Un gangster, serio “professionista”, è amico di un balordo che ha fama d’essere confidente della polizia. Quando il bandito viene arrestato, crede d’essere stato tradito dall’altro e incarica un sicario di punirlo con la morte.
Il film si apre con la scritta “Lucio Fulci presenta” e si dipana poveramente raccontando la vicenda del dottor Vogler (Peter Hinz), un pranoterapeuta con capacità extrasensoriali, che, chiamato a curare una benestante paralitica nel suo castello, è attirato dalla vicenda di presunti fantasmi che abiterebbero un’ala dismessa del medesimo. Aiutato da una giornalista locale, Vogler rintraccia la bambina, ora ragazza, la cui bambola gli è stata data da un misterioso vagabondo ubriacone (Vassili Karis) e la riconosce per la bambina che lui, in vacanza nei luoghi tanti anni prima, aveva salvato dall’investimento di un’auto, lasciando però che sotto le ruote dell’auto finisse la bambola. Sostanzialmente, la ragazza è la figlia della proprietaria del castello, che, paralitica, era morta in seguito alla caduta accidentale della carrozzella provocata dalla bambina. Motivi oscuri spingono la fantasmatica signora a vendicarsi anche di chi non le aveva fatto nulla (come il derelitto avvocato interpretato da Paul Muller) in un crescendo di violenza che porta a un colpo di scena non prevedibile. Caratterizzato da qualche eccesso di gore tipicamente anni ’80 inserito in un contesto telefilmico e ultrapoveristico, il film cerca qualche difficile suggestione rivisitando vecchie ossessioni spettrali, ma ha tutta l’aria d’essere stato girato in due giorni e non riesce né a coinvolgere né a convincere. Vassili Karis e Paul Muller sono gli unici nomi noti di un cast poco ispirato
Radio e televisione trasmettono un crescendo di allarmanti notizie sull’acuirsi della tensione internazionale tra Russia ed Occidente, ma a Lawrence, nel Kansas, come in altre parti dell’America, nessuno sembra farvi troppa attenzione. Mentre la gente è alle prese con i piccoli problemi quotidiani, le basi militari ricevono messaggi in codice che allertano i sistemi di sicurezza ed innescano le misure di ritorsione contro un’aggressione nucleare. Quando il cielo si squarcia in due accecanti bagliori, per un attimo la vita si ferma come sospesa: i motori non funzionano più, le radio ammutoliscono, poi la gente per le strade, in viaggio nelle macchine o all’interno delle abitazioni è investita dall’urto formidabile dell’esplosione. L’onda radioattiva polverizza uomini e cose. Coloro che si salvano scoprono una distesa di macerie e campi fumanti ricoperti da cenere bianca. Nell’unico ospedale ancora funzionante si organizzano i primi soccorsi, ma la situazione diventa insostenibile per l’ininterrotto affluire di feriti e per la scarsezza dei mezzi necessari a fronteggiare l’emergenza. All’esterno chi tenta di allestire campi di accoglienza non ha altra indicazione che quella dei manuali di sopravvivenza stilati tempo addietro dalle autorità locali, logori e inutilizzabili nella loro assurda impostazione burocratica. Il racconto intreccia il destino di un pugno di personaggi (il dottor Oakes, l’agricoltore Dahlberg, lo studente Klein e pochi altri) cogliendoli dapprima nella loro dimensione quotidiana e trasfigurandoli poi, nel dramma dell’olocausto, in figure emblematiche di una umanità allo sbando, priva delle certezze di un’intera vita, impotente di fronte al dolore e alla morte dei propri cari, senza la prospettiva di un futuro. Il regista e romanziere Meyer costruisce il racconto del “giorno dopo” intervallando con buona abilità situazioni da soap-opera con i meccanismi del filone catastrofico e del documentario-inchiesta, e chiudendo con due sequenze che in qualche modo riassumono il senso della trascorsa civiltà: la nascita di un bambino fortemente voluta da una madre, e l’abbraccio silenzioso tra due sopravvissuti sulla polvere di quella che un tempo era stata una casa.Prodotto per la televisione, il film ha riscosso grande successo presso il pubblico americano, ma non altrettanto presso la critica – specialmente europea – che ne ha fatto un piccolo “caso”, condannando l’intera operazione come una delle più astute spettacolarizzazioni dell’orrore, secondo un deprecabile gusto tipicamente hollywoodiano.
Celestina sembra un’efficiente donna di affari, ma in realtà dirige una casa di appuntamenti. Denunciata, se la cava grazie all’intervento di potenti politici. A. Noris torna al cinema dopo vent’anni di assenza e firma il soggetto e la produzione di questa allegra commedia a risvolti satirici che il più delle volte mancano il bersaglio. Ispirata alla lontana a La Celestina (1499) di Fernando de Rojas.
Da un romanzo di Richard McKenna. Adattato da Robert Anderson. Nel 1926 una cannoniera USA che pattuglia il fiume Yang Tse è coinvolta nel conflitto armato tra nazionalisti e comunisti. Complesso filmone con due storie d’amore a esito tragico, molte battaglie, moltissime esplosioni, qualche ammiccamento alla guerra nel Vietnam, un bravo S. McQueen, un memorabile R. Attenborough, una ventenne C. Bergen in fiore e una pregevole fotografia di Joe MacDonald. “Un film notevole ed estremamente coraggioso… Credo che Wise sia uno dei registi americani più sottovalutati” (Oliver Stone). Ebbe 8 candidature agli Oscar (tra cui quella, l’unica, per McQueen).
Un melodramma poliziesco del primo Fassbinder. Ci sono quasi tutti i suoi attori preferiti. Franz è stato in carcere. Una volta in libertà decide di riprendere i rapporti con l’assassino di suo fratello. Quest’ultimo aveva tradito e ora Franz ha un piano.
Giovane medico condotto (Mastroianni), assegnato a un paesino appenninico del Sud, deve fare i conti con la concorrenza sleale di Don Antonio (De Sica), guaritore un po’ imbroglione, e con l’ignoranza diffidente della gente. Scritta da Age & Scarpelli, è una commedia flebilmente progressista sul conflitto tra scienza e superstizione con qualche gaia trovata, un’ambientazione strapaesana di maniera, un De Sica amabilmente gigione, un Mastroianni con la sua faccia di bravo ragazzo e un Sordi in ombra.
Los Angeles, ribattezzata Lost Angeles (angeli perduti), fa da sfondo e contenitore a un universo di sconfitti, dementi, dannati dove si aggira Charles Serking (Gazzara), scrittore, bevitore, scopatore. È la storia delle sue esperienze etiliche e sessuali, ma anche del suo amore per Cass (Muti), puttana bellissima e disperata con una vocazione autodistruttiva più forte della sua. Dall’incontro tra due poeti scellerati, l’americano Charles Bukowski (1920-94) e l’italiano Ferreri (1928-97), è nato un film tenero, struggente, tristissimo: il primo film d’amore di un romantico che negava di esserlo, il suo più semplice e trasparente, pur con punte grottesche e crudeli. Scritto con Sergio Amidei, è tratto dalla raccolta di racconti (1972) di Bukowski, da quello di apertura ( La più bella donna della città ), rimpolpato da spunti, situazioni, personaggi di altri cinque.
La vicenda ruota intorno ad un delitto che tutto il paese passivamente si aspetta senza poterlo sventare o senza volere. Cristo Bedoya ritorna, ormai vecchio, nel villaggio in Colombia, che l’aveva visto giovane medico. I ricordi si affollano dolorosamente: il giovane amico Santiago Nasar fu accoltellato dai fratelli Vicario che volevano vendicare l’onore della sorella Angela, poi ripudiata dal marito, Bayardo San Roman. Bedoya, nella sua tardiva ricostruzione, non trova nessuna prova che dimostri la colpevolezza di Angela e Santiago. Angela, ormai vecchia, vittima inerme dell’accaduto, ha passato la sua vita scrivendo lettere al marito, fin quando un giorno egli ritorna pentito.
Vita dura di un emigrato italiano negli anni Venti in Usa. Bandini, muratore, lavora solo nella bella stagione. D’inverno fa fatica a tirare avanti con la sua numerosa famiglia. Una calorosa vedova gli offre lavoro. Ma anche il suo letto.
Winfried Conradi è un uomo âgée col vizio dello scherzo. Le sue buffonate colpiscono democraticamente familiari e fattorini che bussano alla porta e provano allibiti a consegnargli l’ennesimo pacco. Insegnante di musica in pensione, la sua vita si muove tra le visite alla vecchia madre e le carezze al suo vecchio cane, ormai cieco e stanco. A casa della ex moglie una sera a sorpresa ritrova sua figlia. Ines ha quasi quarant’anni e una carriera che impegna ogni ora della sua giornata. Occupata in un’azienda tedesca che l’ha traslocata a Bucarest, vive appesa al telefono e a una vita incolore, dedicata completamente alla professione e con poco tempo da spendere in famiglia. Senza preavviso, Winfried decide di farle visita e di passare qualche giorno con lei.
Travolta (un poliziotto determinato) si muta in Cage (un criminale psicopatico) per poter entrare nel carcere in cui è custodito il fratello del delinquente e carpirne le confessioni. Da qui ha inizio una serie di sviluppi che condurrà la vicenda a un altissimo livello di tensione. Jekyll e Hyde non sono più solo due volti di una stessa persona, ma scambiano i loro corpi. John Woo realizza un thriller in cui psicologia, suspense ed azione si fondono magistralmente. I primi quindici minuti sembrano aver già dato tantissimo allo spettatore in termini di spettacolarità, ma si tratta solo del prologo. Quello che segue dimostra che John Woo è ormai un autore capace di inserire nel cinema di genere una nevrosi tutta orientale che non perde di efficacia quando si trasferisce negli States.
Forse l’opera più famosa (se non migliore) di Pirandello. Mentre fervono le prove di una commedia, piomba in teatro un gruppo di personaggi per inscenare una commedia che racconti i loro drammi: il dramma del padre abbandonato dalla madre (che ha tre figli dall’amante) e, sempre del padre, che, frequentando una casa d’appuntamenti, rischia di fare l’amore con la figliastra. Il capocomico si sforza di costruire una rappresentazione su queste vicende, ma invano.
Questa presentata è la magistrale edizione televisiva dello spettacolo teatrale Compagnia Associata De Lullo-Falk-Valli-Albani andata in onda sulla Rai il 24.09.1965.
Un prologo racconta della Dea indiana dell’abbondanza e di suo figlio, attaccato violentemente dalle altre divinità e costretto a rimanere nel suo ventre per salvarsi, a condizione di vivere nascosto. La prima parte è ambientata nel villaggio di Tumbbad, in una regione rurale battuta da una pioggia incessante. Qui abita Vinayak, la cui madre si prende cura di una bisnonna, spaventosa figura tra lebbrosa e zombie tenuta in catene e sospesa tra pasti e un sonno profondo.
A taxing woman (マルサの女, Marusa no onna) è un film giapponese del 1987 scritto e diretto da Juzo Itami. Ha vinto numerosi premi, inclusi sei importanti riconoscimenti agli Academy Awards giapponesi. La protagonista del film, interpretata da Nobuko Miyamoto, è un’ispettrice fiscale dell’Agenzia Nazionale delle Entrate giapponese, che utilizza varie tecniche per scoprire gli evasori fiscali. Si dice che il regista sia stato ispirato a realizzare il film dopo essere passato a una fascia fiscale molto più alta in seguito al successo del suo film The Funeral. Un sequel, A Taxing Woman 2, che presenta alcuni degli stessi personaggi ma con un tono più cupo, è stato distribuito nel 1988.
Una revisora fiscale, Ryōko Itakura, analizza i conti di diverse aziende giapponesi, scoprendo redditi nascosti e recuperando tasse non pagate.
Tokyo. Un piccolo appartamento in cui vanno a vivere una giovane madre con il figlio tredicenne. In realtà i figli sono quattro nati da quattro rapporti diversi e vanno tenuti nascosti perchè mai registrati all’anagrafe. Quindi niente scuola, nessuna uscita sul balcone e, per di più, una madre immatura che rovescia sulle spalle del figlio maggiore tutta la responsabilità della conduzione della famiglia fino al giorno in cui si allontana per non fare piu’ ritorno. La vita dei quattro piccoli continua ma la tragedia incombe. Ispirato da un reale fatto di cronaca questo film porta sullo schermo con grande precisione l’orrore dell’indifferenza in una società che non vede più i bambini come una preziosissima risorsa ma solo come un freno alla libertà degli adulti oppure un fastdio, una responsabilità che è meglio non assumersi. Neppure per segnalare alla polizia dei minori in stato di evidente abbandono. Un film lucidamente amaro, girato con una sobrietà intensa che fa meditare.
I Taviani riaffrontano Pirandello quattordici anni dopo. Roma, anni Trenta: un baritono triste aspetta la notte per liberarsi con grandi risate. La pratica è terapeutica fino a un certo punto, finirà suicida. Calligrafia e maniera. I veri Taviani sono lontani.
30 anni dopo la solita catastrofica guerra, un uomo viaggia attraverso il deserto di quel che è rimasto della Terra, passando per grigi resti di città, incontrando bande di umani trasformati in selvaggi senza morale né pietà. Ma lui, Eli, è inarrestabile e prosegue il suo viaggio, lasciando dietro di sé altri cadaveri, difendendo ferocemente un prezioso manufatto (l’ultima copia della Bibbia rimasta!) su cui vuol metter le mani il potente despota di una città abitata da killer e delinquenti tutti al suo servizio. Con sovrannumero di citazioni, un “mix irrisolto di Mad Max e Bernadette , di Leone e Corman, fra pallottole vaganti, gli Hughes bros disperdono il loro talento in un rumoroso western grigio” (M. Porro), con Washington involontariamente ridicolo come profeta difensore della fede, cieco e invincibile, Oldman psicopatico sadico e un’apparizione di Tom Waits troppo breve.
Zombi 2 è un cult movie per eccellenza come dice Marco Giusti in “Stracult”. Un film che lo stesso Fulci amava così tanto da definirlo “un horror artaudiano”, prendendo a prestito le sue notevoli Poesie della crudeltà. Però aggiungeva che era “un horror senza crudeltà ma con molta presupposizione della crudeltà”. La partenza è subito inquietante con una misteriosa barca a vela alla deriva nella baia di Hudson. La polizia interviene e un agente che si spinge all’interno scopre mosche, vermi e una mano mozzata in putrefazione. Una musica intensa realizzata con il sintetizzatore conduce lo spettatore verso l’inizio dell’incubo. Esce fuori uno zombi da una cabina e si divora l’agente a morsi in un trionfo di splatter, mentre l’altro poliziotto spara a ripetizione e riesce a far cadere in mare lo zombi.
Negli anni Trenta i contadini di Fontamara, un paesino della Marsica, sono sfruttati dagli agrari e dai loro alleati fascisti. Un giovane capisce e si ribella.
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