L’avventura allucinante di una donna chiusa in una casa con uno psicopatico soggetto a crisi di aggressività seguite da depressione e perdita della memoria.
Joe Baylor è un agente di polizia di Los Angeles che lavora come operatore al numero per le emergenze 911. La sua vita personale è in crisi. Si sta separando dalla moglie Jeff cerca appena può di parlare con la figlia. Inoltre il giorno dopo dovrà andare in tribunale per un processo che lo vede coinvolto come imputato in cui si gioca il futuro della carriera. Quella sera, gli operatori della polizia ricevono molte richieste di aiuto anche a causa dei numerosi incendi che stanno devastando alcune aree della metropoli statunitense e della California. Tra le chiamate che riceve Joe, c’è quella di Emily, una donna vittima di un rapimento. L’agente capisce sin da subito che non c’è tempo da perdere e deve fare affidarsi alle sue capacità e alla sua intuizione per cercare di salvarla.
Poliziotto di S. Francisco è morbosamente attratto da una scrittrice sospettata di un omicidio commesso durante un amplesso. Thriller erotico in forma di giallo ( whodunit ) di imbecillità costernante e di svergognata disonestà nell’accanita ricerca dello choc. Verhoeven e il suo strapagato sceneggiatore Joe Eszterhas (3 milioni di dollari!) mimetizzano i loro intenti mercantili, e la misoginia, con pomposi alibi tematici. Celeberrima la scena dell’interrogatorio in cui la fatale Stone, senza slip, accavalla le gambe. È tutto dire. M. Douglas, spesso con le brache abbassate, sembra la copia carbone del padre Kirk nelle sue peggiori interpretazioni.
Una complessa operazione internazionale, per neutralizzare una cellula terroristica, si intensifica quando alcuni dei maggiori ricercati si trovano nella stessa casa, a Nairobi, e stanno preparando attentati suicidi. Dopo una serie di estenuanti telefonate burocratiche tra il colonnello Powell, il generale Benson (ultima performance di Rickman) e i membri del Governo britannico e americano, la decisione è quella di inviare un drone. L’arma tecnologica è pilotata dal giovane ufficiale Steve Watts dall’interno di un hangar nel deserto del Nevada. Ma una bambina si siede davanti al bersaglio, a vendere pane. Il pilota si rifiuta di premere “il grilletto”. Che fare? Valutare nuovamente i danni collaterali? Rischiare di uccidere anche la bambina, considerando che i kamikaze provocheranno un numero nettamente superiore di morti? Hood affronta il dibattito sulla giustizia dei droni, come Good Kill di Niccol. Un racconto teso, con personaggi umani, cinici, dai nervi d’acciaio e un lessico tagliente; un film ambientato nei campi minati dell’etica. Un soldato obbedisce senza fiatare o viene rimosso dal suo incarico. Qui il soldato impersona la coscienza della guerra moderna; nodo narrativo in cui si impiglia la trama di questa profonda commedia nerissima, scritta da Guy Hibbert.
Un insegnante è il principale sospettato di un caso di pedofilia: sarebbe il responsabile di diversi omicidi e sevizie ai danni di minorenni. Un poliziotto è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a dimostrarla, mentre il padre dell’ultima vittima ha ideato un piano perfetto per torturare il sospetto ed estorcergli la verità. Agevolato dal clamoroso endorsement di Quentin Tarantino, che lo ha definito il suo personale film dell’anno, Big Bad Wolves è destinato – nonostante il grado di violenza che è capace di raggiungere e la brutalità dei temi trattati – a uno status di sicuro e diffuso cult. Troppo astuta la regia di Papushado e Keshale, troppo impeccabile lo script e sapientemente dosata la tensione perché le critiche possano avere la meglio; e tale è la padronanza del ritmo da lasciar intravedere un futuro remake hollywoodiano all’orizzonte, senza dover ricorrere a vaticini. Riuscire a sostenere ancora qualcosa di cinematograficamente originale e significativo trattando di serial killer e vendette sanguinarie, d’altronde, è tutt’altro che semplice, ma Papushado e Keshale riescono a ipnotizzare lo spettatore, anche in virtù di un’umiltà che non nasconde le proprie influenze. È evidente la presenza non solo del suddetto Tarantino nel Dna dei due registi israeliani, ma soprattutto il modello di un film come The Chaser, pietra angolare del noir sudcoreano e punto di non ritorno (fino a quando?) sulla violenza di serial killer e di poliziotti vendicatori, già ripreso in India da un titolo come Ugly di Anurag Kashyap. Il nero-nerissimo è il colore del 2013, quindi, adatto a fotografare un’epoca di crisi economica, morale e spirituale in cui prevalgono confusione, sete di denaro e appetiti insani. Big Bad Wolves è quasi una dissertazione sullo stato di cose, sotto forma di slasher estremo che muta forma e sostanza sempre più verso un’astrazione dalla materia fondata su un sarcasmo corrosivo. Sull’inutilità della vendetta e della ricerca stessa della verità, impossibile da ottenere pienamente, sulla consapevolezza incrollabile da parte dell’uomo di potere di riuscire a risolvere qualunque cosa, non importa come. Riflessioni etiche costantemente mediate e alleggerite dalla confezione di genere e da uno script geniale, capace di sciogliere la tensione con interruzioni, spesso comiche, nei momenti di maggiore insostenibilità. Ribadendo con orgoglio e con la consueta autoironia la proprie radici ebraiche – le schermaglie madre-figlio sono degne del Woody Allen di New York Stories – nonostante qualche concessione di troppo al politically correct nella benevolenza nei confronti del personaggio del palestinese, unico a salvarsi in toto nel panorama misantropo di Big Bad Wolves. Ma si tratta di dettagli, in un’opera che fin dai titoli di testa sconvolge per la lucidità e maturità di una cinematografia in irresistibile ascesa.
Cieca dall’età di due anni, la ventenne Mun di Hong Kong recupera la vista con un trapianto di cornea, ma comincia a vedere fantasmi di persone vittime di morte violenta (c’è anche un bambino suicida che le parla) e ad avere allucinazioni indecifrabili e inquietanti. L’origine dell’anomalia preternaturale è nella giovane thailandese con doti di preveggenza da cui ha ereditato le cornee. Scritto con Jojo Hui dai gemelli thailandesi O. e D. Pang (anche montatore) e imperniato, come Il sesto senso , sul tema – tipico della cultura religiosa asiatica – della permanenza dei morti nel mondo dei vivi, è un film fantastico incline alla disperazione più che allo spavento. Nella 1ª parte ha nella sfocatura la sua congrua cifra stilistica, ma anche l’uso degli effetti speciali è quasi sempre funzionale alla storia e alle sue atmosfere. La fiammeggiante catastrofe finale sottolinea l’uso creativo del montaggio. Titoli di testa in alfabeto Braille.
La serie è ambientata nella fittizia cittadina montana di Twin Peaks situata nello Stato di Washington, a cinque miglia dal confine tra Stati Uniti e Canada[1]. L’apparente tranquillità di questo piccolo paese degli Stati Uniti d’America viene turbata dal ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, figlia unica del noto avvocato Leland, nonché una delle ragazze più popolari della città. Le indagini sono affidate alla locale polizia e anche all’agente speciale Dale Cooper dell’FBI E permettono di far affiorare il lato oscuro e nascosto del luogo e dei suoi abitanti.
Chloé ha un dolore che non passa. Giovane donna fragile, somatizza un segreto che custodisce nel ventre e affronta in terapia. Paul, lo psichiatra, la ascolta senza dire niente fino al giorno in cui decide di mettere fine alle sedute. La seduzione che Chloé esercita su di lui è incompatibile con la deontologia professionale. Ma Chloé ricambia il sentimento di Paul e trasloca la sua vita (e il suo gatto) nel suo appartamento. Tutto sembra volgere al meglio, quando scopre che il compagno le nasconde la sua parte oscura: Louis, gemello monozigote che svolge la stessa professione in un altro quartiere di Parigi. Intrigata, prende un appuntamento. L’attrazione è fatale. Chloé li ama entrambi, uno con dolcezza, l’altro con bestialità. Alienata e divisa, scende progressivamente all’inferno.
Delphine è l’autrice di un romanzo dedicato a sua madre che è diventato un best seller. La scrittrice riceve delle lettere anonime che l’accusano di avere messo in piazza storie della sua famiglia che avrebbero dovuto rimanere private. Turbata da questa situazione Delphine sembra non riuscire a ritrovare la volontà per tornare a scrivere. C’è però un’appassionata lettrice che entra nella sua vita. Sembra riuscire a comprenderla e a sostenerla in questo momento difficile con la sua capacità di intuizione e con il suo charme tanto da divenirle così necessaria da invitarla a condividere il suo appartamento. Sarà una buona scelta?
Shigemori, tra i migliori avvocati del paese, si trova costretto a difendere Misumi dall’accusa di omicidio del suo datore di lavoro al cui cadavere è stato dato fuoco e a cui è stato sottratto il portafoglio. Misumi era già stato condannato 30 anni prima per un reato analogo e ora confessa anche il nuovo omicidio. Quando sembra ormai chiaro che l’uomo sarà condannato alla pena di morte, Shigemori inizia a sospettare che l’uomo non dica la verità.
Dialoghi ridotti al minimo, ma con un’assidua voce narrante, parlato in inglese e ungherese con sottotitoli, distribuito in DVD, è il LM di fiction di esordio di Brugia, autoriale, astruso, complicato e ambizioso. Fa capo a un uomo misterioso che vive molte vite con diversi passaporti, ma ha perduto la sua identità come se il suo scopo fosse quello di non esistere, ma di esserci là dove occorre. È al servizio di una società criminale ungherese che lavora sul mercato europeo della prostituzione. Gli affidano, da portare in Italia, Nora, biondina un po’ androgina e infantile, prelevata da un orfanotrofio, ma poi lo incaricano di eliminarla. Scritto dal regista con Giovanni Robbiano, è filmato in un originale colore denaturato sino al bianconero. È montato in modi allusivi, giocando sulla sottrazione, contraddetta dalla macchinosa parte criminale che pur non manca almeno di un personaggio riuscito, il potente sull’orlo del fallimento. Aspettiamo Brugia al suo 2° film.
Rocky vive una situazione familiare insopportabile ed è pronta a tutto pur di abbandonare Detroit per il sole della California. Per amore, il fidanzato sbruffone, Money, e il timido Alex la aiutano a svaligiare appartamenti. Money crede di aver individuato il colpo grosso nel villino di un veterano della guerra del Golfo, rimasto cieco in seguito a una ferita, che ha incassato un risarcimento a molti zeri dopo il tragico incidente in cui ha perso l’unica figlia. I dubbi etici su un furto ai danni di una persona così vulnerabile svaniscono di fronte alla somma agognata, ma i tre scopriranno che il solitario abitante della casa è tutt’altro che indifeso di fronte a un’intrusione. Dopo aver girato il remake de La casa, inutile come la gran parte dei remake horror odierni, le quotazioni di Fede Alvarez erano minime, per usare un eufemismo. Ma le basse aspettative sono da sempre un buon viatico nel mondo della paura, che meglio agisce quando la guardia è bassa. Man in the Dark – titolo originale Don’t Breathe, letteralmente “Non respirare” – ha le caratteristiche tipiche del debutto: budget contenuto, soggetto forte sorretto da una sceneggiatura attentamente studiata, effetto sorpresa sfruttato fino allo spasimo. È lo stesso Alvarez a dichiarare di sentirsi come se fosse al suo debutto, e forse è meglio scegliere l’empatia e dimenticare i suoi primi passi (falsi). Man in the Dark non appartiene al sottogenere home invasion né tantomeno è uno slasher movie, ma trae ispirazione da questi come da altri tipi di horror e dosa bene gli ingredienti in un claustrofobico gioco tra il gatto e i topolini. Dove il primo è cieco ma tutt’altro che innocuo, e i secondi squassati da dubbi morali e sensi di colpa che mal si conciliano con lo spirito di sopravvivenza che dovranno mettere in atto. Un thriller di serie B con una rara dose di coraggio, che non ha paura di mettere in scena sferzate di violenza cruda e credibile, come le scene in cui il veterano cieco calpesta con violenza le gambe di Rocky o la picchia sul volto, violando tabù che neanche Jason Voorhees o Freddy Krueger avrebbero osato intaccare (uccidere barbaramente può essere meno disturbante delle percosse inflitte a un membro del gentil sesso). Ma non esistono eroi e non esistono villain nella lotta senza quartiere che ha luogo nel villino del veterano senza nome, dove gli uomini reagiscono da animali feriti con le spalle al muro, senza lasciare nulla di intentato. Alvarez tiene alta la tensione concedendosi il giusto in termini di virtuosismi di regia e sfruttando al massimo le opportunità generae dalla sceneggiatura. A partire dalle scene girate con camera a infrarossi, quando il padrone di casa stacca la luce e recupera una posizione di vantaggio sui fuggiaschi, dando vita a un sensazionale nascondino basato sui sensi più sottovalutati, udito e olfatto. Inutile l’appendice che chiude il film, che in genere comincia a calare man mano che aumentano i dialoghi. Tuttavia, finché conta solo trattenere il respiro per sopravvivere, l’atmosfera è di sincero terrore. Ancora una volta straordinario Stephen Lang nei panni del veterano, uno degli attori più sottovalutati di Hollywood, capace di una prova mirabile per fisicità a 64 anni compiuti.
Col marito Thomas Janes (Penn), poeta alcolista in crisi coniugale e creativa, la fotografa Jean (McCormack) va sull’isola di Smuttynose, di fronte alle coste di New Hampshire e Maine, a fare un servizio sul misterioso caso di un duplice omicidio avvenuto nel 1873 e sanzionato con la condanna a morte di un uomo forse innocente. A portarli su una barca a vela è Rich (Lucas), fratello di Thomas, accompagnato dalla fidanzata Adaline (Hurley). Accentuate dalla forzata convivenza in barca, le tensioni tra le due coppie si alternano con la rievocazione in montaggio parallelo dell’antica vicenda. Da un romanzo di Anita Shreve, sceneggiato da Alice Arlen e Christopher Kyle, il 6° lungometraggio della californiana Bigelow è coerente col suo cinema, imperniato sul confronto etico, ma anche epico, tra mondi separati e giustapposti. Le due storie sono narrate e commentate dalla voce off di due personaggi femminili (Jean, Maren). È un film materico, pesante, in regola col titolo originale, ma anche fantasmatico, non senza risvolti onirici, dominato dalla presenza incombente degli elementi naturali. Film imperfetto, ma anche affascinante per chi sa apprezzarne l’insistenza sui dettagli, i gesti ambigui, gli slittamenti di sensibilità, i tempi sospesi. Fotografia di Adrien Biddle.
È il miglior film di Polanski nella sua vecchiaia. Robert Harris riconosce che, almeno per la struttura, il film è superiore al suo romanzo (2007), da lui adattato col regista. Adam Lang, ex premier britannico, ha scritto un libro di memorie che, giudicandolo noioso, l’editore ha affidato a un “negro” che muore annegato: incidente? suicidio? Gli subentra un altro ghost writer (senza nome) che diventa subito un sopravvissuto con la morte alle calcagna, coinvolto in un inconoscibile complotto alla Hitchcock. L’azione del film si svolge in un’isola sulla costa orientale degli USA, dove l’ex premier risiede con la moglie, la segretaria-amante e un agguerrito servizio di sicurezza. In un thriller politico intessuto di inganni e tradimenti a ogni livello emergono 3 temi polanskiani: la diffidenza per ogni potere pubblico, l’isolamento e l’acqua, da lui associata alla minaccia, alla morte, al male. Ritornano la sua predilezione per i perdenti, il gusto per le atmosfere psicologiche, la capacità di far scaturire dalla realtà l’ambiguità inquietante, l’infallibile direzione degli attori: McGregor e Brosnan non hanno mai avuto personaggi così “importanti”. E la Williams non è mai stata così espressiva. Fotografia: il polacco P. Edelman. Orso d’argento a Berlino 2010 per la regia.
Per L’impagliatore – titolo di un romanzo noir (2000) di Luca Di Fulvio, sceneggiato da Franco Ferrini e Gabriella Blasi col regista – il tempo è imprigionato negli occhi di una bambola o di un animale morto. E in quelli delle vittime di un suo progetto demente e mostruoso. La chiave sta nel passato di un bambino molto speciale. Tocca all’ispettore Giacomo Arnaldi fermarlo, risalendo la fila dei fantasmi che lo perseguitano. Incompreso dai critici che talvolta si sono ridotti a banali calembours (“più Thanatos che Eros”), è uno dei film italiani di genere più sottovalutati della stagione 2004-05. Ha un’atmosfera malata e intrigante. Specialmente nella 1ª parte la suspense tiene. C’è un lavoro sull’immagine (fotografia: Luca Coassin) persino superiore a quello che, nel thriller, esercita Alex Infascelli. Si sente al meglio l’influenza – e non soltanto per la presenza degli attori – del contemporaneo horror ispanico. Come spesso succede, il suo lato debole è la sceneggiatura: poca fiducia nell’azione e nel comportamento, sostituito dall’intento didattico di motivare e spiegare i personaggi.
1986. Il detective Seo è inviato da Seul in una piccola città tra le campagne coreane per indagare sugli omicidi di un serial killer, ma si scontra con l’ottusità e la superficialità dei poliziotti locali. Tratto dal romanzo di Kim Kwang-rim, si basa su una storia vera avvenuta alla fine degli anni ’80 in Corea del Sud. È un periodo difficile, gli interrogatori risentono ancora del periodo della dittatura, quando estorcere le confessioni era all’ordine del giorno. L’urgenza di trovare un colpevole a tutti i costi annebbia il giudizio dei poliziotti. Ma c’è aria di cambiamento e alcune scene lo indicano chiaramente, come quella in cui i bambini non ubbidiscono all’ordine del coprifuoco urlato dai soldati per le strade: piccoli indizi della democrazia a venire. Un buon thriller, giocato sui campi lunghi di grande respiro. Vincitore, tra gli altri, anche di 3 premi al Torino Film Festival.
Alberto ha una moglie, due bambini e una piccola impresa che versa in cattive acque. Stimato oltremodo dalla consorte, che giudica troppo sincera e ingenua, Alberto le nasconde di ‘arrotondare’ la vita facendo il corriere per gente poco raccomandabile. Alla vigilia del secondo viaggio qualcosa però va storto e la sua famiglia è presa in ostaggio da tre malviventi interessati al prossimo carico. Partito dalla provincia ligure alla volta di Reggio Calabria, Alberto dovrà ritirare il pacco illecito e consegnarlo ai sequestratori. Ma niente andrà come previsto. Sulla strada di casa l’impresario dovrà risolvere e risolversi, salvaguardando la vita e il futuro della sua famiglia. Opera prima e pluripremiata di Emiliano Corapi, Sulla strada avvia una biografia ordinaria e minacciata nel sogno di una vita borghese e procede nella follia e nell’angosciosa tensione di un inseguimento. Combinando fino a confondere realismo e genere, Corapi scrive e gira un racconto visivamente rigoroso, dove il budget modesto e gli schematismi dell’intreccio rendono ancora più essenziale la corsa del protagonista verso un destino ineluttabile. L’Alberto di Vinicio Marchioni incarna l’uomo ordinario, assediato dalla vita e chiuso in primi piani claustrofobici e senza dialoghi che rimandano a un’inquietudine interiore e generano la sensazione di non essere più padroni di se stessi. La funzione opprimente della macchina da presa sul personaggio, lanciato in una corsa inquieta attraverso strade secondarie sotto il sole netto del giorno e davanti alle luci artificiali di un albergo ‘come quelli dei film americani’, rispecchia la condizione di vita all’interno di una società capitalista e indebitata, che strozza e istiga rimedi estremi. Al centro del film c’è un impresario esemplare, che ha deciso di sporcarsi le mani e rendersi complice di un meccanismo economico criminale identificato con l’Italia stessa, percorsa in tutta la sua lunghezza e la sua miseria. La strada del titolo, promessa di un altrove, diventa presto un percorso tragicamente limitato e controllato, lungo il quale (in)segue e precede il Sergio di Daniele Liotti, doppio di Alberto con cui condivide un destino disgraziato, una scelta azzardata e un viaggio che resta in fondo solitario per ciascuno di loro. Il volto di Vinicio Marchioni perde la ‘freddezza’ e la nobilitazione tragica del bandito della Magliana (la serie) e trova la pesantezza, l’anonimato e l’opacità di un personaggio di terz’ordine, avviato al riscatto esistenziale ma poi condotto all’unica sublimazione possibile. Un debutto apprezzabile e pregiato, quello di Emiliano Corapi, che indaga la parte peggiore di noi, quella disposta a compromettersi pur di confermare agli altri la propria immagine perfetta. Un film sui falliti e i perdenti che fa il paio con L’industriale di Giuliano Montaldo e un cinema italiano aspro, sincero e non riconciliato, frequentato da attori autentici come Fabrizio Rongione e Donatella Finocchiaro. Un film, ancora, che fa i conti con un Paese che se si riconoscesse per quello che sa di essere sarebbe finalmente diverso.
Tra Torino e Pisa si svolge la vita di un professore universitario di Diritto, socialmente e professionalmente affermato. Dotato di grande intelligenza e di un fascino sfuggente, l’uomo e il professore conducono un’esistenza “ritirata” che sconfina qualche volta nei letti di amanti occasionali. Deciso a controllare la realtà e a tenerla accuratamente a distanza, viene suo malgrado coinvolto nella morte per suicidio di uno studente. Il ragazzo, ossessionato dalla vita del professore, ha registrato scrupolosamente le sue lezioni, i suoi comportamenti, le sue abitudini… La forza del cinema di Emidio Greco, e in questo senso L’uomo privato non fa eccezione, sta tutta nell’essenzialità stilistica, nel razionale svolgimento narrativo e nella coraggiosa anti-spettacolarità. Il suo cinema eminentemente letterario (L’invenzione di Morel, Una storia semplice, Il Consiglio d’Egitto), si avvale questa volta di un soggetto originale scritto dallo stesso autore. Al centro della sua storia c’è un professore senza nome, elegante ed introverso, che tiene gli occhi aperti ma finisce per avere lo sguardo di chi attraversa la realtà in stato di trance. Tutto quello che si dispiega davanti a lui, gli studenti in aula, le amanti, gli amici, i colleghi, hanno le caratteristiche di un (brutto) sogno, che la sua logica semplificatrice non sa “vedere” e comprendere. Nel film c’è solo un uomo che “esiste”, gli altri non “sono”. Protagonista e spettatore unico del proprio sogno, l’uomo privato (e perfetto) di Tommaso Ragno, procede per forza di inerzia in un tragitto che contempla evoluzioni impreviste: la morte di uno studente. Pedinato e spiato sfacciatamente, il professore resta cieco davanti all’evidenza, incapace a raccogliere i segnali, a decifrare i codici, a leggere i simboli. Quella morte precoce lo priva per sempre del controllo sul reale. La presunzione della razionalità e della positività si stemperano fino a diventare in lui un’insospettata propensione alla vertigine. Il film di Greco, concettuale e rigoroso, non dice nulla con le parole e tutto con le immagini. Accentuando la parte “detta” il regista privilegia la dimensione pubblica della vicenda, immergendo “l’uomo privato” nel cicaleccio ridondante e senza senso dei “salotti” e nell’abisso delle coscienze.
Il capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri e veterano della guerra in Afghanistan, si risveglia su un treno di pendolari senza avere la minima idea di dove si trovi. Di fronte a lui Christina, una bella ragazza che lo conosce ma che lui non riconosce affatto. In tasca (e nello specchio) l’identità di un giovane insegnante di nome Sean Fentress. Poi l’esplosione, che squarcia il convoglio. Ma Colter non è morto, da un monitor un ufficiale donna lo informa che dovrà tornare sul treno per identificare l’attentatore e prevenire un successivo, più micidiale attacco. Ogni volta che farà ritorno sul treno avrà solo 8 minuti a disposizione. Di più non gli è dato sapere, la missione è top-secret, il suo nome: “Source Code”.
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell’Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C’è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
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