Michele, giovane regista alle prese con il film La mamma di Freud , detesta i dibattiti, la madre, i coetanei, la psicanalisi, i giochi televisivi e gli aspiranti registi. Il 3° film di Moretti ha un’aureola di successo dimezzato: mezzo Leone d’oro a Venezia, critica divisa, flebile successo di pubblico. Un po’ delirio, un po’ teorema, riuscito a metà, ma ricco di invenzioni e di intelligenza sarcastica.
Tratto dalla famosa serie televisiva. Le avventure del delfino Flipper che coi suoi amici vigila sulle isole incontaminate, proteggendole dai cattivi antiecologisti.
Un beluga ( Delphinapterus leucas , detto delfino bianco) è inseguito nei mari di Grecia dal povero Billy Bolla (P. Villaggio), attore di varietà, di cui ha inghiottito il libretto della pensione, e dal truce Marcov (A. Haber), trafficante d’armi che vorrebbe servirsene come siluro in un attentato terroristico. Sarà salvato dai ragazzini. Ideata e prodotta da Ciro Ippolito, tratta da un romanzo di Emilio Nessi, questa commedia di avventure marinaresche in chiave di favola appartiene più a lui che a Nichetti che trasforma Villaggio e Haber in personaggi da cartoon e lascia spazio all’ottimo L. Gullotta che s’inventa un grammelot greco-partenopeo che non dispiacerebbe a Fo.
Nella notte di Natale quattro amici e un industrialotto, il pollo da spennare, si trovano per una partita di poker che sarà, in molti sensi, un regolamento di conti. Come si addice a una partita di poker, che è il fulcro del film, c’è suspense, ma vien fuori bene anche la conoscenza che il bolognese Avati ha della vita in provincia e del suo continuo peggioramento. Sua è l’orchestrazione sapiente di un quintetto di attori eterogenei che hanno le facce giuste. C. Delle Piane premiato come attore protagonista a Venezia 1986; Nastro d’argento a D. Abatantuono non protagonista; David di Donatello a R. De Luca (suono), Riz Ortolani (musica).
Edit 13/1/2024: sostituita versione dvdrip con una migliore
È il seguito di Regalo di Natale (1986), uno dei film più riusciti di P. Avati, insolito perché, nella finzione come nella realtà, avviene 18 anni dopo. È anche uno dei suoi pochi film ambientati nell’Italia contemporanea, l’unico situato nel presente della natia Bologna. Il che spiega il più alto tasso di amarezza civile, di squallore arrogante e, forse, di misantropia che impregna il racconto. Anche qui la partita a poker serve a togliere le maschere ai personaggi e a rivelarne l’indole nascosta o la vulnerabilità, ma non c’è soltanto un traditore come nell’altro film. Lo stesso Franco (Abatantuono), vecchia vittima, è predisposto a barare. L’Italia odierna è più abominevole e corrotta che nel 1986. Alla riuscita del film, scritto da Avati (con la consulenza pokeristica, non sempre ascoltata, di Giovanni Bruzzi, come in Regalo di Natale ), contribuiscono i 5 attori, perfetti anche nel mostrare gli effetti che l’orologio biologico ha avuto su di loro.
Riunione di famiglia nella bella Sulmona (AQ) a Natale. In casa di nonno Panelli, ex carabiniere un po’ rincitrullito, e dell’infaticabile nonna Trieste arrivano i quattro figli con famiglie. I vecchi propongono di andare a stare in casa di uno dei figli. Decidano loro. Scritta con Carmine Amoroso (premio Solinas), Suso Cecchi D’Amico e Piero Bernardi, è una commedia corale scandita in 2 parti. La 1ª ha un taglio di commedia realistica di costume e semina le mine che esplodono nella 2ª parte dove si passa ai toni dell’umorismo nero fino al feroce cinismo della conclusione. Il ribaltamento della prospettiva appare eccessivamente programmato.
Per festeggiare il fidanzamento tra Angelo, giovane borghese di Bologna, e Silvia, appartenente a una famiglia di contadini agiati di Porretta Terme, nel febbraio 1936 in un casolare dell’Appennino si svolge un pranzo di venti portate. Film ambizioso e maturo questo (16°) di Avati, affidato coralmente a una compagnia di 25 e più attori che recitano, benissimo, quasi sempre in presa diretta. Qualche inverosimiglianza. 2 Nastri d’argento (film, sceneggiatura), 1 Donatello e 1 Ciak.
Aldo Fiore (S. Rubini), consulente di una casa editrice, è insidiato dal suo capo (M. Buy) che vuole portarselo a letto, ma resiste, fedele alla sua compagna (S. Izzo). Un viaggio in Grecia in cerca di un autore misterioso (G. Tedeschi) risolve il caso. Alla 3ª regia, credendo di fare il furbo, Rubini s’attacca a un tema di moda (molestie sessuali di donne in carriera ai dipendenti in calzoni; vedi Rivelazioni , di M. Crichton, esplicitamente citato), e ne cava una commedia avvilente e sguaiata in cui la storia è sballata, la sceneggiatura inetta, qua e là imbarazzante, gli interpreti – diconsi tutti – inferiori al loro standard medio. Dedicato a Franco Borni, responsabile del sonoro in presa diretta, allora da poco deceduto. Una perdita secca per il cinema italiano.
1940, a Sorman, oasi nel deserto libico dov’è accampato il 3° Reparto della 31ª Sezione Sanità, in un clima indolente di vacanza esotica anche se c’è qualcuno che si preoccupa di soccorrere la popolazione locale. Un’offensiva dell’esercito britannico rovescia drammticamente la situazione. Scritto dal regista con Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni, dal diario di guerra II deserto della Libia (l95l) di Mario Tobino e dal racconto II soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Fotografia: Saverio Guarna. Girato a budget ridotto tra maggio e giugno in Tunisia, il 65° film del novantunenne Monicelli (85° come sceneggiatore) è all’insegna della precarietà, interna ed esterna, narrativa e produttiva. È uno dei rari registi al mondo che sanno raccontare la morte, rispettandola, in cadenze di commedia e di rappresentare una tipologia di italiani in divisa e in guerra, brava gente stracciona, con un cinismo affettuoso, qui più che mai affettuoso, tirando fuori le unghie satiriche soltanto per la stupidità pomposa (il generale di T. Sanguineti) di chi li comanda. “Il film c’è, qua e là raffazzonato, esorbitante o insufficiente. Ma c’è.” (A. G. Mancino). E’ una guerra raccontata da una prospettiva “dal basso” ma, nel suo squallore, in modi realistici e veritieri. Come i suoi personaggi, i soliti militi ignoti.
Sulla scia di Oggetti smarriti , nasce a pochi mesi di distanza questo documentario sulla popolazione notturna della Stazione Centrale di Milano, prodotto da Unitelefilm con RAI 2 e l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma. Fa parte di una serie di film-inchiesta sulle grandi città italiane rette da giunte rosse: Torino ( Vorrei che volo di E. Scola), Roma ( Comunisti quotidiani di U. Gregoretti), Napoli ( Napoli, due città di A. Vergine), in funzione della propaganda elettorale del PCI. Suddiviso in 33 capitoletti in ordine alfabetico, è un film d’autore che mette in immagini la Milano sommersa, con la gente che in stazione abita e dorme: drogati, barboni, puttane, pugili suonati, vagabondi, alcolizzati, barflies . La Stazione Centrale come ventre di Milano, metropoli europea. Contaminazione di documentario, tecniche di cinema diretto, e ambizioni di fiction nel tentativo di dare agli intervistati statuto e statura di personaggi, qua e là risente di rigidità nell’impostazione tematica populista e, insieme, intellettualistica, ma ha un’ammirevole equilibrio tra lucidità di sguardo e partecipazione emotiva senza concessioni al sentimentalismo né alla demagogia. L’etichetta di documentario gli sta stretta e quella d’inchiesta è poco pertinente. Fu poco usato come propaganda elettorale perché utilizzabile non era. A Milano – dove non c’era una giunta rossa – la proiezione, seguita da dibattito, avvenne per iniziativa personale di Pietro Ingrao. 1° premio ex aequo al Festival dei Popoli di Firenze.
In una cittadina romagnola giovanotto ambizioso, iscritto al PSU (Partito Socialista Unificato), diventa factotum di un professore, futuro assessore, e l’amante di sua sorella, mentre, per vendicarsi, la sua ex fidanzata fa lo stesso con il professore. Si arriva così a un duplice, forzato matrimonio. 2° film di M. Bellocchio che vi riprende i temi di I pugni in tasca (la corruzione degli ambienti familiari, lo squallore sordido della provincia), proiettandoli su una mordace satira del trasformismo politico, dell’ipocrisia borghese, del velleitarismo estremista, del falso riformismo del centrosinistra. Troppa carne al fuoco, forse. Ma, comunque, un lucido e rabbioso film di contestazione.
Antonio, pochi giorni prima di sposarsi, è vittima di un incidente stradale che lo porta a regredire ad uno stadio infantile. Suo fratello maggiore Valerio si ritrova così a doversi prender cura di lui e per farlo deve ricorrere ad assurdi stratagemmi: travestendosi ora da mamma, ora da papà, non solo asseconda la demenza puerile di Antonio, ma rinfocola le relazioni di famiglia che sembravano sepolte. Marianna, fidanzata di Valerio, si intromette tra i due per cercare di dar loro una mano, ma… Tratto dall’omonima pièce teatrale diretta nel 1990 da Nanni Loy (da un testo di Vittorio Franceschi), con gli stessi attori di allora, il debutto di Haber dietro la macchina da presa.
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