Il film mostra gli episodi salienti della vita di S. Agostino. Sono messi in evidenza la nobiltà dell’animo, il culto dell’amicizia, la profonda fede verso Dio, l’umiltà e la saggezza.
Dal romanzo (1952) di Howard Fast: nel 73 a.C. il gladiatore trace Spartaco promuove una rivolta di schiavi contro il governo di Roma, sconfigge una legione e si dirige verso il sud. È sconfitto dall’armata di Crasso che fa crocifiggere seimila schiavi sulla via Appia. Come film di S. Kubrick è un ibrido: troppe paternità (lo sceneggiatore Dalton Trumbo e soprattutto il produttore-attore K. Douglas che in un primo tempo aveva ingaggiato il regista Anthony Mann) e una certa eterogeneità stilistica. È poco kubrickiano il richiamo a una nozione di progresso di cui la vicenda del “primo rivoluzionario della storia” è simbolica portatrice. Gli appartiene per le scene di battaglia e di violenza (cui collaborò il grafico Saul Bass), la mescolanza di ragione e passione nei personaggi principali, la splendida direzione degli attori tra cui spiccano L. Olivier e C. Laughton. È, comunque, il migliore – e il più adulto – dei colossi storici di Hollywood. Ridistribuito nel 1991 in un’edizione restaurata con l’aggiunta di una quindicina di minuti. 4 Oscar: fotografia (Technirama 70) di Russell Matty, Ustinov attore non protagonista, scene e costumi.
È la storia romanzata dell’amore travagliato tra Elisabetta e il conte di Essex, tra intrighi di corte, tradimenti, decapitazioni. Tratto da Elizabeth the Queen di Maxwell Anderson, è un insieme di tableaux senza vita, resi più brillanti, talvolta, da scenografie pittoresche o espressioniste. B. Davis trabocca di manierismi. E. Flynn manca di tono e di colore. Nel 1939 M. Curtiz diresse 4 film e mezzo.
Il film ricostruisce un periodo fondamentale della vita di Hannah Arendt: quello tra il 1960 e il 1964. All’inizio della vicenda, la cinquantenne intellettuale ebrea – tedesca, emigrata negli Stati Uniti nel 1940, vive felicemente a New York con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher. Ha già pubblicato testi fondamentali di teoria filosofica e politica, insegna in una prestigiosa Università e vanta una cerchia di amici intellettuali. Nel 1961, quando il Servizio Segreto israeliano rapisce il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann, nascosto sotto falsa identità a Buenos Aires, la Arendt si sente obbligata a seguire il successivo storico processo che si tiene a Gerusalemme. Nonostante i dubbi di suo marito, la donna, sostenuta dall’amica scrittrice Mary McCarthy, chiede e ottiene di essere inviata in loco come reporter della prestigiosa rivista ‘New Yorker’. Hannah nota che Eichman, uno dei gerarchi artefice dello sterminio degli ebrei nei lager, è un mediocre burocrate, che si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi e, d’altro canto, si sorprende nell’ascoltare testimonianze di sopravvissuti che mettono in evidenza la condiscendenza dei leader delle comunità ebraiche in Europa, di fronte ai nazisti. Dai suoi resoconti, e in seguito dal suo libro, “La banalità del male: Eichman a Gerusalemme” (1963), emerge la controversa teoria per cui proprio l’assenza di radici e di memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali farebbero sì che esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. L’ebreo Kurt Blumefeld, uno dei suoi più cari amici, non riesce a perdonarla per quegli scritti, mentre lo scandalo si diffonde in Israele e negli USA. La presidenza della sua Università è fortemente contrariata, la stampa la attacca violentemente, ma il marito, la sua devota allieva tedesca Lotte Köhler e molti studenti approvano e sostengono l’essenza, apparentemente paradossale, del suo pensiero. Già in passato von Trotta ha realizzato film riguardanti donne “eccezionali” e dissidenti: Rosa L., del 1985, ritratto della leader marxista Rosa Luxemburg, interpretata dalla stessa Sukova, e Vision, del 2009, rievocazione di Hildegard von Bingen, mistica cristiana del XII secolo. In questo caso si tratta di un biopic che, delineando il personaggio in termini personali e di teoria filosofica elaborata dallo stesso, intende propriamente (come dichiarato dalla regista) “trasformare il pensiero in un film”. Si tratta di un tentativo solo parzialmente riuscito. In effetti l’approccio, pur serio, documentato e scenograficamente preciso, risulta spesso didattico. Non mancano aspetti flemmatici, dialoghi troppo prolungati, faticosi e pomposi. Tuuttavia, nel complesso, la costruzione drammatica è efficace. La messa in scena non è audace, ma neppure piattamente televisiva. Privilegia le sequenze in interni, con suggestivi colori grigi che evocano bene gli anni ’60, e riesce a creare un’aspettativa non retorica, né artificiosa. Ne emerge l’isolamento della protagonista e la sua peculiare fisicità (nella meditazione, nell’eloquio e nell’assiduità a fumare), ma anche la rivendicazione ostinata della libertà di pensiero e la coerenza logica, non priva di una certa arroganza intellettuale. Da segnalare anche l’uso intelligente di footage, con immagine autentiche del processo ad Eichman.
Nel 1750 il capitano Mendoza, mercenario e mercante di schiavi, dopo aver ucciso il fratello in duello si fa gesuita, va in una missione del Sudamerica, riprende la spada per difenderla da una spedizione militare. Cinema spettacolare ad alto livello che ha tutte le carte per piacere a pubblico e critica: nobili temi e forti conflitti drammatici, una star (De Niro), un ottimo attore (Irons), bravi caratteristi, musiche di Ennio Morricone. Scritto da Robert Bolt, prodotto dall’italiano Fernando Ghia, costato 22 milioni di dollari. Qua e là irritante per il suo tragicismo programmatico. Oscar alla fotografia di Chris Menges. Palma d’oro a Cannes.
Diretto da Daniele D’Anza, lo sceneggiato è ispirato alla vita dell’inventore italiano Antonio Meucci e alle vicende giudiziarie che negli Stati Uniti lo opposero allo scozzese Bell per il riconoscimento della paternità dell’invenzione del telefono.
1887. Si apre il processo per l’attribuzione del brevetto per l’invenzione del telefono. Le parti sono l’italiano Antonio Meucci, emigrato e padre di molte invenzioni di quel tempo ma quasi totalmente privo di mezzi, contro il giovane inglese Alexander G. Bell, appoggiato invece dall’establishment dell’epoca. Il Meucci avrebbe brevettato una specie di telefono oltre dieci anni prima di Bell ma il processo è chiaramente a senso unico: solo un piccolo giornale, nella persona di un dinamico giornalista, è dalla parte di Meucci. Bell produce scritti, testimoni e prove circostanziate; Meucci non può ribattere che coi suoi ricordi e qualche disegno scolorito.
Nel 2007, alla soglia dei 100 anni, Oliveira ritorna, anche di persona, sul mare, per rievocare le imprese di Cristoforo Colon (e non Colombo) di cui si ricostruisce la possibile origine lusitana, non italiana né spagnola come comunemente si crede. Un angelo-fantasma, bardato dei colori verde e rosso della nazione portoghese, accompagna i viaggi di Manuel Luciano da Silvia e Silvia Jorge – attori poi sostituiti da Oliveira stesso e sua moglie Maria Isabel -, che tra gli anni ’40 e oggi ripercorrono luoghi come Lisbona, che vide partire le caravelle di Colombo/Colon; la Cuba in Alentejo, possibile luogo di nascita del navigatore; la New York che da sempre accoglie gli emigranti europei; la piazza newyorchese che ospita il Memoriale delle Scoperte. Il film è una “amorosa” lezione di storia per i portoghesi, l’auspicio appassionato del recupero di una memoria collettiva, allargata almeno agli stessi americani dimentichi di eventi, fatti, epoche che sono all’origine della loro storia.
Estate del 1943. Il 25 luglio Mussolini viene arrestato e l’8 settembre l’Italia firma quell’armistizio separato con gli angloamericani che condurrà al caos. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a se stessi nei teatri di guerra ma anche e soprattutto per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini avendo la sola colpa di essere Italiana e figlia di un dirigente locale del partito fascista.
Quella di Monte Sole (BO) è la più grave delle stragi fatte dalle truppe tedesche dopo l’8-9-1943: 771 civili (216 bambini) massacrati dalle SS tra il 22-9 e il 5-10-1944 per aver aiutato i partigiani della Brigata Stella Rossa. Al centro del 2° film – prodotto e diretto dal bolognese Diritti dopo Il vento fa il suo giro – c’è la bambina Martina che fa da filtro alla vicenda storica. Da quando le è morto in braccio un fratellino, ha smesso di parlare. Tiene un diario. Nel dicembre 1943, la sua mamma rimane ancora incinta: quando il fratellino nasce in settembre, Martina s’impegna a salvarlo: è lui l’uomo che verrà. È un’altra storia di una comunità montana, ma in tempi tragici. L’assillo del realismo spinge Diritti a far parlare le 2 attrici professioniste e gli altri interpreti nel dialetto bolognese di allora. Un film sulla Resistenza così non si era mai visto: senza eroi né eroismi, senza una divisione netta tra “buoni” e “cattivi”, con un impianto antropologico che diventa epico: la guerra raccontata dal basso, dalle sue vittime. Non mancano gli spunti fantastici, un’ombra di fiabesco in una favola tragica. Il puntiglio di verità retrospettiva permea la mobilissima fotografia di Roberto Cimatti e i costumi “invisibili” di Lia Francesca Morandini. Come in Olmi, il senso del sacro è profondamente legato alla cultura contadina e al rapporto con la Natura, ma con una netta dimensione femminile. Scritto con Giovanni Galavotti, Tania Pedroni. Prodotto da Aranciafilm/Rai Cinema. 3 David di Donatello: miglior film, produttore e fonico in presa diretta. Distribuito da Mikado. 200 giorni in cartellone al Mexico di Milano.
Un film di David Wark Griffith. Con Mae Marsh, Henry Walthall, Violet Wilkey Titolo originale The Birth of a Nation. Storico, Ratings: Kids+16, b/n durata 38′ min. – USA 1915. MYMONETRO Nascita di una nazione valutazione media: 3,42 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Si tratta di materiale stampato dalla Library of Congress intorno al 1970 a partire dai negativi originali. I due rulli consistono in materiale di ripresa e in immagini non utilizzate nel film. Le scritte a mano su alcuni fotogrammi indicano che le scene riguardano i rulli 2, 7, 10, 23, 28 e 29 nella loro numerazione prima del montaggio. Verso la fine della seconda bobina di questa raccolta, nel provino dei costumi e del trucco per Lillian Gish e Walter Long, si intravede ogni tanto il celebre cappello di paglia utilizzato da Griffith: lo si può scorgere nell’angolo in basso a destra dell’inquadratura
Erano anni che Takashi Miike lavorava al suo jidai geki – equivalente nipponico del genere “cappa e spada”, sovente ambientato nel periodo Tokugawa – con una cura maniacale per il dettaglio che ben conosce chi ama l’autore di Gozu. Quando Miike decide di indossare i panni “seri” (evento che capita assai di rado, visto che ogni anno gira un paio di eccessi camp, horror oppure trasposizioni di manga), per di più cimentandosi con il remake di un maestro – ieri Graveyard of Honor di Fukasaku Kinji, oggi Thirteen Assassins di Eiichi Kudo (1963) – l’iconoclasta della macchina da presa diviene modernizzatore, con immenso rispetto, della tradizione; e il capolavoro è nell’aria. Ogni inquadratura di 13 Assassins sembra il frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricerca del frame perfetto: dolly quando è il caso di utilizzarli, primi piani e controcampi fluidi e mai gratuiti, scene corali coreografate all’esatto punto di incontro tra la tradizione jidai geki e il western di Peckinpah. Con aggiunta di un dinamismo tutto contemporaneo, che emerge prepotentemente nelle gesta dell’assassino “scemo” o nella sequenza in cui il virtuoso dei ronin utilizza una dozzina di katana per sconfiggere gli uomini dell’empio Naritsugu; proprio il villain incarna la summa del Male secondo il Takashi Miike-pensiero, perversa macchina sadomasochista di distruzione (come in una riedizione del Kakihara di Ichi the Killer) che in fondo anela ad affrontare e poi abbracciare l’estremo dolore della morte. L’assurda carneficina di innocenti causata dalle manie di Naritsugu non può che preludere al tramonto di una società basata sul rispetto cieco delle gerarchie e del diritto di nascita, introducendo il Giappone all’età moderna. Nella parte dello ieratico leader degli assassini, invece, un Koji Yakusho per cui gli aggettivi da sprecare sono esauriti. In totale, un Miike come non se ne vedevano da tempo e forse come non si sperava di vederne più.
Verso il 1300 a.C. il medico egiziano Sinuhe si trova coinvolto in intrighi politici, mentre il faraone Akenaton tenta di realizzare una riforma religiosa.
Enrico Tudor, re d’Inghilterra nella prima metà del secolo sedicesimo. Qui c’è solo la storia privata, i rapporti con le sue molte mogli, da Caterina d’Aragona (che sposò dopo che era rimasta vedova del fratello) dalla quale volle divorziare per sposare Anna Bolena, da Jane Seymour a Caterina Howard a Anna di Clèves fino all’ultima Caterina Parr, che riuscirà a sopravvivere al terribile consorte.
Dopo decenni di luoghi comuni (Cabiria come antenato ideologico del fascismo, il suo regista come “inventore” del carrello, le sue architetture “studiate” da Griffith durante la lavorazione di Intolerance, le acrobazie verbali di D’Annunzio), l’opus magnum di Pastrone è finalmente oggetto di una meritata revisione critica. Il disegno e la struttura del film emergono soprattutto osservando la meticolosa concatenazione delle azioni parallele all’interno dell’inquadratura e la lussureggiante ricchezza di dettaglio nelle scene d’interni, esaltate da un impiego del colore (tintura e viraggio) efficace negli effetti quanto misurato nelle variazioni. Ecco una preziosa occasione per paragonare la più recente ricostruzione della versione 1914 del film con gli affascinanti scarti di lavorazione presentati al Ridotto del Verdi durante le Giornate.
Dopo la morte di Luigi XIV, in Francia comanda suo fratello Filippo d’Orléans. Filippo sarebbe anche d’idee avanzate, ma è troppo condizionato dal perfido abate Dubois che fa il gioco del governo inglese. L’unico ad opporsi a Dubois è il guascone Pontcallec, che però viene catturato e mandato al patibolo. Intanto nel paese cominciano a serpeggiare i primi fermenti della rivoluzione, che però si farà aspettare settant’anni.
Taiwan, 15 Agosto 1945: L’Imperatore nipponico Hirohito annuncia la resa incondizionata alle forze alleate, e i giapponesi lasciano l’isola di Formosa, sotto il loro dominio dal 1894. Taiwan, 10 Dicembre 1949: Chiang Kai-shek e i vertici del Kuomintang si rifugiano a Taipei, fondando la Repubblica Cinese, di cui Chiang fu il primo presidente. City of Sadness svolge il suo corso tra questi due estremi temporali, attraverso le vite della famiglia Lin, nella cittadina rurale di Chiu-fen. Hou Hsiao Hsien dipinge con il suo stile elegante ed ellittico una saga familiare che condensa e dilata insieme l’eco di quel tumultuoso periodo della storia di Taiwan.
È la storia di un duello che, continuamente interrotto per ragioni diverse, dura quindici anni. I duellanti sono due ufficiali francesi degli Ussari dell’epoca napoleonica, ossessionati da una assurda rivalità. Da un racconto (1908) di J. Conrad, un film di raffinata eleganza figurativa. I 2 attori americani iniettano una carica di selvaggia energia in una confezione britannica fin troppo agghindata. 1° lungometraggio di R. Scott, regista pubblicitario come il fratello Tony.
Storia dell’anno decisivo – il 1965 – del movimento per i diritti civili degli afroamericani, nato nel 1955 a Montgomery (Alabama) dal rifiuto di Rosa Parks di cedere il posto su un autobus a un bianco, e di cui divenne guida Martin Luther King, pastore di una chiesa battista della città, sostenitore della disobbedienza civile non-violenta. Un anno dopo la marcia a Washington (28/8/63), resa famosa dal discorso “I have a dream”, King riceve a Stoccolma il Nobel per la pace (10/12/64), e sceglie la cittadina di Selma per dar inizio alla campagna finale per l’esercizio effettivo del diritto di voto da parte dei neri dell’Alabama, burocraticamente impedito dai funzionari bianchi. Il governatore segregazionista Wallace, la polizia locale e il Ku Klux Klan fanno scorrere molto sangue, e non solo dei neri. Al suo 3° lungo, la DuVernay mette a segno 3 colpi da maestra: 1) girare un bio-pic corale in cui M.L. King è un individuo eccezionale, certo, ma solo in quanto interprete ed espressione di un movimento collettivo; 2) utilizzare la potenza di una sineddoche, cioè narrare la vita di King e la storia del movimento antisegregazionista attraverso la parte che ne rappresenta più intensamente il tutto; 3) mostrare l’incubazione, all’interno del movimento dei neri, di quello delle donne, trascendendone così la particolarità a favore di un’idea universale di liberazione senza fine né confini. Molti momenti di autentica commozione che raggiunge l’apice nella perforante sequenza della carica della polizia, a piedi e a cavallo, contro gli inermi manifestanti sul ponte Edmund Pettus nel bloody sunday del 7/3/65. 2 nomination agli Oscar per la fotografia (Bradford Young) e la canzone originale (John Legend) (già vincitrice di un Golden Globe), ma nessuna né per la DuVernay, né per Oyelowo. Indecente.
Il re d’Inghilterra, Enrico II, in occasione del Natale 1183 riunisce al castello i familiari per decidere chi tra i suoi tre figli gli succederà al trono. Egli propenderebbe per il minore, ma sua moglie è contraria. Fallito un intrigo ai suoi danni, il sovrano vorrebbe divorziare e risposarsi con l’amante per generare l’erede, ma non ha il coraggio di uccidere gli altri figli. La decisione sulla successione viene rimandata all’anno seguente.
Da Shakespeare (1599-1600): nell’anno 44 a.C. Cassio e Bruto capeggiano una congiura contro Giulio Cesare che viene ucciso il 23 marzo; Marc’Antonio s’oppone, conquistando il favore popolare. Mankiewicz s’è posto al servizio del testo con adattamento intelligente e fedele, proponendolo come una lezione politica sulla dittatura nazifascista, efficacemente riletta nell’autoritarismo di Cesare. Dileggiato da Roland Barthes e parzialmente apprezzato da Peter Brook, non è un film banale e s’avvale di un’eccellente compagnia di attori tra cui spiccano Gielgud, Mason e Brando. Calhern dà una coloritura gangsteristica al tiranno. La musica di M. Rosza asseconda efficacemente il filtraggio melodrammatico. Adattato dal regista. Oscar per le scenografie (C. Gibbons, E. Carfagno).
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