Tokyo. Un piccolo appartamento in cui vanno a vivere una giovane madre con il figlio tredicenne. In realtà i figli sono quattro nati da quattro rapporti diversi e vanno tenuti nascosti perchè mai registrati all’anagrafe. Quindi niente scuola, nessuna uscita sul balcone e, per di più, una madre immatura che rovescia sulle spalle del figlio maggiore tutta la responsabilità della conduzione della famiglia fino al giorno in cui si allontana per non fare piu’ ritorno. La vita dei quattro piccoli continua ma la tragedia incombe. Ispirato da un reale fatto di cronaca questo film porta sullo schermo con grande precisione l’orrore dell’indifferenza in una società che non vede più i bambini come una preziosissima risorsa ma solo come un freno alla libertà degli adulti oppure un fastdio, una responsabilità che è meglio non assumersi. Neppure per segnalare alla polizia dei minori in stato di evidente abbandono. Un film lucidamente amaro, girato con una sobrietà intensa che fa meditare.
Tokyo. Un piccolo appartamento in cui vanno a vivere una giovane madre con il figlio tredicenne. In realtà i figli sono quattro nati da quattro rapporti diversi e vanno tenuti nascosti perchè mai registrati all’anagrafe. Quindi niente scuola, nessuna uscita sul balcone e, per di più, una madre immatura che rovescia sulle spalle del figlio maggiore tutta la responsabilità della conduzione della famiglia fino al giorno in cui si allontana per non fare piu’ ritorno. La vita dei quattro piccoli continua ma la tragedia incombe. Ispirato da un reale fatto di cronaca questo film porta sullo schermo con grande precisione l’orrore dell’indifferenza in una società che non vede più i bambini come una preziosissima risorsa ma solo come un freno alla libertà degli adulti oppure un fastdio, una responsabilità che è meglio non assumersi. Neppure per segnalare alla polizia dei minori in stato di evidente abbandono. Un film lucidamente amaro, girato con una sobrietà intensa che fa meditare.
Dopo aver sofferto da bambina per l’abbandono improvviso da parte della nonna, Yumiko deve affrontare ora il lutto per la morte del marito, travolto e ucciso da un treno mentre camminava inspiegabilmente sui binari. La donna dovrà compiere un lungo percorso per ritrovare la serenità e mettere ordine nei suoi pensieri tormentati da tanto dolore.
Da un manga di Akimi Yoshida. Abbandona moglie e figlie per fuggire con l’amante. Poi anche sua moglie scappa per rifarsi una vita. Le sorelle Sachi, Yoshino e Chika restano sole nella casa della nonna materna. Quando il padre muore, si recano al funerale e conoscono la 13enne Suzu, che lui ebbe con la nuova compagna, e decidono di accoglierla con loro. Il funerale è l’occasione per le 3 sorelle di intraprendere un viaggio di crescita personale nei ricordi. L’incontro con una sorella minore mai vista risveglia un istinto familiare che va al di là di qualunque pregiudizio e colpa genitoriale. Il cinema di Hirokazu è un placido e tranquillo fluire della vita. Il regista caratterizza i suoi personaggi con tratti di semplicità e quotidianità che catturano lo spettatore. Un’opera delicata, senza colpi di scena clamorosi e a effetto, che racconta, come in un diario di una città di mare (dal titolo originale), l’intrecciarsi di esistenze normali e, proprio per questo, splendide.
Preadolescente silenzioso e riservato, Minato ha perso il padre quando era piccolo e vive con la madre, impiegata in una stireria. Vittima a scuola di un professore eccessivamente severo, Minato è difeso dalla madre, la quale si scontra duramente con la preside dell’istituto. Eppure qualcosa non torna: Minato dice la verità o il suo professore è innocente? E se si sbagliasse anche quest’ultimo a considerare il suo alunno un bullo? Perché a guardar la storia da vari punti di vista la realtà cambia e il vero soggetto diventa l’amicizia nascosta tra Minato e un suo compagno di scuola, preso di mira perché effemminato…
Una storia, tre punti di vista, anzi no, quattro, e altrettante, forse ancora di più, posizioni da cui guardare la realtà: dalla prospettiva dei piedi di un bambino su cui il film si apre; dal balcone ai piani alti di un palazzo mentre un edificio vicino va a fuoco; dal sedile di un’auto mentre si parcheggia in retromarcia; dalle scale di una scuola; davanti a una persona a cui si sta chiedendo scusa con un inchino…
Prima che un grande narratore delle dinamiche relazioni, familiari e istituzionali, Koreeda è un grande regista e anche in questo suo nuovo Monster inserisce i cinque protagonisti – Minato e sua madre Saori, il professor Hori, la preside Makiko e il piccolo Yori – all’intero dei loro spazi – le case, la scuola, un tunnel, un rifugio nei boschi – e dà valore soprattutto ai loro movimenti, ai loro sguardi, agli oggetti che li definiscono, alle parole che usano e che vengono fraintese, usate, manipolate.
La frantumazione del racconto, diviso in tre momenti paralleli che corrispondono ai punti di vista di Saori, del professor Hori e di Minato, con la preside Makiko a fare da cerniera tra la seconda e la terza parte – apre alla tipica relatività del cinema di Koreeda, che da sempre, e in particolare in Still Walking, Like Father, Like Son e Un affare di famiglia,riflette sui ruoli familiari e sulle relazioni che nascono fuori da una cornice di affetti istituzionalizzata.
Al centro di Monster, in maniera molto simile a Close (il film di Lukas Dhont dedicato alla fragile amicizia e attrazione fra due preadolescenti), c’è un altro legame inconfessabile, giovane ma già inficiato dallo stigma sociale, che per questo apre a una serie tragica di bugie, incomprensioni, interpretazioni parziali.
Koreeda, uno dei registi più interessanti e sperimentali del cinema giapponese contemporaneo, incontra il film in costume, e nasce un film intenso, divertente e innovativo come “Hana”. Soza è un giovane samurai mandato dal suo clan in un distretto povero dell’antica Edo per vendicare la morte del padre, ma la sua missione molto presto viene soppiantata dal coinvolgimento della vita del quartiere: Soza trova un ruolo felice all’interno del microcosmo grazie all’insegnamento ai bambini, l’onore del suo obiettivo si tramuta quindi in una dedizione di utilità sociale. Poche sono le scene spettacolari di duelli, forte è invece il ripetersi di azioni, anche senza rilevante significato, del quotidiano: Koreeda sceglie di guardare al di la del canoni classici del genere dei film sui samurai per lavorare sul realismo e su valori piu’ vicini alla società contemporaneo. Il suo “eroe” non è una figua mitica, ma un personaggio pienamente umano, attraversato dal dolore, sconfitte, comicità, amore e anche onore, un vero e proprio samurai dei giorni nostri!
Presentato a Cannes 2009 e basato sul manga di Yoshiie Goda, il film racconta, sullo sfondo di una moderna metropoli, la storia di una bambola gonfiabile che pian piano diventa sempre più umana, innamorandosi del suo proprietario, commesso di una videoteca.
Dopo la morte del padre, lo scrittore fallito Ryota prova a recuperare i rapporti con la sua famiglia mentre è in arrivo un tifone su Kiyose, vicino a Tokyo. È presa da una canzone la frase detta dalla madre al figlio (titolo originale del film), “Wakare no yokan” di Teresa Teng, e significa “Anche più profondo del mare”. Quando il protagonista capisce che per la sua famiglia, divisa e distrutta dalle sue azioni superficiali del passato, prova un amore così, allora ricomincia a vivere. La famiglia è il cardine e il centro di questo dramma personale: la tempesta spazza via a Ryota i paraocchi: una vita sprecata tra scommesse e bugie, piatta e anonima, e gli consente di partire alla ricerca di sé stesso, forse più che di un’ispirazione per il suo romanzo. Poetica della quotidianità: non accade nulla di eclatante, la vita scorre per un paio di giorni sufficienti a delineare le personalità e i rapporti che intercorrono tra loro in maniera netta e precisa. Lo spettatore è solo invitato ad assistere e lasciarsi trasportare dall’emozione. Girato prima del precedente film Little Sister , ma uscito solo in seguito, dopo Cannes.
Shigemori, tra i migliori avvocati del paese, si trova costretto a difendere Misumi dall’accusa di omicidio del suo datore di lavoro al cui cadavere è stato dato fuoco e a cui è stato sottratto il portafoglio. Misumi era già stato condannato 30 anni prima per un reato analogo e ora confessa anche il nuovo omicidio. Quando sembra ormai chiaro che l’uomo sarà condannato alla pena di morte, Shigemori inizia a sospettare che l’uomo non dica la verità.
Un giorno d’estate, i figli ormai adulti tornano a visitare i genitori anziani nella casa che abitano da anni. Il figlio e la figlia sono accompagnati dalle rispettive famiglie per questa che è una rara occasione per riunire tutto il clan familiare. Si ritrovano per commemorare l’altro figlio (fratello), il maggiore dei tre, tragicamente annegato in un incidente quindici anni prima. La casa avita appare spaziosa, confortante e immutabile, come sempre. Ma qualcosa, nel gruppo familiare, nelle singole persone, è impercettibilmente mutata.
In un umile appartamento vive una piccola comunità di persone, che sembra unita da legami di parentela. Così non è, nonostante la presenza di una “nonna” e di una coppia, formata dall’operaio edile Osamu e da Nobuyo, dipendente di una lavanderia. Quando Osamu trova per strada una bambina che sembra abbandonata dai genitori, decide di accoglierla in casa.
La famiglia, per definizione, non si sceglie. O forse la vera famiglia è proprio quella che si ha la rara facoltà di scegliere. Libero arbitrio parentale: un tema niente affatto nuovo nel cinema di Kore-eda Hirokazu, dallo scambio di figli di Father and Son alla sorellanza estesa di Little Sister.
Ma Un affare di famiglia percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. In un’opera brutalmente separata in due atti, che lavora molto sul dialogo con lo spettatore. Il primo segmento sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa Akira, ancor più che al consueto termine di paragone di Ozu.
Kore-eda è ormai talmente padrone della propria poetica, elaborata attraverso una lunga e pregevole filmografia, da poterne disporre a piacimento, rivoltandola come un guanto per offrire nuovi punti di vista, nuove ricerche di verità.
Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento. Lo scontro tra legge e natura raggiunge il suo apice nell’epilogo di Un affare di famiglia, dimostrando l’invincibilità della prima – che ostruisce la costruzione di un modello alternativo – ma ribadendo con forza le ragioni della seconda.
Nonomiya Ryota è un professionista di successo, un uomo che lavora sodo ed è abituato a vincere. Un giorno, lui e la moglie Midori ricevono una chiamata dall’ospedale di provincia dove sei anni prima è nato loro figlio, Keita, e vengono a sapere che sono stati vittima di uno scambio di neonati. Il piccolo Keita è in realtà il figlio biologico di un’altra coppia, che sta crescendo il loro vero figlio, insieme a due fratellini, in condizioni sociali più disagiate e con uno stile di vita molto differente. Ryota si trova di fronte alla necessità di una decisione terribile: scegliere il figlio naturale o il bambino che ha cresciuto e amato per sei anni?
Il titolo internazionale è “Like Father, like Son”
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