Rodolfo vive alle spalle della famiglia della moglie e trascorre le giornate studiando canto con un maestro di musica spiantato e imbroglione almeno quanto lui. Quando il suocero gli dà l’ultimatum, Rodolfo è costretto a darsi da fare per avere una particina in un’opera lirica allestita nel teatro cittadino. Convinti di assistere all’inizio di una folgorante carriera, i parenti di Rodolfo gli concedono di continuare a vivere come sempre.
Un alieno, che si nutre di droga e di una misteriosa sostanza che l’uomo produce durante il rapporto sessuale, trova una perfetta “sistemazione” a casa di due sbandate cocainomani. Da quel momento ogni uomo che va a letto con le ragazze muore.
Il diavolo introduce sette brevi episodi dedicati ai peccati capitali e interpretati da alcuni fra i più famosi attori francesi: c’è un vescovo che si diletta a sentire le avventure delle suore, un seminarista che si fa uccidere dall’assassino della sorella per farlo andare sulla ghigliottina, un pazzo che si crede Dio.
L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi “lavori in pelle”: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.Ed è certamente sul piano visivo, e delle scelte operate in questo senso, che il film di Villeneuve trova la propria originalità costitutiva: quella di un ibrido tra blockbuster e film personale, specie nella gestione del tempo, che il canadese sottrae alle logiche di mercato e fa proprio nel bene e nel male, lungaggini comprese. Il disordine e la spazzatura della L.A. Del 2019 sono un ricordo lontano: ora tutto è ordine, K stesso, come gli ricorda il suo capo, è pagato per mantenere l’ordine. Ma non è facile assolvere questo compito quando i ricordi d’infanzia si mescolano agli interrogativi metafisici, proprio come in “Fuoco pallido”, il romanzo di Nabokov che torna a più riprese. Non è facile quando, come nell’archetipo di ogni detection contemporanea, la tragedia di Edipo, cacciatore e cacciato sono la stessa persona. Dice tante cose, il film di Villeneuve, forse troppe, d’altronde fa parte di un processo di espansione, di creazione di un universo Blade Runner. E di certo non le dice sempre nel migliore dei modi: non ha l’asciuttezza dell’originale, stordisce di spiegazioni, arriva persino in ritardo sulle intuizioni dello spettatore, ma la forza interna del racconto, la materia di cui è fatto, è così potente che trascina oltre, come una corrente.
Nerone tenta in ogni modo di far uccidere la madre Agrippina, unica persona che riesca a tenergli testa complicandogli la vita con continue sollecitudini alla guerra. Anche Seneca e Poppea si danno da fare per eliminare la vecchia imperatrice, che però sembra avere cento vite. Alla fine Nerone ce la fa, e insieme alla madre fa uccidere tutti quelli che lo hanno aiutato e che gli sono venuti a noia, moglie compresa.
Un magistrato senza macchia indaga sulla morte di una giovane drogata e risale così a un industriale, il quale tenta con ogni mezzo di ostacolarlo. Mentre la città tripudia per una vittoria calcistica, il magistrato, che ha scoperto la non colpevolezza dell’indiziato, decide di procedere egualmente contro di lui per colpire attraverso l’uomo tutto il marcio di una società irrimediabilmente corrotta.
Suzanne Stone è una bionda e bella ragazza di Little Hope con un sogno nel cassetto: sfondare in televisione. Sposatasi all’adorante Larry Maretto, figlio di un ristoratore italo-americano in odore di mafia, si risolve a farlo fuori nel momento in cui l’uomo avanza la richiesta di un figlio e di una vita borghese e provinciale, inconcepibile ostacolo sulla strada di Suzanne per il successo. Sfruttando il suo potere di seduzione su tre adolescenti complessati, la Barbie killer mette a segno il suo colpo, ma non tutto va secondo i piani.
L’atteso film di Kassovitz, che sin dai trailers prometteva suspence ed emozioni, supera brillantemente le aspettative. Almeno per quanto riguarda la prima parte, che scorre sullo schermo con ritmo perfetto. Un omicidio efferato sconvolge gli abitanti di un paesino di montagna vicino a Grenoble. La scoperta di altre uccisioni fa pensare ad un serial killer, ma forse è soltanto una falsa pista. A capo delle indagini, troviamo il valoroso cavaliere Jean Reno, eroe solitario. Nel frattempo un giovane poliziotto alla ricerca di un teppistello si troverà successivamente a collaborare col maestro. L’incontro tra i due e la conseguente risoluzione del caso costituiscono, nella seconda parte del film, i momenti meno riusciti. Non soltanto per l’ovvietà di certe battute, quanto piuttosto per la prevedibilità del finale. Rimaniamo in ogni caso affascinati dal tocco sicuro di una regia capace di costruire un thriller made in France.
Irlanda 1916: sposata senza amore a un insegnante, una ragazza ha una relazione con un ufficiale britannico. Turgido melodramma pastorale con conflitti intimistici dilatati su un’abnorme durata (durata originale: 206 minuti). Si direbbe che il regista non sia entrato in sintonia con la sceneggiatura dell’emerito Robert Bolt, pur ricca di scatti, furori e sbalzi d’umori, cedendo alle tentazioni del pompierismo. Ne è sortito un Breve incontro gonfiato con gli estrogeni. Mitchum fuori parte, per giunta. 2 Oscar per la fotografia (F.A. Young) e Mills nella parte di un muto storpio.
Judd (Neville Brand), gestore di un motel, è completamente pazzo e alleva un coccodrillo nella palude acquitrinosa accanto all’edificio. Quando arrivano clienti, per un motivo o per l’altro, tenta di farli fuori tutti. Ma il suo coccodrillo non fa sconti nemmeno a lui. Stranissimo secondo film di Hooper dopo il successo di #Vedi#Non aprite quela porta. All’apparenza è un cupo horror di serie B, con grandi parentele con #Vedi#Psyco e #Vedi#Uomini coccodrilo e molti altri film degli anni ’50 e ’60, con una trama banale e lineare. In realtà è qualcosa di più, visto il clima davvero malsano creato dai comportamenti perversi di alcuni ospiti e dai monologhi allucinati del protagonista, un grandissimo ed esagerato Neville Brand che borbotta in continuazione frasi sconnesse e ragionamenti paranoici. Il film è immerso in colori irreali che richiamano, assieme alla trama e ai personaggi schematici ma singolari, i fumetti dell’orrore americani di Gaines (molto più dei due #Vedi#Creepshow e de #Vedi#I racconti dala tomba che a essi direttamente si rifanno). Il cast è curioso, con William Finley (#Vedi#Il fantasma del palcoscenico) in grande evidenza e una gustosa partecipazione di Robert “Freddy Krueger” Englund.
Questo film che per intensità e profondità richiama quello del connazionale Bergman, racconta il difficile rapporto fra un maestro, che tenta di eliminare l’autoritarismo da scuola, e la moglie con cui vive senza aver voluto dei figli. Ole Dole Doff è uno sciogli lingua intraducibile e allude al mondo dell’infanzia a cui si rivolge questa opera seconda del regista svedese. Tormentato dalle sue incertezze, tranciato dalle contraddizioni tra “istintività” e “cultura”, diviso tra amore e odio finisce con in cadere nel delirio.
Patrick Kenzie è un bostoniano da sempre e questo gli ha consetito di conoscere così tante persone da fargli decidere di divenire detective privato. Nella professione è aiutato dalla sua compagna Angie Gennaro. Un giorno i due giovani investigatori si vedono contattare perché coadiuvino la polizia nelle ricerche di Amanda, una bambina di quattro anni scomparsa recentemente. Non è però la poco affidabile e tossicodipendente madre Helene a cercarli ma gli zii della bambina. Nonostante la contrarietà del capo della polizia locale Jack Doyle i due si mettono all’opera coadiuvati da due poliziotti che Doyle assegna loro come aiutanti. L’indagine non è facile anche perché finirà con il mettere in gioco delle complesse scelte morali. Ben Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa fa subito centro con un film di genere che va oltre il genere per affrontare delicati temi legati al rapporto tra adulti e bambini. L’unica pecca del film è il titolo che, somigliando a quello di una canzone che potrebbe essere dei Bee Gees così come dei Platters, rischia di avere un contenuto diverso da quello che invece possiede. D’altronde si tratta del titolo originale di un romanzo scritto da Dennis Lehane che è (oltre che l’autore di quattro storie che hanno al centro Patrick e Angie) colui che ha scritto “Mystic River”. Scusate se è poco. Si potrebbe dire che con un autore così alle spalle chiunque avrebbe potuto ottenere un buon risultato ma, purtroppo, diverse esperienze di trasposizioni non riuscite non confortano questa valutazione. Così, lo ripetiamo, onore a Ben Affleck che si è per di più assunto l’onere di offrire un ruolo importante al meno noto fratello Casey affiancandogli dei comprimari come Morgan Freeman ed Ed Harris che possono mettere in difficoltà anche attori molto più rodati di lui. Invece Casey Affleck e Michelle Monaghan offrono il ritratto di una coppia capace di uscire dagli stereotipi di genere e capace di attraversare una città rivisitata non da troppo tempo sotto l’ottica del malaffare (The Departed) mostrando la complessità del male che si insinua non nei grandi traffici ma davvero sotto lo zerbino della porta accanto. La stessa inflessione di Affleck nell’originale risulta un misto di determinazione e timidezza, offrendo al personaggio uno spessore insolito. Perché, se è vero che ancora una volta un romanzo di Lehane torna a scavare nell’intimo delle coscienze cercando di leggere il talvolta inestricabile groviglio tra torti e ragioni, a portarlo sullo schermo è un regista che sa scegliere gli attori. Lo si vede, al di là dei nomi citati, nell’interpretazione offerta da Amy Ryan nel ruolo della madre della bambina. Le sue dichiarazioni dinanzi alle telecamere dopo la sparizione della figlia mettono in luce, con una naturalezza difficile da raggiungere al cinema, la profonda povertà materiale e morale della donna mista alla sua ignoranza. In quel momento sembra di assistere a uno dei nostri telegiornali infarciti fino all’inverosimile di cronaca nera e dei suoi attori. Quelli, purtroppo, veri.
Ricchissimo e potente consulente finanziario (M. Douglas) a San Francisco riceve in regalo dal fratello (S. Penn), alla vigilia del suo 48° compleanno, la tessera d’iscrizione a un club che organizza giochi personalizzati per animare esistenze monotone. Si mette in contatto con il club e si trova a vivere un incubo, una vita a rischio continuo. Il “gioco” ( game ) è riuscito: suspense, intensità, mistero, sorprese, disavventure ansiogene, invenzioni di regia. Ma riuscito il film non lo è: c’è un eccesso di ingegnosità di intrigo che diventa stravaganza gratuita, senza contare la madornale sproporzione tra i mezzi e il fine. Il difetto, insomma, è nel manico, nella sceneggiatura di John Brancato e Michael Ferris. Tutto è truccato in questa metafora del cinema.
Rosemonde, una ventenne, ha ferito lo zio ma è stata prosciolta. Paul, un giornalista, deve scrivere per la tv una sceneggiatura su quel fatto di cronaca. Comincia con un amico a indagare e a fare domande alla ragazza.
Nel 1898 ai tempi della corsa all’oro, nello Yukon, un cowboy accompagnato da un amico conduce una mandria per gli affamati minatori, ma un prepotente vorrebbe fargli pagare un esoso pedaggio. Dopo alterne vicende il nostro eroe riuscirà vincitore e sposerà una ragazza del luogo.
A Dodge City nel 1873 il cowboy Lin McAdam vince in una gara di tiro un fucile Winchester, ultimo modello, che gli viene rubato dall’assassino di suo padre. Molte peripezie per riaverlo mentre la preziosa arma passa di mano in mano. Uno dei 3 western che Mann diresse nel 1950 e il 1° dei 5 con Stewart: anche grazie a lui il genere entra nella sua maturità. Di impeccabile costruzione narrativa, il film ha una forza suggestiva sul piano visivo e i suoi personaggi sono già ben approfonditi anche se non come nei western successivi. Da notare Rock Hudson (come pellerossa) e Tony Curtis in piccole parti. Rifatto per la TV nel 1967.
Glyn, un bandito pentito, guida una carovana dal Missouri all’Oregon. Salva la vita a McCole (Kennedy), che sta per essere impiccato. Insieme i due conducono la carovana salvandola dagli indiani. I coloni acquistano i viveri per l’inverno pagandoli in anticipo, ma al momento della consegna i prezzi sono decuplicati perché nella zona è scoppiata la febbre dell’oro. Glyn, aiutato da McCole, recupera le provviste, ma durante il viaggio quest’ultimo decide di renderle ai minatori ad un prezzo maggiore. Neutralizza Glyn e lo abbandona sui monti ferito. Ma questi insegue McCole e i suoi complici, li raggiunge e rimette le cose a posto. L’antico bandito è proprio diventato un eroe, premiato anche con l’amore. Il più significativo dei western che compongono la serie diretta da Mann e interpretata da Stewart (gli altri titoli sono Winchester ’73, Terra lontana, L’uomo di Laramie, Lo sperone nudo). Questi film rappresentavano un’evoluzione nei temi western, anche se la chiave morale era semplice e monolitica, e proponevano soluzioni anticipatrici, come il ricorso a una certa violenza dolorosa e reale, e all’uso degli esterni. James Stewart non era John Wayne, nemmeno fisicamente, le sue azioni erano più complesse, gli ostacoli meno prevedibili e l’eroismo non così manifesto, sempre che ci fosse. Stewart aveva più ironia e difetti di Wayne, dunque suggeriva maggiore identificazione. I suoi personaggi erano risolutori, ma solo alla fine, e con grande fatica. Nei primi anni Cinquanta, dunque nella più preziosa stagione del western ( Mezzogiorno di fuoco, Il cavaliere della valle solitaria, Il grande cielo, Rio Bravo, L’amante indiana), le storie di James Stewart e Anthony Mann emersero proponendo una via del west forte e nuova, di qualità popolare e di più profonde implicazioni. Cinema grandissimo.
Per risarcirsi di aver perduto quanto aveva di più caro, Owie Kemp (Stewart) dà la caccia a Ben Vandergroat (Ryan) sul quale pende una taglia di 5000 dollari. Lo cattura insieme alla sua ragazza Lina (Leigh) in una zona delle Montagne Rocciose, ma per scortarlo ad Abilene deve prendere con sé due infidi compagni, un cercatore d’oro (Mitchell) e un ufficiale disertore (Meeker). Durante il viaggio Ben gioca d’astuzia per seminare discordia tra i tre. 3° dei 5 western di J. Stewart con la regia di A. Mann e il 1° non scritto da Borden Chase, sostituito da S. Rolfe e H.J. Bloom. Il che purtroppo si sente, anche nel personaggio di Stewart, pur così sfaccettato nel suo impasto di dirittura morale e cinismo amaro. Il vilain R. Ryan gli ruba più di una volta la scena. La suggestione del paesaggio montagnoso, esplorato nei minimi anfratti dalla cinepresa di William Mellor; il rapporto tra personaggi e natura; l’insolita importanza drammatica del personaggio femminile; uno splendido duello finale ne fanno un western da non perdere. Girato nel Colorado. Nomination all’Oscar per la sceneggiatura.
Capitano americano si finge mercante e va in Messico per scoprire chi vende fucili agli Apaches. Il suo compito è duramente ostacolato dal figlio di un ricco proprietario. 5° e ultimo film di Mann con Stewart, scritto da Philip Yordan e Frank Burt che gli hanno dato una struttura da tragedia classica sulla fine di una potente e corrotta famiglia. Una dose di violenza maggiore del solito, dialoghi piccanti, un ottimo uso dei paesaggi del New Mexico. Il sapiente gioco dei conflitti psicologici in un mondo primitivo ha un’insolita attendibilità storica. 1° film in Cinemascope di Mann. Restaurato.
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