Un film da un budget irrisorio, meno di duecento milioni di lire, per il grande regista americano. Un soldato in Vietnam accusa due suoi compagni di stupro ai danni di una ragazza vietnamita. Dopo aver scontato la pena i due assassini lo rintracciano in campagna dove abita con la famiglia.
Francia, anno di grazia 1123. Goffredo, nobile cavaliere, uccide incosapevolmente il padre della donna che ama. Avrà la possibilità di rimediare all’errore ingerendo una pozione magica che lo porterà indietro nel tempo quel tanto che gli consenta di rimediare al tragico errore. Per l’eccessiva dose ingoiata il cavaliere si ritrova invece, con il suo scudiero, 900 anni dopo. Di fatto ai nostri giorni. A contatto con la civiltà moderna e le sue storture, il cavaliere avrà più di una sorpresa, ma riuscirà a tornare infine ai suoi bei dì e a salvare in tempo il padre dell’amata. Una trama non originalissima, mutuata da Wells e da un racconto di Mark Twain, che in Francia ha battuto ogni record d’incassi. E per quanto il doppiaggio sottragga al divertimento originale, il successo risulta incomprensibile. Un film baciato dalla sorte, ma che presso il nostro pubblico non ha sortito alcun effetto. La regia non ha ritmo sufficiente e i personaggi sono francamente poco simpatici.
Tre attori d’avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità. Il giudice fa replicare la scena incriminata, si eccita, muore d’infarto. In un linguaggio estremamente coinvolgente, da psicodramma, è una tesa e angosciosa interrogazione sull’arte e sulla morale comune con qualche passaggio enigmatico. È un esempio estremo di cinema a porte chiuse, un esercizio per cinepresa e 4 attori. Straordinari. Realizzato per la TV svedese fu messo in onda nel 1969.
Per questo dramma Chabrol si è ispirato a un racconto del romanziere Georges Simenon. È un ritorno del regista alla qualità dei suoi migliori film. Betty ha avuto esperienze negative con gli uomini che l’hanno portata all’alcol e a una visione pessimistica della vita. Tutto ciò viene narrato dopo che la poverina è tratta in salvo, dallo squallore di un ennesimo bar in quel di Versailles, da una ricca signora che la conduce in un grande albergo.
Uno dei film più belli e poetici di Bertrand Tavernier. Presentato a Cannes e ingiustamente lasciato senza premi, descrive il rapporto tra padre e figlia. Lui è anziano e molto malato, lei è tornata a trovarlo preoccupata. La moglie assiste triste e malinconica al loro rapporto sereno, dopo anni di incomprensioni. Nella versione originale Bogarde parla inglese mentre la Birkin sia inglese che francese; in quella italiana si è supplito lasciando solo l’inglese con i sottotitoli in italiano.
Nella campagna del Drôme una donna con sette figli manda avanti una piccola fattoria. Appartiene a un duro capitalista rurale che ha, poco distante, un’altra fattoria e una famiglia ufficiale con due figli già grandi. Questa nuova Madre Courage, dolce, forte, ma vulnerabile, è così stanca della vita da essere tentata di farla finita. 1° lungometraggio di S. Veysset che l’ha anche scritto, premio Delluc in Francia, scandito sul ritmo lento di 3 stagioni, dall’estate all’inverno, è un film molto fisico che mescola con originale finezza fiaba e visione realistica del lavoro e della campagna, evitando le trappole del melodramma, del miserabilismo agreste, del sanguinoso fatto di cronaca. Storia patetica senza sentimentalismo. Film sull’amore materno raccontato come un’arte. Il modo con cui la svizzera D. Reymond, attrice di teatro, si è calata nel suo personaggio di contadina ha del miracoloso. Dedicato “Alle stagioni che passano e agli spettatori che restano”.
Il professor Persikov, direttore dell’istituto di zoologia di Mosca negli anni venti, riesce a mettere a punto un potente raggio in grado di accelerare vertiginosamente la riproduzione delle cellule animali, provocando in tal modo la “resurrezione” involontaria di mostruosi rettili, che causeranno uno sconvolgimento nel rigido ordine della società sovietica dell’epoca.Alla voce del regista fuori campo, erano affidati il commento e la lettura di brani originali tratti dall’opera di Bulgakov.
Filmato in bianco e nero con una durata di circa 50 minuti, The War Game rappresenta il preludio e le settimane che seguono un attacco nucleare sul Regno Unito da parte dell’Unione Sovietica.
Attraverso le testimonianze dei protagonisti interpretati da attori che utilizzano le dichiarazioni rilasciate in interviste e libri a loro dedicati, documenti d’epoca e spezzoni di numerosi film si ripercorrono trent’anni di storia della malavita italiana.
Intercalando film hollywoodiani trionfalmente mainstream (Philadelphia, The Manchurian Candidate) con produzioni ‘minori’ e impegnate su alcune specifiche cause (la lotta contro l’apartheid, la promozione della cultura haitiana, la denuncia delle condizioni di vita nei quartieri afroamericani), il cinema di Jonathan Demme si vuole politico. Enzo Avitabile Music Life ribadisce questa volontà politica. Muovendo dalla poetica musicale dell’artista napoletano, il documentario di Demme traduce in immagini il suo desiderio in musica di salvare il mondo. Complice una trasmissione radiofonica, che riversava le note di Avitabile nell’auto di Demme in corsa sul George Washington Bridge, i due artisti si ‘incontrano’ e producono insieme ottanta minuti di note e fotogrammi. In perfetta comunione con la sensibilità di Demme, le partiture di Avitabile, sempre aperte alla contaminazione e alla differenza, esibiscono una solidarietà per gli oppressi e un’empatia per i margini. Il documentario, alla maniera del disco “Salvamm’o munno”, armonizza la tradizione arcaica contadina della Campania con il suono antico dei Bottari di Portico fino a comprendere stili musicali contemporanei, fino a battere la strada della World music, fino a tuffarsi nel Mediterraneo e nei suoi vivi orizzonti. Italia, Africa, Medio Oriente, la produzione di Avitabile, mane e mane con i Sud del mondo, ospita artisti straordinari, depositari di una precisa identità culturale e di una tradizione artistica millenaria. Tradizione intonata dalla voce ‘vesuviana’ di Zi’ Giannino Del Sorbo e colorata dalla polifonia delle launeddas di Luigi Lai. Una partitura collettiva che canta gli oppressi nelle lingue del Sud e dentro una straordinaria evidenza sonora. Inteso a recuperare il patrimonio musicale partenopeo e a rivelarne la piena bellezza, Avitabile attraversa Napoli e i luoghi della sua musica, chiese, accademie, conservatori, liberando sulla strada la Tradizione sigillata. Il suono del suo sassofono risale la cantina dell’infanzia (e dell’applicazione) nel quartiere di Marianella rompendo la linearità del racconto e insinuando la vita familiare e amicale di Enzo. Dentro le immagini di Demme, che tradiscono un’aria di sopralluogo e di scoperta, Avitabile mescola i suoni laici con la solennità liturgica, l’anima sinfonica col cuore cameristico, risvegliando il grido popolare.
Una ragazza da un giorno all’altro si trova senza lavoro e ha un’idea: affittare un gigantesco spazio pubblicitario e scriverci il suo nome. Scritta da Ruth Gordon e Garson Kanin, è una commedia che con artigli vellutati graffia amabilmente usi e costumi della società americana, ma che mantiene soltanto in parte il brio satirico della 1ª mezz’ora. J. Holliday è bravissima. 1° film di J. Lemmon (1925-2001)
Il giornalino di Gian Burrasca è uno sceneggiato televisivo trasmesso dalla RAI, in otto puntate, il sabato, in prima serata (dalle 21,05 alle 22,00 circa), dal 19 dicembre 1964 al 6 febbraio 1965[1] e replicato nel 1973, nel 1982 e nel 2012 (Rai 5).Destinato ad un pubblico giovanile, ma trasmesso in prima serata per guadagnare anche una audience più matura, era liberamente ispirato[2] all’omonimo romanzo scritto da Vamba nel 1907 e pubblicato inizialmente a puntate sul Giornalino della Domenica.Interprete nel ruolo maschile dello scatenato protagonista Giannino Stoppani era Rita Pavone, all’epoca da poco tempo affermata cantante di musica leggera. La regia era di Lina Wertmüller – responsabile anche dell’adattamento televisivo – mentre le scenografie e i costumi erano rispettivamente di Tommaso Passalacqua e Piero Tosi. Autore delle musiche – dirette da Luis Bacalov – era Nino Rota. Tra i motivi musicali lanciati dalla trasmissione ha avuto successo molto particolare la canzone Viva la pappa col pomodoro.
In un povero villaggio nel nord del Giappone, secondo un’antica tradizione, dettata dalla legge della sopravvivenza (la necessità di diminuire il numero delle persone improduttive da sfamare), la vecchia Orin (Tanaka) chiede al figlio Tatsuhei (Takahashi) di essere portata in cima al monte di Narayama e lì abbandonata in attesa della morte. La neve comincia a cadere. Ispirato al romanzo Le canzoni di Narayama (1956) di Shichiro Fukazawa, adattato e dialogato dallo stesso Kinoshita, un quarto di secolo dopo fu portato sullo schermo da Imamura con La ballata di Narayama in stile realistico. Situata la vicenda in un’epoca indeterminata, anche per aggirare la crudezza dell’argomento e di certe scene (per sembrare più vecchia Orin non esita a rompersi i denti), Kinoshita filma la storia, ambientata in esterni, tra le quattro pareti di uno studio, prendendo a prestito luci, colori, convenzioni, musica del teatro Kabuki. È uno dei grandi film sulla vecchiaia. L’impostazione è esistenziale. Invece di scegliere l’angolazione della solitudine ( Vivere di Kurosawa) o quella dell’esame di coscienza e della nostalgia ( Il posto delle fragole di Bergman), Kinoshita propende per l’inutilità della vecchiaia e la sua fatalistica (religiosa?) accettazione da parte di chi decide di affrontare la morte con quieto e altruistico stoicismo. Fu in concorso a Venezia 1958 dove il Leone d’oro toccò al film giapponese sbagliato: L’uomo del riksciò .
In un villaggio giapponese sperduto tra i monti, giunti a 70 anni i vecchi vengono condotti a morire sulla cima del monte Narayama per permettere ad un giovane di sfamarsi. Una vecchia, per lasciare il posto alla giovane nuora, si rompe i denti contro un pozzo per sembrare più vecchia e affrettare quindi la sua fine.
Umberto lenzi(paranoia,milano rovente,il coltello di ghiaccio)dopo l’enorme successo di MILANO ODIA,torna al giallo,e dirige un ottima pellicola che incolla lo spettatore e lo emoziona ad ogni scena.La storia si svolge a Barcellona,dove un gruppo di turisti si ritrova piano piano ad essere preso di mira da un maniaco che li uccide a poco a poco strappando l’occhio sinistro alle vittime,nel frattempo un uomo raggiunge una delle turiste poiche’ e’ la sua amante ed immagina che dietro tutto questo ci sia lo zampino della moglie gravemente malata di nervi,una cosa e’ certa si sbaglia e l’assassino e’ piu’ vicino di quanto pensa..Lenzi e’ un maestro del genere,e sono molte le scene interessanti,ma quella piu’ suggestiva e’ sicuramente la scena finale con tanto di occhio staccato e incollato all’occhio dell’assassino,anche se la scena della casa dell’orrore al luna park e’ ottima.Buone musiche di nicolai.Per la cronaca i gatti rossi sono i turisti che indossano un impermeabile rosso quando piove e sono come gatti in trappola.Che lo si voglia o meno Lenzi ci sa fare eccome ,e la pellicola e’ forse il suo capolavoro ,soprattutto per il movente finale che spinge l’assassino ad uccidere.
Nato come Vangelo ’70, privato dell’episodio ipertrofico di V. Zurlini che diventò Seduto alla sua destra. Con “L’indifferenza” Lizzani rilegge la parabola del buon samaritano in chiave di neorealismo stradale. In “L’agonia”, con J. Beck e la compagnia del Living Theatre, Bertolucci ribalta la parabola del fico sterile in un originale esercizio stilistico tra cinema, mimo e teatro d’avanguardia. Con “La sequenza del fiore di carta” Pasolini si serve di N. Davoli on the road per una metafora sull’impossibilità dell’innocenza. In “L’amore” di Godard, parafrasi politica alla Brecht della parabola del figliol prodigo, Castelnuovo impersona la Rivoluzione e la Guého la Democrazia: i due si amano, ma non possono convivere. In “Discutiamo, discutiamo…” Bellocchio e un gruppo di studenti dell’Università di Roma dissertano in toni grotteschi sulla scuola di classe e la contestazione studentesca. Finanziata dall’Italnoleggio, è una curiosa operazione di sperimentazione linguistica.
Un gruppo di persone assolutamente eterogeneo (una ragazza sordomuta, una prostituta, un prete) devono fuggire da una cittadina nella quale è scoppiata una rivoluzione dopo la confisca da parte dello stato di una miniera d’oro. Scappando nella giungla incontreranno ogni sorta di creatura.
Un pazzo uccide un vecchio prete. Le indagini sono difficili proprio perché non esiste movente. Ma siamo in un momento elettorale, dunque d’obbligo per la polizia far bella figura e scoprire l’assassino. Viene allora accusato un uomo in base a indizi fasulli. Per fortuna c’è un procuratore al quale sta a cuore soprattutto la verità.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Victor e Betty girano la Francia in camper truffando i casinò. Vivono nel lusso e si divertono. Rubare è davvero una grande gioia. Un “divertimento” del grande autore francese, intelligente e sottile come sempre. Premiato al festival di San Sebastiano.
In un futuro in cui l’umanità ha subito immani cataclismi causati dallo scioglimento della calotta polare, la tecnologia ha compiuto passi da gigante. Si è ormai in grado di riprodurre esseri simili in tutto agli umani. David appartiene all’ultimissima generazione di robot: può anche amare. Viene affidato a una coppia il cui figlio, affetto da un male apparentemente incurabile, è stato ibernato in attesa di una cura. Vinte le resistenze iniziali David riesce a farsi amare da Monica, la sua ‘mamma’. Ma la guarigione del figlio naturale rimette tutto in discussione. David deve essere abbandonato in un bosco per liberarsene e, al contempo, salvarlo dalla distruzione. Per lui comincerà un viaggio, accompagnato da un Lucignolo/Gigolo, in un paese dei balocchi orrorifico alla ricerca della Fata dai Capelli Turchini che lo possa far diventare un bambino vero e, quindi, totalmente amato. Il binomio Spielberg/Kubrick è di quelli da far tremare le vene ai polsi di qualsiasi cinefilo. Il freddo razionalismo kubrickiano, fondendosi con la vocazione al mélo di Spielberg, ha prodotto un film complesso e commerciale allo stesso tempo. Sorprende però il modo in cui Spielberg scrive la sua nuova fiaba e la suggella con un finale destinato inevitabilmente (e consapevolmente) a far discutere. Il lungo epilogo del film è così carico di figure care alla psicoanalisi da poter sembrare banale e semplicistico.
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