Un film di André De Toth. Con Robert Ryan, Tina Louise, Burl Ives Titolo originale Day of the Outlaw. Western, b/n durata 96 min. – USA 1959. MYMONETRO Notte senza legge valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un litigioso ranchero viene preso prigioniero da alcuni banditi che lo obbligano a guidarli sulle montagne. La discordia scoppia fra i fuorilegge che si uccideranno a vicenda. L’allevatore tornerà libero e capirà la necessità di rifiutare la violenza.
Un pistolero americano che ha venduto la sua pistola a un signorotto messicano varca il confine, preso dalla nostalgia degli Stati Uniti. Ma lì si innamora di una donna sposata e uccide un uomo che l’ha insultata. Deve tornare in Messico, dove si mette in urto con i suoi antichi padroni. Ma avrà il modo di salvare il marito della sua amante e di stabilirsi con lei, questa volta definitivamente, negli Stati Uniti.
Un western comico pervaso di intelligente umorismo: un uomo si stabilisce in un paesino del West assieme al suo gregge di pecore. Gli allevatori di bovini, temendo un danno ai propri pascoli, tentano di mandarlo via prima con le buone, poi con le cattive.
Cordoba è un bandito messicano che nel 1912 compie feroci scorribande al confine tra Messico e Stati Uniti. Un capitano dell’esercito USA ha l’incarico di eliminarlo. Ritmo veloce, ma lento pensiero in questa ibrida e fiacca imitazione dello “spaghetti-western”.
Il forzuto agente assicurativo Earp (Spencer) si associa allo svelto pistolero Doc (Hill) per dare la caccia all’astuto e feroce bandito Bill Sant’Antonio (Wolff) che ha rapinato un treno. G. Colizzi esordisce nella regia, anche come produttore (Crono) e sceneggiatore, mettendo insieme 2 attori _ veri nomi: Mario Girotti e Carlo Pedersoli _ in una coppia che cambierà il volto dello “spaghetti-western”. Il successo di pubblico è tale (2 miliardi d’incasso) che li riunisce in altri due western: I quattro dell’Ave Maria e La collina degli stivali, migliori del primo anche se meno redditizi. Ricco di flashback e di scene violente (torture comprese), e già incline a introdurre elementi estranei al genere. Il titolo originale era Il cane, il gatto, la volpe, rispettivamente interpretati da Spencer, Hill e Wolff che è anche un po’ serpente.
Cacciatore di taglie deve uccidere due disgraziati che hanno massacrato gli uomini e rapito la figlia di un riccone. Sequel non ufficiale di Django , doveva uscire infatti con il titolo 7 dollari su Django , è un western bizzarro, romantico, diretto con una certa eleganza, ma che porta anche l’impronta degli sceneggiatori, Scavolini, Gastaldi, Martino e Fogagnolo.
Un bandito messicano ruba ad un mite cacciatore il magnifico purosangue che l’uomo vorrebbe usare per rifarsi una vita come allevatore. Deciso a riaverlo ad ogni costo, il cowboy è costretto ad impugnare la pistola.
Brent Landers, ricercato per un delitto non commesso, batte il Nuovo Messico alla ricerca dell’uomo che può dimostrare la sua innocenza. Lo trova ma è costretto a ucciderlo. E con lui molti altri per salvare una ragazza di cui è innamorato. Uno dei classici del western all’italiana. Anche se la fattura è ancora rozza, e gli autori si muovono con notevole goffaggine. Ma ad un anno dal “boom” di Per un pugno di dollari il genere era in piena voga. Bastava Gemma a decretare il successo di una pellicola.
Negli anni ’70 dell’Ottocento lo sceriffo di Hadleyville sposa una quacquera e dà le dimissioni, deciso a partire, ma cambia idea quando apprende che con il treno di mezzogiorno arriverà un bandito, da lui arrestato per omicidio, che vuole regolare i conti con l’aiuto di tre complici. Abbandonato da tutti, affronta da solo gli aggressori. Raccontato in tempo reale con una ingegneria narrativa che ha il suo culmine nella sparatoria finale, è una lezione di etica civile in forma di western e soffre di un certo schematismo. Prodotto da Stanley Kramer, scritto da Carl Foreman (intellettuale di sinistra finito sulla lista nera negli anni del maccartismo), ispirato al racconto The Tin Star di John W. Cunningham, valse a Cooper il 2° Oscar della sua carriera. Altre 3 statuette: montaggio (Elmo Williams, Harry Gerstad), musica (Dimitri Tiomkin), canzone del titolo (Tiomkin, N. Washington), cantata da Tex Ritter. Circola in TV colorizzato, a scempio dello splendido bianconero del grande Floyd Crosby.
È il racconto classico della sfida combattuta all’OK Corral di Tombstone il 26 ottobre 1881 tra lo sceriffo Wyatt Earp, i suoi fratelli e il giocatore-beone Doc Holliday da una parte e il clan dei fratelli Clanton dall’altra. Quando John Ford dirigeva i suoi western muti Earp era ancora vivo, capitava sul set e si ubriacava giocosamente con le comparse. Ford gli offriva il caffè e si faceva raccontare la grande sfida. Anni dopo ha riprodotto a memoria quelle schegge di vita di frontiera e la manovra militare che ebbe per teatro il Corral. È un western molto bello, un classico e il più accorato di Ford. I personaggi esprimono una sorta di “gentilezza dei prodi” e vivono nell’atmosfera d’una canzone di gesta carica di nostalgia. Ford è imbevuto dello spirito reale della vita di frontiera, riproduce fedelmente lo stile con cui cowboys e fuorilegge rischiavano l’esistenza in un crogiuolo arroventato come Tombstone. E il film è la più esatta – se non storicamente, come spirito – ricostruzione tra le molte che sono state fatte sull’episodio. Henry Fonda dipinge Wyatt Earp come un classico westerner onesto e crepuscolare: un personaggio quasi timido, il pistolero convertitosi in tutore della legge. La sua figura suggerisce i momenti più distesi del racconto: il riposo con un piede sulla seggiola inclinata e l’altro sulla balaustra della veranda, i colloqui intensi con Clementine, la memorabile scena del ballo. Ma la grande figura del film, un epico signore della frontiera degno di Francis Bret Harte, è “Doc” Holliday: un sorprendentemente bravo Victor Mature, medico con vocazione alla pistola, tubercolotico come nella miglior tradizione romantica, poeta maledetto che sa a memoria Shakespeare e che completa il monologo dell’ Amleto azzoppato dal patetico vuoto di memoria del vecchio attore. E deliziose, anche se un po’ in ombra, sono le figurine femminili: l’impetuosa, ardente Chihuahua di Linda Darnell, una sanguemisto dalla scollatura densa di profumo, e la magica Clementine, preziosa nella sua sommessa malinconia, tutta giocata su toni grigi poetici. Come quasi sempre in Ford la leggenda del West approda alla poesia e sfavilla in momenti di grande forza, anche se l’azione spesso cede alla descrizione lirico-nostalgica. Tra la storia e la leggenda Ford anche questa volta ha stampato la leggenda. Ma il vigore del sentimento dei personaggi, le figurine disegnate a tutto tondo, la ricchezza del racconto e la splendida descrizione dei paesaggi magistralmente fotografati nell’amata Monument Valley danno al film il tocco più prezioso dell’autenticità.
Cinque personaggi si affrontano intorno a una sorgente: Morton (Ferzetti), magnate delle ferrovie, ha bisogno dell’acqua per le sue locomotive e fa eliminare i proprietari legittimi, i McBain, dal suo feroce sicario Frank (Fonda); Jill (Cardinale), ex prostituta, vedova di un McBain; il bandito Cheyenne (Robards), accusato della strage dei McBain; l’innominato dall’armonica (Bronson) che vuole vendicare il fratello (Wolff), assassinato da Frank e i suoi sgherri. Su un soggetto scritto dal regista con Dario Argento e Bernardo Bertolucci e sceneggiato con Sergio Donati, è una sorta di antologia del western in negativo in cui si ricorre ai suoi più scalcinati stereotipi. 3 attori americani di scuole diverse e il più famoso dei 3 (Fonda) scelto contro la parte. Il set non è più l’Andalusia, ma la Monument Valley di John Ford. In un film ricco di trasgressioni, Leone dilata madornalmente i tempi drammaturgici, contravvenendo alla dinamica del genere. Sotto il segno del titanismo si tende al teatro d’opera e alla sua liturgia. Dall’epica del treno, della prima ferrovia transcontinentale, si passa alla trenodia, al canto funebre sulla morte del West e dello spirito della Frontiera. Come in Sam Peckinpah.
L’azione si svolge al confine messicano durante la rivoluzione di Pancho Villa. Un gruppo di banditi accetta di depredare per denaro un carico di armi destinate ai ribelli. Il colpo riesce sennonché uno dei malviventi, scoperto mentre nasconde una cassa del prezioso carico, viene torturato e ucciso. I suoi compagni, per vendicarlo, sparano sui regulares uccidendoli, ma rimanendone anche vittime. Il regista ha dipinto un affresco anticonformista descrivendo una realtà di miseria e squallore, lasciando parlare i peones messicani con il loro dialetto. Film importante; uno dei manifesti del tramonto del western. Mentre Butch Cassidy, l’altro grande western decadente, uscito nello stesso anno, è tenero e nostalgico, questo film è crudele e cinico.
Un film di Howard Hawks. Con Kirk Douglas, Dewey Martin, Arthur Hunnicutt, Elizabeth Threatt, Barbara Hawks, Bon Belloe, Booth Coleman, Buddy Baer. Titolo originale The Big Sky. Western, b/n durata 112 min. – USA 1952. MYMONETRO Il grande cielo valutazione media: 4,31 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Missouri 1832. Jim (Douglas) e Bill (Martin) si incontrano e diventano amici, vanno a caccia e fanno baldoria. A S. Louis finiscono in gattabuia, ma escono grazie all’intervento di un commerciante che intende opporsi allo strapotere della Compagnia delle pellicce: risalirà il Missouri fino alle terre dei Piedi neri, forte di un eccezionale ostaggio, la figlia del capo indiano, che costituirà appunto da lasciapassare. Durante il viaggio la donna, misteriosa e silenziosa, coltiva i suoi sentimenti. Straordinario capolavoro western, opera di un regista che quattro anni prima aveva firmato un’altra pietra miliare del genere, Il fiume rosso. Hawks si poneva dunque nell’eccellenza dei film sull’ovest, a pochissima distanza da John Ford. Il film contiene tutti i grandi temi della frontiera, in maniera decisamente “fisica”: magnifica la natura, così come i tempi dell’avventura, e tutt’altro che banali gli intrecci dei rapporti. Hawks è stato titolare di minor mito rispetto a Ford, i suoi film sono più vicini a una buona verità. Una certa critica considera questo autore per certi versi più attendibile e completo di Ford stesso. Il grande cielo, del 1952, fa parte della più bella stagione del western (esattamente coetaneo di Mezzogiorno di fuoco), quando il cinema era ancora “muscolarmente” forte ed era perfezionato, ma capace di temi vasti positivi e ingenui che avrebbero resistito ancora per poco.
Un cowboy, Tom Dunson, lascia una carovana e assieme a un vecchio amico decide di diventare allevatore. Un giovane orfano, Matthew Garth, diventerà il suo figlioccio. Passano quindici anni e Dunson è diventato un ricco allevatore. Tra lui e il giovane Matthew c’è grande accordo. Ma Dunson si è trasformato. È duro e spietato con chi osa contrastarlo. Matthew lo affronta, lo disarma e lo abbandona al suo destino. Sarà il giovane a condurre una mandria di 8000 capi, ma senza l’intenzione di privare Dunson della sua proprietà. Dopo una lunga marcia Matthew giunge ad Abilene e vende la mandria a un ottimo prezzo. Nel frattempo giunge Dunson, che lo ha seguito con l’intenzione di vendicarsi. Ingaggiano un violento corpo a corpo, interrotto dall’intervento di Tess, la ragazza di Matthew. Sarà lei a far comprendere ai due uomini che l’affetto che li lega è ancora forte. Ora l’azienda di Dunson recherà anche il marchio di Matthew. Chi volesse porre Il fiume rosso in cima alle sue preferenze non sbaglierebbe. Il film, che da molti anni circola in Italia in un’edizione mutilata di circa mezz’ora, è epico senza sconfinare nella convenzione hollywoodiana.
È rivoluzionario nello svolgimento del racconto, specie quando rappresenta la spietatezza di Dunson. La stessa ferocia che Wayne sfodera in Sentieri selvaggi. Tutto il racconto è il paradigma della letteratura western, Ford compreso. Due maestri di tale grandezza sono accumunati dal tema e dal suo svolgimento. Gli attori non a caso sono gli stessi. Naturalmente lo stile Hawks si evidenzia nei tempi del racconto, che sono più larghi rispetto a Ford, più incline al sentimentalismo di stampo irlandese. Hawks è americano nel tratto epico e nella raffinatezza dei dialoghi. Le sequenze da ricordare sono numerose e hanno ispirato buona parte dei western. La partenza notturna della mandria è stata rifatta da Dick Richards in Fango, sudore e polvere da sparo, con un ostentato omaggio al maestro. Sorprendente la presenza del ventottenne Montgomery Clift, nel suo primo e unico western. Il suo modo di guardare l’interlocutore e la sua intensità erano merce rara a quei tempi. Ma la sinergia che sprigiona la coppia Wayne-Clift è frutto proprio della loro diversità e dimostra come il bistrattato John Wayne fosse un notevole attore. I critici del tempo si erano sbizzarriti nel cercare elementi di giudizio che conducessero i personaggi nei dintorni di una tragedia greca. Una presunta e malcelata omosessualità dei due protagonisti è il tema ossessivo, che come una maledizione si era abbattuto sui compilatori dei “Cahier” e sui loro malridotti epigoni. Impossibile raccontare un’amicizia virile senza dovere fare i conti con la psicanalisi, di cui hanno tanto bisogno numerosi cinefili, che ammorbano le limpide acque delle avventure en plein air.
Benché non fosse nelle intenzioni di Sergio Leone i tre film vennero considerati parte di una trilogia grazie al successo della figura enigmatica dell’Uomo senza nome (Clint Eastwood, che indossa gli stessi abiti e recita con la stessa mimica in tutti e tre i film). Il buono, il brutto, il cattivo viene considerato da molti un prequel, poiché il personaggio di Eastwood trova gradualmente gli abiti che indossa negli altri due film. Inoltre, nell’ultimo film la Guerra di secessione americana è in pieno svolgimento, mentre nel secondo probabilmente è già conclusa. In realtà Sergio Leone non ha mai dato ulteriori informazioni sull’argomento. Leone, probabilmente, non rinuncia a scherzare e la questione dell’antefatto non va presa alla lettera: è uno dei tanti modi che il regista usa per giocare con i personaggi e con il pubblico. Secondo i ricordi di Carlo Verdone, che nel 2009condusse uno speciale su Sky dedicato alla carriera di Sergio Leone dal titolo Verdone racconta Leone, il regista aveva chiesto alla produzione americana attori di spicco come Charles Bronson ed Henry Fonda. Essi, non conoscendo Leone, chiesero molti soldi pur di non fare i film. Al regista fu allora suggerito un giovane Clint Eastwood, reduce del successo della serie televisiva Rawhide.
All’interno della trilogia si sviluppa anche il personaggio caratteristico dell’Uomo senza nome: il protagonista è sempre lo stesso uomo, con gli stessi atteggiamenti e vestito sempre dello stesso sarape e dello stesso cappello. Occasionalmente il personaggio ha un nome. Per esempio, nella sceneggiatura de Il buono, il brutto, il cattivo viene chiamato Joe, anche se nel film quel nome non viene mai pronunciato. Gli altri personaggi lo chiamano semplicemente “il biondo”. Nel primo dei tre film viene chiamato Joe per tre volte, mentre nel secondo è conosciuto come “il monco”, per via dell’utilizzo della mano destra unicamente per sparare. Nella trilogia del dollaro la voce italiana di Clint Eastwood era di Enrico Maria Salerno.
Tom torna al paese dopo molti anni di assenza. Ha la triste sorpresa di constatare che il fratello è alcolizzato. Una banda spietata domina la comunità, ma il fratello uscirà dalla sua passività e con Tom farà piazza pulita.
Josey Wales è un tranquillo contadino del Missouri cui una banda di vigilantes nordisti ha trucidato la moglie e il figlio. Arruolatosi nelle file dei sudisti, al termine della guerra di Secessione non accetta di deporre le armi e attraversa il Paese da est a ovest per ritrovare e giustiziare chi ha distrutto i suoi cari. Strada facendo, raccoglie alcuni sbandati – l’indiano, la nonna, la nipote, alcuni messicani e un cane – che diventano la sua nuova famiglia, nonostante lui opponga resistenza. Quinto film e secondo western di Clint Eastwood regista, Il texano dagli occhi di ghiaccio prende a pretesto la storia nordamericana per entrare in un universo tematico particolare, quello della violenza. Il movente è chiaro e ribadito, il respiro epico, il viaggio metafora dell’itinerario esistenziale di Josey, costretto a sopravvivere. La motivazione del protagonista riecheggia quella del magistrale Sentieri Selvaggi di John Ford, ambientato nello stesso periodo, ma le somiglianze si arrestano in partenza. Parabola di un uomo pacifico, costretto a divenire fuorilegge, che ritorna lentamente ad una vita normale quasi contro la sua volontà, è un film che, per parlare di violenza, la mette in scena costantemente: la sua giustificazione, ma anche il suo limite. Seguito, nel 1986, da The return of Josey Wales.
Nella versione 1080p i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Billy Massey fugge; lo sceriffo Charles Jarvis, amico di Billy e ansioso di salvarlo in qualche modo dalla forca, lo insegue. Rock Hudson e Dean Martin recitano magnificamente.
Il Comandante Mark è un personaggio dei fumetti. La testata che ospita le sue avventure nacque nel 1966 ad opera del trio di autori torinesi che si facevano chiamare EsseGesse. Essi erano Pietro Sartoris, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto, già autori de Il grande Blek, Capitan Miki, Kinowa e Alan Mistero. L’editore era la Daim Press, l’attuale Sergio Bonelli Editore. Le avventure del Comandante Mark si svolgono tra il 1773 e il 1781, nell’Ontario, durante la Guerra di indipendenza americana. Mark è un comandante dei Lupi dell’Ontario, una formazione paramilitare che combatte contro le Giubbe rosse di Re Giorgio III. Suoi amici e alleati sono Mister Bluff (ex corsaro, un tempo sposato ed ex compagno di lotta del padre di Mark), Gufo Triste (valoroso combattente e uomo saggio, anche se inguaribilmente pessimista, discentendente di uno stregone), El Gancho (un rude marinaio), Betty (la bella bionda dal look collegiale, gelosissima ma non a torto, che nell’ultimo episodio finalmente si sposerà con Mark) e il fedele cane Flok.
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