Un film di Werner Herzog. Con Helmut Döring, Gerd Gickel, Paul Glauer Titolo originale Auch Zwerge haben klein angefangen. Drammatico, durata 96′ min. – Germania 1970. MYMONETRO Anche i nani hanno cominciato da piccoli valutazione media: 3,29 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In una imprecisata colonia di nani una ribellione provoca un crescendo di vandalismo, follia, violenza e atti crudeli, che diventa quasi un catalogo del sadismo, radicato nel mondo animale e nella natura. È il più estremo, surreale, inquietante e allucinato film di Herzog, che l’ha diretto, prodotto e scritto curandone gli arrangiamenti musicali, celato interamente in una dimensione critica. Un incubo raccontato come tale, senza una logica e, nel suo andamento caleidoscopico, senza uno sviluppo lineare né un finale, ma fondato su grande rigore stilistico: la figura ricorrente del cerchio indica una situazione senza vie di uscita. Fotografia di Thomas Mauch. Girato nell’isola di Lanzarote (Canarie) con attori nani non professionisti.
Julien è schizofrenico. Vaga nel bosco dove incontra un bambino con il quale litiga per una tartaruga. Lo uccide con un sasso e lo seppellisce nel fango, supplicando il perdono di Dio. Lavora come volontario in una clinica che ospita ciechi. Si perde continuamente nei suoi pensieri, confusi e frammentati, come del resto l’impatto emotivo della narrazione. Vaga da un marciapiede all’altro dei viali di periferia, con delle enormi cuffie che sembrano propiziare i suoi monologhi. E poi torna a casa, la sua famiglia. Contesto suburbano della periferia americana, famiglia degradata, con un padre che si lascia andare in seguito alla morte della moglie, un fratello ossessionato dal desiderio di essere un vincente e una sorella che intrattiene con lui un rapporto ambiguo, tranquillizzandolo attraverso la cornetta di un telefono, con il quale finge di essere la madre. La sorella sta imparando a suonare l’arpa ed è incinta, ma si rifiuta di rivelare l’identità del padre. La folle dolcezza di Julien riesce a tenere unita la famiglia. Film girato interamente a spalla, gli sono stati riconosciuti i requisiti imposti dal manifesto del Dogma ’95, nonostante le continue distorsioni audio visive. Grandissima interpretazione del protagonista Ewen Bremner, curiosa quella di Werner Herzog in un ruolo complesso come quello del padre di Julien, insieme a freaks originali, personaggi positivi della storia. Gli occhi più veri, nell’ossessione, con cui uno schizofrenico sia mai stato guardato. Finale da thriller della pesantezza
Un film di Werner Herzog. Titolo originale Echos aus einem düsteren Reich. Documentario, durata 90′ min. MYMONETRO Echi da un regno oscuro valutazione media: 3,00 su 3 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Michael Goldsmith, corrispondente dell’Associated Press dal Nordafrica, conduce l’inchiesta su Jean Bedel Bokassa, ex imperatore della Repubblica Centrafricana, spodestato da un colpo di stato, accusato di molti crimini efferati (anche di cannibalismo), condannato a morte in contumacia e poi chiuso nel carcere di Bangui. Diversi tipi di testimonianze e di testimoni, interessati e disinteressati, si alternano con spezzoni di documentari. Non mancano gli inserti di taglio grottesco e surreale: i granchi sulla spiaggia all’inizio, lo scimpanzé che fuma alla fine, immagine insopportabile perché, al tempo stesso, troppo umana e troppo vera. Più che un documentario sugli orrori della realtà è un’indagine sulla natura del potere dispotico, è “un film sulla menzogna, sull’inattendibilità, sulla messa in scena della testimonianza” (A. Pezzotta). Fotografia di Jörg Schmitte-Reitwein, musiche di J.S. Bach, A. Vivaldi.
Un film di Werner Herzog. Con Brad Dourif, Ellen Baker, Franklin Chang-Diaz, Shannon Lucid, Michael Mcculley, Donald Williams Titolo originale The wild blue yonder.Documentario, durata 81 min. – Francia, Germania, Gran Bretagna 2005. uscita venerdì 25novembre 2005. MYMONETRO L’ignoto spazio profondo valutazione media:3,13 su 12 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Werner Herzog è un regista che negli ultimi anni ha agito nell’ombra. Una decina di documentari e docu-fiction che non si è preoccupato tanto di promuovere, quanto invece del piacere di girarli per amore del proprio lavoro. The wild blue yondercorre, ancora una volta, sulla linea della fiction documentata per proiettarci nella fantascienza, nell’ignoto spazio, narrando di alieni che alla fine risultano più umani di noi. Un alieno (Brad Dourif) racconta con passione e malinconia un sogno infranto: creare un avamposto, una “Casa Bianca”, base e centro nevralgico di un popolo sconosciuto alla ricerca di un luogo, la Terra, per aprire nuove frontiere. La metafora extraterrestre diviene una sorta di pretesto per fotografare la condizione umana e dichiarare che i veri alieni siamo noi, che nello spazio esploriamo nuove strade di speranza per la prossima civiltà. Sospeso fra interminabili e poetiche sequenze, The wild blue yonder è passato, presente e futuro dei viaggi nello spazio dell’umanità. Non un’esplorazione, ma il desiderio di un nuovo sogno e di una terra che sia migliore della nostra, ormai giunta allo stremo delle forze. Una piccola ed ecologica Odissea nello Spazio per comprendere che il cinema può essere filosofia e comunicazione dello stato delle cose.
Agli inizi del Novecento l’eccentrico Brian Sweeney Fitzgerald, barone irlandese del caucciù, vuole costruire a Iquitos, nel cuore dell’Amazzonia peruviana, il più grande teatro d’opera di tutti i tempi per farci cantare Enrico Caruso. Costato 8 miliardi (più tutti gli averi del regista, due morti, parecchi feriti e tre anni di lavorazione) questo film, frutto di un’operazione un po’ folle, è paradossalmente il più ordinato e accademico del più sregolato autore del nuovo cinema tedesco. Narrato a ritmo lasco col tran tran di uno sceneggiato TV, ha un solo personaggio vivo: il battello il cui assurdo ed epico trasporto attraverso il colle occupa 45 minuti. I momenti d’incanto e le sequenze visionarie, comunque, non mancano. Si apre e si chiude con un frammento delle 2 opere ottocentesche che hanno per protagonista Elvira: Ernani (1844) di G. Verdi e I puritani (1835) di V. Bellini.
Esiste sulla romanzesca lavorazione del film un bel documentario di Les Blank, Burden of Dreams (1982), che, secondo alcuni, è persino più affascinante del film.
“Una natura stupida, oscena e sbagliata”. Questa è la conclusione cui si arriva di fronte alla toccante riflessione per immagini del regista tedesco, lacerante docu-dramma che ripercorre le tredici estati (dal 1990 al 2003) trascorse in Alaska dall’americano Timothy Treadwell, attivista/ecologista animato dall’ossessione di proteggere dai bracconieri una comunità di orsi grizzly. Alternando estratti da quel “film di estasi umana e di cupo tumulto interiore” (come l’ha definito il regista) realizzato da Treadwell stesso, suggestive riprese naturalistiche e interviste realizzate a parenti e amici di Tim dallo stesso Herzog, la pellicola va a costruire una drammatica parabola esistenziale sull’utopico sogno dell’Uomo di poter dominare, seppur benevolmente, una Natura atavicamente spietata e violenta . Riecheggiando quella di tanti travagliati eroi solitari del cinema di Herzog, la storia di Tim si conclude infatti tragicamente con il brutale attacco da parte di un grizzly all’uomo e alla fidanzata Amie Huguenard, quell’estate al suo fianco. Attacco registrato dal microfono della videocamera di Tim, testimone esclusivamente sonora di una tragedia annunciata. E dolorosamente ripercorsa nel film da Herzog che, mettendosi in campo in prima persona, in maniera toccante e discreta fa sua – ma fortunatamente non nostra – questa straziante e privata tragedia sonora. Il regista tedesco ribadisce così la sua pessimistica visione del mondo della natura, restituendoci allo stesso tempo tutta l’innocenza e la spontaneità di uno spirito umano ingenuo e vitale. Ultimo amico della natura, oltre ogni limite.
Un film di Werner Herzog. Con Klaus Kinski, Helena Rojo Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling Titolo originale Aguirre, der Zorn Gottes. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 94′ min. – Germania, Messico, Perù 1972. MYMONETRO Aguirre, furore di Dio valutazione media: 3,80 su 15 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nel 1560 una spedizione spagnola, guidata da Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco, discende la Cordigliera delle Ande alla ricerca del mitico El Dorado. La giungla inestricabile la blocca. Si invia allora un pattuglione esplorativo, munito di zattere, sul fiume Urubamba al comando di Pedro de Urrua al cui fianco è l’ambizioso e spietato Lope de Aguirre. Girato con pochi mezzi in Perú, il 5° film di W. Herzog è leggibilea 3 livelli: 1) racconto di avventure e di viaggio che ha al centro il tema di una profanazione fallita, 2) tragedia di un eroe del male (con un Kinski strepitosamente nevrotico) sui temi della ribellione e della solitudine, 3) parabola politica sull’imperialismo coloniale. Vi coabitano uno straniamento epico di timbro brechtiano e una tensione onirica, allucinata. Fotografia di Th. Mauch.
È forse il film più stilizzato, enigmatico e allucinato di W. Herzog che, partendo da un racconto fantastico dell’amico poeta e cineasta Herbert Achternbusch, porta all’estremo il suo cinema visionario e antinarrativo, già sperimentato 10 anni prima con Fata Morgana. Nella Baviera del primo Ottocento una vetreria è sull’orlo della bancarotta quando il suo proprietario muore senza aver divulgato la formula del suo speciale vetro-rubino. La popolazione rischia di rimanere senza lavoro. Un pastore-profeta annuncia agli abitanti l’incendio della vetreria e la prossima fine del mondo.
Nel febbraio del 1993 Herzog è in Siberia per indagare la spiritualità del popolo russo. In un film diviso in capitoli, vediamo forme diverse di sciamanesimo, credenze popolari e superstizioni, ascoltiamo le parole di un predicatore dell’energia cosmica, di un guaritore con acque sacre, assistiamo alle cerimonie religiose nelle chiese e alle prediche di un giovane che dice di essere il nuovo Gesù. Infine, un personaggio poetico e senza tempo fa risuonare le “sue” campane come fossero uno strumento. Si racconta anche della leggenda della città di Kither, sistematicamente rasa al suolo dai Tartari e dagli Unni: i suoi abitanti invocarono la protezione di Dio e questi inviò un arcangelo che spostò la città in fondo a un lago, dove la gente ha trovato finalmente la pace, cantando inni e suonando le campane della cattedrale. Il documentario fa parte di una serie di sei film diretti da Godard, Wertmuller, Bogdanovich, Obayashi e Russell.
Dopo aver girato una serie di corti (ultime parole,la difesa di deutschkreutz,ercole) Werner Herzog gira il suo primo lungometraggio.Tratto da un racconto di Achim Von Arnim,la pellicola racconta del soldato Stroszek e della sua lunga permanenza in un’isola greca dove il suo compito e’ sorvegliare una fortezza in cui vi e’ un carico di munizioni.
Non c’era un marito buono per Gertrude Bell in tutta l’Inghilterra. Troppo sveglia, curiosa, acculturata, intelligente e troppo poco disposta a nascondere queste qualità per accasarsi. Solo fuori dai confini del suo paese, nei deserti dell’impero Ottomano in disfacimento, ha cominciato a vivere. Non solo popoli, persone, immensità e luoghi da conoscere ma anche esseri umani che ne apprezzassero la forza intellettuale. Tra un amore civile e uno selvaggio nella sabbia, Bell, cavalcando con tre cammelli e due aiutanti, ha conosciuto, esplorato e preso contatto con luoghi e popoli a cui nemmeno l’intelligence britannica aveva accesso, diventando, di fatto, il loro braccio e la loro spia principale. Tanto che nel 1920 fu lei a dividere l’impero Ottomano, segnando i confini dei nuovi stati e assegnandone il comando. Ancora una volta nel cinema di Werner Herzog il teatro di tutta l’azione, nonchè lo specchio della portata epica delle intenzioni dei personaggi, è un’immensità riempita da una natura incontaminata, nella quale la vita ha il medesimo sapore della morte e in cui l’uomo sembra un ospite indesiderato della fauna. Al centro dell’epopea di Gertrude Bell secondo Herzog (che, come sempre, quando può, scarta volentieri dai fatti veri) c’è, per l’appunto, il deserto. La definizione delle imprese di questa donna, che il regista guarda con la precisa volontà di scalzare Lawrence d’Arabia dal suo trono (Pattinson è così fuori parte che sembra quasi fatto apposta), si misura con l’immensità che attraversa ed esplora. Di luogo inaccessibile in luogo inaccessibile la sua Bell sfida se stessa attraverso la natura (come tutti gli eroi herzoghiani), in imprese che gli altri ritengono impossibili. Nonostante non sia un uomo quindi, la Gertrud Bell di Nicole Kidman si presenta come una delle migliori personificazioni dello spirito dell’eroe per Werner Herzog: una persona dalla tenacia fisica alimentata dalla forza morale (tanto da resistere ad uno sparo nel braccio) e la cui audacia è sostenuta da un desiderio profondissimo, che per Bell è conoscere e vedere, per poi fare da mediatrice politica.
A scuola un bambino viene escluso dai coetanei perché strano e poco curato nell’abbigliamento e nell’igiene. Una bambina fa amicizia con lui, va a casa sua per vedere il suo corvo parlante e scopre che la madre del bambino è all’ospedale malata di cancro e il padre lo maltratta e lo trascura; per questo si nutre solo di pop corn. I due fanno amicizia
Zishe Breitbart è figlio di un fabbro ebreo e ha la forza di Sansone. Battuto in un circo un forzuto energumeno, viene notato da un impresario di Berlino che vorrebbe condurlo in città e al successo. Convintosi che la sua potenza fisica sia un dono di Dio, Zishe lascia il suo villaggio in Polonia per raggiungere a piedi Berlino. Ingaggiato da Hanussen, un sedicente mago e preveggente che pronostica l’avvento di Hitler e sogna di istituire il Ministero dell’Occulto, si esibisce nel suo teatro interpretando Sigfrido, l’eroe epico della mitologia germanica in grado di piegare metallo e nemici. Invaghito di una bella pianista e intuito l’antisemitismo diffuso, Zishe si persuade di dover guidare il suo popolo verso la salvezza. Ma un chiodo arrugginito e l’esasperato razzismo avranno la meglio sul Sansone dello shtetl e sul popolo di Israele.
Una multinazionale vuole intraprendere ricerche petrolifere in una landa desertica australiana. Gli aborigeni si oppongono, sia pure in maniera non violenta. Quella terra è da secoli sacra, per loro. I loro sit-in non fermano i cacciatori di petrolio. Ma i difensori dell’ambiente l’avranno egualmente vinta.
Dopo Aguirre e Fitzcarraldo Werner Herzog e Klaus Kinski si lanciano in un’altra storia di straordinaria follia ai tropici. Anche Cobra Verde è realmente esistito. Si chiamava Francisco Manoel da Silva, un trafficante di schiavi che da bandito in Brasile divenne il viceré di una regione della costa occidentale dell’Africa.
Girato nel Sahara meridionale, in Kenya, in Tanzania, nei paesi che si affacciano sul golfo di Guinea e nelle Canarie, è diviso in tre parti (La creazione, Il paradiso, L’età dell’oro), commentate da testi in voce off attinti da una leggenda degli indios guatemaltechi o scritti dal regista. Difficile definirlo: documentario surrealista? Film allucinato tra il documentario etnologico e il cinema underground informale? Paesaggio in trance, come lo definisce Herzog qui al suo 2° lungometraggio? Tentativo di filmare l’infilmabile, qualcosa che è al di là della realtà, delle sue bellezze e dei suoi orrori? Riflessione apocalittica sulla fine di una civiltà? Nella 2ª parte gli innesti umani sono elementi spuri che abbassano la tensione visionaria.
In un piccolo paese della cecoslovacchia ,un soldato estremamente sensibile alla natura e’ succube sia della moglie che dei suoi superiori,ma quando scopre l’adulterio della moglie sentira’ una voce (della natura o di se stesso?) che lo esortera’ ad uccidere la donna
Conroe, Texas. Michael Perry è nel braccio della morte. Verrà ucciso tra otto giorni, per il triplice omicidio compiuto dieci anni prima. Il ragazzo che era con lui quella notte, Jason Burkett, sconta invece l’ergastolo. E così suo padre, per altri reati. Werner Herzog esce dalla grotta che ha visto gli esseri umani dei primordi esprimere se stessi attraverso l’arte e fermare la propria esistenza nel racconto (Cave of forgotten dreams) ed entra nell’abisso di esistenze altrettanto senza tempo, congelate nella reclusione, dove la comune esperienza del passare dei giorni è alterata, per darcene il racconto altrimenti muto. A tale of death. A tale of life, questo il titolo. Ancora una volta, Herzog è mosso da una curiosità personalissima. Dedicherà poi il documentario ai parenti delle vittime, ma inizialmente non pare dover rispondere a nessuno se non alla sua volontà di indagare agli estremi della vita, come sempre. Intervista, dunque, Perry e Burkett, la figlia e i fratelli delle vittime, la guardia che, dopo essersi occupata di 120 esecuzioni, è crollata in occasione di una di esse e non ha mai più messo piede al lavoro, la giovane avvocatessa che si è innamorata di Jason Burkett e, pur non potendolo toccare, l’ha sposato e ha trovato il modo di avere un figlio da lui. La posizione del regista è chiara da subito, l’annuncia pacatamente ma fermamente, e nonostante le inquadrature trattenute a lungo, le copiose lacrime degli intervistati in scena, non si avverte quasi mai la complicità di Herzog con l’una o l’altra dichiarazione e meno che mai la sua simpatia per l’una o l’altra delle persone coinvolte, se non quell’apertura umana che gli appartiene e che fa di lui il grande artista che è. Ciò che emerge dal documentario è piuttosto l’impossibilità di una sovrapposizione totale e univoca tra crimini e criminali: atroci i primi, umani i secondi. Soprattutto sotto questa luce va probabilmente intesa la dedica ai parenti delle vittime, che troppo spesso individuano la risposta ai loro abissali “perché?” in un capro espiatorio. Pur preferendo senza dubbio i film e i documentari nei quali il regista tedesco ha accostato questi stessi temi in maniera meno diretta e frontale, è difficile pensare ad un modo più rispettoso e approfondito di condurre quest’indagine. L’ironia di cui egli è principe, pur emergendo in qualche modo dalla realtà famigliare degli intervistati e dall’incredibile accanirsi del destino su alcuni di essi, è di fatto opportunamente assente. Presenziano il riguardo e la compassione.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
La storia vera di Dieter Dengler, pilota della U.S Air Force, americano di origini tedesche, abbattuto e catturato in Laos durante la guerra del Vietnam. Dengler riesce ad organizzare la sua fuga e quella di un gruppo di prigionieri. Diretto da Werner Herzog, si basa su un suo documentario del 1977, Flucht aos Laos (Little Dieter Needs to Fly).
Tratto da un’idea dello scalatore Reinhold Messner, il film narra la sfida tra Vince Roccia, un famoso rocciatore solitario, e un giovane e presuntuoso tecnico della scalata. In realtà l’unico uomo ad aver raggiunto la vetta è qualcun altro, che ha avuto il gusto di lasciare una piccozza con una foto di Mae West. Strutturato come un buon film televisivo ma al di sotto delle aspettative per un autore come Herzog. È stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia.
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