato
Straordinaria trasposizione cinematografica di uno dei più grandi romanzi della narrativa mondiale, scritto da Herman Melville nel 1851. Questo capolavoro della letteratura statunitense, viene riportato sul grande schermo da uno dei più illuminati registi di tutti i tempi:John Huston. Un viaggio allucinante attraverso tutti gli oceani della baleniera Pequod e del suo equipaggio, impegnato in una forsennata caccia alla terrificante balena bianca. La storia viene raccontata attraverso le riflessioni di Ismaele, giovane marinaio che si imbarca dall’isola di Nantucket sulla maestosa baleniera (Il Pequod), per provare nuove avventure… “Intorno al mondo! Intorno al mondo!” Il capitano Achab è il comandante del Pequod, è un uomo dal carattere scostante, è una figura austera che desta timore, è un vecchio cacciatore di balene, ed è perseguitato da un’ossessione: vendicarsi di Moby Dick.
Un film di John Huston. Con Humphrey Bogart, Bruce Bennett, Tim Holt, John Huston, Walter Huston. Titolo originale The Treasure of the Sierra Madre. Avventura, b/n durata 124′ min. – USA 1948. MYMONETRO Il tesoro della Sierra Madre valutazione media: 4,24 su 14 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Tre avventurieri alla ricerca di una vena aurifera nella Sierra Madre. La trovano, ma nel viaggio di ritorno s’uccidono tra loro. E l’oro? Via col vento. 3 Oscar in famiglia: 2 a John (regia, sceneggiatura, dal romanzo, 1927, di B. Traven) e 1 al babbo Walter (attore non protagonista). Film hustoniano per eccellenza, ma non uno dei suoi migliori. Come i falsi capolavori, invecchia male: un sovrappiù di astuzia narrativa, un certo accademismo figurativo, una bravura un po’ verniciata. E Bogart che si prepara al Queeg di L’ammutinamento del Caine. B. Traven è lo pseudonimo di Berick Traven Torsvan, scrittore statunitense di lingua tedesca dalla vita avventurosa e avvolta nel mistero.
Il film era tratto dal romanzo Il falcone maltese di Dashiell Hammett, grande giallista che aveva indicato una nuova via al genere. Speede è chiamato a indagare su di una statuetta a forma di falcone, che si porta dietro una maledizione secolare. Tutti la vorrebbero: un avventuriero maldestro (Lorre), un grassone pieno di soldi (Greenstreet), una donna che racconta malissimo le bugie (Astor). Il detective indaga alla sua maniera. È cinico, pochissimo eroico, non tratta le donne con il dovuto rispetto. Solo alla resa dei conti si dimostra onesto e persino un po’ romantico. Un personaggio del tutto simile a un altro grande detective: il Philiph Marlowe inventato da Raymond Chandler, scrittore per molti versi omologo di Hammett. Personaggi tanto simili, i due detective, da essere entrambi resi immortali dallo stesso Bogart. Straordinario era il gruppo di caratteristi della Warner, che si sarebbero ritrovati insieme in altri memorabili film. E intensa era la dark Lady Mary Astor, l’assassina col volto angelico, creatrice di un precedente che sarebbe tornato e ritornato. Una delle grandi sequenze del cinema “nero” è Bogart che alla fine del film esamina il falcone, per il quale tanti sono morti, banale e niente affatto prezioso, costruito “col materiale di cui son fatti i sogni…”.
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