Guido Maldini vive con la sua famiglia in una tenuta della campagna padana ai tempi del fascismo. Il suo temperamento dispotico e violento lo fa odiare da tutti e dal figlio innanzitutto che, colto dall’esasperazione, cerca invano di ucciderlo.
La menzogna. Sofia frequenta, insieme all’amica Chiara, una scuola di recitazione. L’insegnante, Mariangela Melato, afferma che l’attore deve saper fingere e affinare questa sua capacità. Allora Sofia mente, con tutti, anche con il suo ragazzo, Cesare. Questo la porta a scoprire una verità scomoda: Chiara e Cesare si amano.La verità. Sofia fugge. Raggiunge la Svizzera e incontra un ferroviere. In treno ha letto una rivista su cui Stefania Sandrelli afferma che l’attore cinematografico è sempre sé stesso. Al ferroviere offre per simpatia una prestazione sessuale, salvo poi recarsi dalla moglie e dirle tutta la verità. L’illusione. Sofia torna a casa sconvolta e scopre che la relazione tra Cesare e Chiara è già finita. Parte per Roma per affrontare un provino cinematografico. Qui ha luogo un duetto seduttivo tra lei e il regista sulla base di quanto afferma Alida Valli e cioè che l’attrice è un’illusa che illude. Giuseppe Bertolucci non smette di sperimentare ma questa volta lo fa con un vigore maggiore rispetto a Il dolce rumore della vita. Interrogandosi nuovamente sul senso della vita e della sua rappresentazione, Bertolucci raggiunge un livello più elevato di maturità stilistica.
Graziano, un brigadiere di scorta a un magistrato che indaga su trame poco chiare, riesce a mettere il giudice che deve proteggere sulla strada giusta e a fargli capire molte cose sull’omicidio di cui si sta occupando. Il giudice viene per questo ucciso, e a Graziano viene affidata la protezione di un altro alto magistrato, connivente col terrorismo.
Un altro film dell’accoppiata Russell-Jackson. Si tratta di una storia molto vicina a Donne in amore e si può considerare come il prologo di quel capolavoro. Una giovane ragazza inglese è divisa tra un professore e un soldato.
40 anni dopo la canzone di David Bowie “Space Oddity” – che raccontava le peripezie di un astronauta intristito – suo figlio esordisce nella regia con un film di SF intimista a basso costo, scritto da Nathan Parker e imperniato sul tecnico Sam Bell che, da 3 anni solo su una base lunare, lavora per la multinazionale Lunar Industries per spedire ogni giorno capsule di Elio 3, energia solare più pulita di quella terrestre. Lo aiuta Gertie, robot parlante: lo consiglia, lo tiene in contatto video con moglie (che forse sta per lasciarlo) e figlia, gli serve cioccolata calda, lo rade. 2 settimane prima del rientro gli capita un incidente in jeep e scopre l’esistenza di un replicante, un altro Sam Bell. In attesa della squadra di salvataggio, i due cercano di superare la reciproca crisi d’identità. Prodotto da Trudie Styler, moglie di Sting, fotografato da Gary Show, musicato da Clint Mansell, è un film artigianale all’antica (senza computer-graphic ): una SF da camera, con un suo semplice spessore originale anche nella spettrale parte finale da incubo e delicate sfumature sui temi della solitudine e del valore della memoria. Rockwell se la cava bene nella doppia parte.
Scritto con Joey Curtis e Cami Delavigne, è una tristissima storia d’amore sotto il segno delle differenze che in una giovane coppia si acuiscono col tempo, e delle svolte che non arrivano. Si cita un blues di successo: “You Always Hurt the One Who Loves” (“Fai sempre del male a chi ama”). Gosling lo suona con l’ukulele, la Williams improvvisa un tip-tap per la strada. Pochi anni dopo i due si rinfacciano, rimpiangono, si accusano. Nel frattempo la fotografia luminosa dell’amore nascente diventa livida e cupa. Nulla da eccepire sulla bravura dei 2 protagonisti; la Williams si guadagnò anche una candidatura all’Oscar. La regia asseconda con puntiglio dolente i simboli, le allusioni, le trovate plastiche. Musiche di Grizzly Bear. Uscito in USA nel 2010, è rimasto congelato per 3 anni e distribuito da noi col contagocce (dalla meritoria Movies Inspired). Troppo sentimentale per il pubblico italiano?
Mahmud Nasir è un musulmano che vive a Londra con la moglie e i due figli. Pur essendo intimamente devoto non è un praticante impeccabile, cede ai piaceri dell’alcool, a un linguaggio colorito e salta buona parte delle preghiere obbligatorie ma, in previsione del matrimonio del figlio più grande con la figliastra di un leader integralista, si prepara a dimostrarsi un vero musulmano, per ottenere la benedizione del futuro consuocero e far felice la sua famiglia. Peccato però che, proprio negli stessi giorni, Mahmud scopra per caso di essere stato adottato e, soprattutto, di essere nato ebreo, sotto il nome di Solly Shimshillewitz.
6° film, e il più riuscito, di una regista che dal 1995 ha diretto anche 6 documentari. È la storia di un’attesa. A 42 anni Maria vive a Napoli, insegna italiano in una scuola serale per adulti. È una donna autonoma, energica, spigolosa, che decide tutto da sola. Si trova incinta, senza volerlo, di un uomo che prende il largo, e al 6° mese ha un parto prematuro. La piccola è messa in incubatrice e Maria, da sola, aspetta che nasca o muoia. Dal romanzo (2008) di Valeria Parrella, prodotto da Fandango con Rai Cinema, adattato con Federica Pontremoli, è uscito un film intenso e originale sul tema della maternità, vario nell’azione e negli ambienti (il reparto di terapia intensiva; la scuola, mobile e precaria; lo sfondo contraddittorio di Napoli che riflette quello nazionale), ricco di figure di contorno e di lucidi agganci con la società. Prende, emoziona, inquieta, sconcerta e fa aspettare anche lo spettatore. È realistico ma anche visionario e corre via, leggero, storia di una solitudine che si apre agli altri. La Buy non è solo di una bravura interpretativa superiore a ogni elogio. Deve anche esserci stato, tra lei e la regista, un lavoro di fertile collaborazione che sfiora la simbiosi. Montaggio: Massimo Fiocchi. Scene: Paola Comencini. Fotografia: Luca Bigazzi.
Presentato (e vincente) nella sezione “panorama” del Festival del Cinema di Berlino, Mi piace lavorare nasce come progetto povero ed essenziale. Una sola attrice di rilievo, molti interpreti non professionisti, il circolo di parenti e amici della regista che si adoperano per la riuscita di una pellicola, che di fatto, è una delle migliori opere sociali degli ultimi anni e che squarcia il velo su uno dei più grandi problemi che affligge il moderno mercato del lavoro:il mobbing. I tempi de La classe operaia va in paradiso sono finiti, oggi è tempo di fusioni, budget, tuning: lo scenario scelto dalla Comencini è assolutamente asettico: un’azienda anonima, di cui non si conosce l’attività, il fatturato, lo scopo. Quella nella quale chiunque potrebbe lavorare e che, a causa di una fusione, vede il management radicalmente cambiato. Spesso le vittime non conoscono nemmeno il nome dei propri carnefici, il concetto di padrone viene sostituito da una sorta di grande fratello che controlla, dispone, organizza, muove uomini e donne a suo piacimento sullo scacchiere operativo alla ricerca del miglior profitto. È la giusta legge del libero mercato e vivaddio che sia così, ma, a volte, forse troppe volte, il meccanismo s’inceppa e quando questo succede le conseguenze sono gravissime e coinvolgono non solo il diretto interessato ma familiari, amici, parenti, amici. Nelle vene dei Comencini scorre il cinema:ciò si palesa non solo apprezzando il piglio asciutto e sicuro che la madre (forse pensando ai lavori del nonno) utilizza nel corso della storia, ma anche nella straordinaria performance della figlia che recita accanto alla Braschi con una naturalezza e convinzione che lasciano stupefatti. La discesa agli inferi della bravissima signora Benigni è raccontata senza enfasi, né scene madri: giorno dopo giorno, alla inconsapevole contabile vengono tolte dignità e speranze, tramite un continuo, spossante, cambiamento di mansioni e piccole meschinità che minano l’autostima di quella che appare agli spettatori una vera e propria vittima sacrificale, carne da macello da immolare al Dio della competitività (mirabile in questo senso il discorso iniziale del nuovo amministratore delegato della società, così ricco di parole e povero di contenuti). Perfetta la performance della Braschi, sempre sul punto di cedere, ma pronta, alla fine, ad alzare la testa e reagire, dopo l’ultimo, inaccettabile sopruso. Lo squallore degli uffici, delle mense, del trantran quotidiano di chi non “viaggia in prima” è testimoniato con un’aderenza al reale molto inquietante. Bella la prova degli attori non professionisti ed geniale, nella sua grottesca messa in scena, la sequenza del colloquio della protagonista con l’amministratore delegato dell’azienda. Anche il film ha le sue pecche: il finale, nel suo voler essere consolatorio e pregno di speranza, è troppo ottimistico e ben poco aderente ad una realtà che spesso è ben diversa da quella indicata nel film, ma, nonostante questo, e alcune pecche stilistiche nella rappresentazione della storia (invero un po’ troppo manichea nel dividere buoni e cattivi), Mi piace lavorare vale più di qualsiasi manifestazione, corteo o indagine giornalistico/televisiva. C’è solo da sperare che un pubblico abituato a cercare nel mezzo cinematografico evasione e divertimento, non sia impaurito dalla cruda rappresentazione della realtà di tutti i giorni…
Una commedia al vetriolo sulla finzione e la realtà americana medio-provinciale. Due storie. La prima, intitolata Finzione vede una ragazza di fronte alla scrittura letteraria di un corso universitario. Dopo l’insuccesso del suo primo racconto scriverà del violento rapporto sessuale avuto con l’insegnante di colore. La seconda, Non-Finzione, narra di una famiglia sconvolta da un dilettante e ambizioso videomaker che pretende di fare un documentario sui giovani alle prese con l’università. Uno dei figli del capofamiglia, quest’ultimo interpretato da John Goodman, diventa il protagonista del documentario ma rimarrà solo dopo la vendetta della cameriera ingiustamente licenziata.
La dodicenne Aviva Victor vuole essere madre. Fa tutto quello che può perché ciò accada e arriva molto vicina a raggiungere lo scopo, ma è fermata dai suoi preoccupati genitori. Così scappa, ancora determinata a restare incinta, ma invece si trova persa in un mondo alternativo, meno sensato forse, ma pregno esso stesso di ogni sorta di strane possibilità. Questo è un viaggio circolare come molti e alla fine è difficile dire se Aviva potrà essere come prima, o se non potrà mai essere niente altro che esattamente la stessa di prima. Todd Solondz ovvero del cinismo. Un cinismo che sembra avere pietà dei suoi personaggi ed invece li espone al dileggio dello spettatore. Con grande abilità di costruzione narrativa e con quel tanto di ‘stravaganza’ (tenere fermo il personaggio mutando gli attori che lo interpretano) che fa tanto ‘autore’. Peccato però che si sia molto distanti dalla tenuta complessiva di quell'”Happiness” che resta il punto di riferimento della sua filmografia. La satira sul perbenismo Usa è dura ma finisce con il perdere mordente man mano che i minuti scorrono. Anche la vocazione al grottesco ha bisogno di misura
Il seguito di Fuga dalla scuola media di Todd Solondz, un film indipendente corale. Una delle storie sarà incentrata su Dawn Wiener, soprannominata senza pietà “Weiner Dog”. Attorno a lei ci sono altre persone, la cui vita è stata ispirata o modificata da un particolare bassotto in grado di diffondere conforto e gioia.
Rio de Janeiro. Un fotografo americano è molto colpito da una prostituta e la ritrae in alcuni scatti. Quando lei viene uccisa l’uomo decide di vendicarla.
Alcuni reduci di guerra americani si ritrovano in un bar. Un sergente, spinto da odio antisemita, uccide un ebreo in una rissa e fa cadere i sospetti su un compagno.
Tim Templeton è un bambino felice: ha sette anni e mezzo, i genitori lo adorano, ed è dotato di una fervida immaginazione che gli permette di vivere ogni situazione come un’eccitante avventura. Almeno finché non arriva in casa il nuovo fratellino, che istantaneamente monopolizza le attenzioni e l’affetto dei genitori lasciando Tim da solo a domandarsi come sia potuto succedere che il neonato sia diventato il boss in casa sua. Nello sguardo di Tim, Baby Boss è infatti un piccolo dittatore, un adulto travestito da bebè con un’agenda nascosta della quale i loro genitori sono all’oscuro. Sarà lo stesso Baby Boss a rivelare i suoi piani a Tim perché, oltre ad andare in giro in giacca, cravatta e ventiquattrore come un dirigente aziendale, è un neonato parlante, la cui missione è contrapporsi al trend che sta rubando l’attenzione dei potenziali genitori per dirottarla verso altre creature irresistibili: i cuccioli di cane.
Un’ondata di bizzarri omicidi affligge Tokyo. Oltre ad essere accomunati da un rituale (l’incisione di una X sul petto), l’assassino viene costantemente ritrovato sul luogo del delitto in stato confusionale. L’indagine del detective Takabe e dello psicologo Sakuma li porta in contatto con un misterioso giovane di nome Mamiya, apparentemente implicato nella vicenda. Una visione di quelle che lascia il segno, che divide, che fa discutere. Cure non è un horror, non è un whodunit, non è niente a cui poter apporre un’etichetta di comodo e cavarsela con poco. È un viaggio nei meandri della psiche umana, alla scoperta di pulsioni e istinti ignorati, repressi, nascosti.
Vincent, grafico pubblicitario e uomo mite, è aggredito in ufficio da uno stagista. Quello che assomiglia a un regolamento di conti assume presto contorni perturbanti, perché il giorno successivo un altro collega lo pugnala con una biro. È l’alba di un incubo e di aggressioni insensate che proseguono sulla via di casa. Attaccato senza motivo da chiunque incroci il suo cammino e il suo sguardo, Vincent lascia la città e si isola progressivamente in campagna. Un esilio costellato di incontri inaspettati: un clochard affetto dallo stesso inspiegabile disturbo, che lo invita a unirsi a un’oscura comunità online, la solare cameriera di un fast-food, contrappunto luminoso all’orrore e alla depressione dell’eroe, una bambina, un vicino, un cane…Tutti vogliono uccidere Vincent.
Dicembre 2004. Henry, Maria e i loro tre figli decidono di concedersi una vacanza natalizia lasciando il Giappone , dove lui lavora, per raggiungere la Thailandia. Anche se Henry ha qualche preoccupazione relativa al suo impiego il relax è totale. Fino a quando, la mattina del 26 uno tsunami di enormi proporzioni travolge tutto ciò che si trova di fronte. Maria viene trascinata via nella stessa direzione del figlio maggiore Lucas mentre Henry viene travolto mentre ha stretti a sé i due figli più piccoli.
L’occhio del ciclone – In the Electric Mist (In the Electric Mist) è un film del 2009, diretto da Bertrand Tavernier.
Nei dintorni di New Iberia, in Louisiana, il ritrovamento, in luoghi e tempi diversi, dei corpi brutalmente seviziati di due giovani prostitute fa pensare alla mano di un unico maniaco. Il detective Dave Robicheaux segue subito una traccia che lo porta al boss italoamericano Giuliano “Julie Baby Feet” Balboni. Questi, con altri finanziatori locali, sta producendo un film sulla guerra di secessione americana ambientato proprio nelle paludi teatro dei terribili omicidi.
Lou Grant è una serie televisivastatunitense di genere drammatico, trasmessa dalla CBS per 5 stagioni dal 1977 al 1982 per un totale di 114 episodi. In Italia, la serie è arrivata il 20 ottobre 1980 su Canale 5[1][2].
l giornalista Lou Grant si trasferisce da Minneapolis a Los Angeles: qui diviene il caporedattore del Tribune, giornale (fittizio) che naviga in cattive acque. Lou Grant affronta la sfida di rinverdire i fasti del periodico, grazie ai suoi collaboratori, giovani e ambiziosi. Tra questi, i reporter Joe Rossi e Billie Newman, il fotografo Dennis Price (detto “il pidocchioso”): i temi “scottanti” toccati dalla redazione quotidianamente lanciano il Tribune, nonostante lo scetticismo della proprietaria del giornale, la signora Pynchon.
Non ho trovato versione in italiano, la qualità è piuttosto bassa. I subita non li ho cercati, troppi episodi.
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