Dopo la capitolazione della Terra, oramai sotto il giogo degli invasori Umanoidi ( Illumidas), l’esiliato Harlock rinuncia alla lotta e decide di partire con il suo piccolo equipaggio alla ricerca di un posto migliore in cui vivere. Per la sua ricerca Harlock può contare sull’Arcadia, una gigantesca astronave da battaglia con un equipaggio di pirati, tra cui Tochiro, suo grande amico nonché progettista dell’astronave, il giovane Tadashi, una ragazzina, un dottore e infine Yuki, la figlia di un giornalista che cerca di fare una stampa libera contro la censura governativa. L’impero degli Umanoidi è costituito da creature apparentemente umane con tute attillate e caschi con visiera. La loro politica è piuttosto feroce e ottusa, essenzialmente basata sulla potenza delle armi e la sete di conquiste. Il nemico più inesorabile di Harlock è però un terrestre, un giovane e ambizioso ingegnere che nutre un odio particolare contro il pirata spaziale in quanto, qualche anno prima, una sua astronave venne collaudata dall’allora ufficiale Harlock, che la considerò poco sicura e questo sconfessò l’opera del progettista, che gli giurò vendetta.
Forse sulla scia del successo dell’americano The Day After, la televisione inglese produce la cronaca immaginaria del “dopo bomba” in Inghilterra. Con freddo stile documentaristico, il regista Mick Jackson racconta il dramma della popolazione di Sheffield investita da un’improvvisa deflagrazione atomica, mostrando sullo schermo scene di morte, sofferenza e devastazione con una cura accentuata per il dettaglio sensazionalistico. La critica dice che il film non lascia niente all’immaginazione: dai bozzetti familiari di vita quotidiana si passa alla impietosa rappresentazione della distruzione prospettando un futuro senza speranze per coloro che sono sopravvissuti alle radiazioni.
Nella Roma accaldata del 1999, invasa dai cantieri per il Giubileo del 2000, si sovrappongono gli itinerari tragicomici di uno scenografo pigro senza ambizioni (Sansone) e del suo grande mappamondo, della sua assistente (Nappo) in lotta continua con la suocera megera e di una ex attrice (Or) di teatro off, che, rimpatriata dopo molti anni, è spaesata e depressa. Con piazza Vittorio, nel quartiere Esquilino, come punto di partenza, è un viaggio attraverso una Roma inedita e teatrale all’insegna di una precarietà subita, ma anche accettata con una tranquillità non priva di irrequietezza.
Un regista e uno sceneggiatore lavorano alla scrittura di un film, ma la sceneggiatura viene cancellata per errore. In pochi giorni i due devono così riscriverne un’altra che tratta della diffusione di una terribile epidemia in Europa. Ma il virus comincia a propagarsi veramente, in un’alternanza di fiction e realtà.
Marta ha 13 anni ed è tornata a vivere alla periferia di Reggio Calabria (dove è nata) dopo aver trascorso 10 anni in Svizzera. Con lei ci sono la madre e la sorella maggiore che la sopporta a fatica. La ragazzina ha l’età giusta per accedere al sacramento della Cresima e inizia a frequentare il catechismo. Si ritrova così in una realtà ecclesiale contaminata dai modelli consumistici, attraversata da un’ignoranza pervasiva e guidata da un parroco più interessato alla politica e a fare carriera che alla fede.
Massimo è il delfino e il “figlio putativo” di Manfredi, celebre architetto della Torino bene. Francesca è la vera figlia del luminare, anche lei architetto di talento: ma con grande disappunto del padre la donna ha deciso di abbandonare la professione e trasferirsi in Francia con un marito che, secondo Manfredi, non vale un centesimo di quello che vale lei. Quando Francesca torna a Torino per fare visita al padre, Manfredi le affida l’incarico di portare a termine la ristrutturazione di una magnifica villa alle porte della città, affiancando Massimo nell’impresa. Il celebre architetto non sa (o forse sì) che fra Massimo e Francesca nascerà una forte attrazione, dovuta anche alle similitudini fra i due caratteri: entrambi introversi e timorosi di abbandonarsi alla vita e alle sue sorprese.
Usciti da poco di prigione, una coppia di giovani musicisti iraniani, Negar e Ashkan, decidono di formare una band. Setacciano il mondo underground della Teheran di oggi in cerca di altri musicisti. Siccome suonare in Iran è vietato, progettano di fuggire dalla loro esistenza clandestina e sognano di esibirsi in Europa, ma senza soldi e senza passaporti non sarà facile.
Una ragazza scopre che suo cognato, con altri membri del Ku Klux Klan, è uno degli autori di un omicidio, ma non lo denuncia. Gli uomini della setta la processano e la condannano ma la polizia arriva a salvarla. Uno dei 53 film dell’ex presidente USA e tra i migliori. Democratico, antirazzista, un po’ melodrammatico. Tra gli sceneggiatori c’è Richard Brooks. Bravi soprattutto G. Rogers e R. Reagan che dà il meglio di sé come affiliato del KKK.
Tom è un medico americano di successo, che passa la sua terza età tra lo studio dove lavora e il campo da golf, dove si distrae con i colleghi. Qui un giorno viene raggiunto dalla notizia che suo figlio Daniel, quarantenne, è rimasto ucciso da un temporale sui Pirenei. Giunto in Europa per recuperare le spoglie del figlio, Tom scopre che Daniel aveva intrapreso il Cammino di Santiago de Compostela, un sentiero di 800 chilometri tra Francia e Spagna che i pellegrini percorrono a piedi, tappa dopo tappa, mossi da motivazioni personali anche molto diverse fra loro. Con la scatola delle ceneri nello zaino, Tom decide di camminare al posto di Daniel e di portare a termine il suo viaggio. Lungo la via, l’incontro con tre inattesi compagni di strada lo strapperà alla solitudine e lo costringerà all’esperienza, perché “la vita non si sceglie, si vive”.
Tom è un oftalmologo e come tale si occupa dello specchio dell’anima, gli occhi. Ma ci sono cose che sfuggono all’evidenza e trovarne il senso, l’anima, richiede un percorso più lungo e faticoso, senza l’ausilio di macchine. Il film di Emilio Estevez, che vede protagonista assoluto suo padre Martin Sheen, sulla carta sembrava possedere l’evidenza del trattatello in laude del viaggio spirituale, per il quale restava solo da capire se il pragmatismo americano avrebbe spinto verso l’avventura scoutistica o se invece a primeggiare sarebbe stata la formula contemplativa, con o senza temutissima voice over filosofeggiante. Niente di tutto questo o, forse, questo è molto altro: il film in ogni caso va oltre le ipotesi pregiudiziali e ci offre tanto di più lavorando tuttavia di sottrazione. Pur essendo scritto dalla prima scena all’ultima (ed è una scrittura che si fa sentire, l’aspetto più fragile e rischioso dell’impresa), si respira ugualmente una freschezza da documentario, al punto che, come avviene solo per i film più coinvolgenti e appassionanti, si ha l’impressione che da qualche parte debba esistere un girato molto più esteso, sul quale il regista ha operato una spietata selezione. Merito della recitazione intensa e naturalissima di Martin Sheen, che fa rimpiangere il tempo trascorso dal suo ultimo ruolo di altrettanta importanza, ma soprattutto del voto di sobrietà a cui si è sottoposta la regia. Nessuna ricerca esasperata del metafisico, nel testo, e nessuna ricerca sognante o poetica nell’immagine: Estevez sta bene attento a non fare cartoline, nemmeno dei paesaggi più belli; la fotografia si direbbe quasi dimessa e corrisponde al punto di vista di chi sperimenta la fatica ben più della beatitudine estetica. Come il cammino per il protagonista, il film non fa miracoli e non nasconde le sue debolezze, ma è una visione che merita e commuove, anche grazie alla compagnia di un inglese di nome James Nesbitt, della canadese Deborah Kara Unger e di un pittoresco olandese (Yorik Van Wageningen).
Un film di John Cassavetes. Con Seymour Cassel, Ben Gazzara Titolo originale The Killing of a Chinese Bookie. Drammatico, durata 113′ min. – USA 1976. MYMONETRO Assassinio di un allibratore cinese valutazione media: 3,43 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Cosmo Vitelli, proprietario di un locale di spogliarelli in forte debito con una banda mafiosa, è costretto a commettere un omicidio nel torbido quartiere di Chinatown. È con Gloria (1980), uno dei due gangster movie di J. Cassavetes, regista che contraddice le regole del genere a 3 livelli: l’improvvisazione del linguaggio; la peculiare direzione degli attori (un ottimo B. Gazzara); i temi complementari che gli sono cari: la chiusura e la tirannia della famiglia, intesa anche in senso criminale. È il più involuto e originale dei due, insolito per il taglio della short story, lo stile sincopato, il frastuono del traffico che lo assilla da cima a fondo in una giostra di morte: un’intuizione straordinaria, la definizione acustica dell’inferno. In Italia distribuito in un’edizione colpevolmente ridotta a 85′.
A Norristown, in Pennsylvania, fra villette a schiera e campi di granturco, vive la famiglia Salmon. Susie, la primogenita, è un’adolescente qualunque, appassionata di fotografia e innamorata del compagno di scuola Ray Singh. Il 6 dicembre 1973, dopo aver avuto il suo primo incontro romantico con lui, Susie viene fermata sulla strada di casa dal vicino, il signor Harvey, tranquillo ometto di mezza età con la passione per le case di bambola. Dopo averla fatta entrare in un piccolo rifugio sotterraneo da lui stesso costruito, Harvey la violenta e la uccide brutalmente. Lo spirito di Susie si trova così a muoversi fra la terra e il cielo in una sorta di limbo fatto di ricordi e di fantasie, da dove può vedere e patire per quel che succede ai suoi cari e al suo omicida nel mondo mortale.
Nell’Inghilterra vittoriana un gentiluomo persuade la giovane moglie ad abitare nella vecchia casa dove fu assassinata sua zia e, con una diabolica strategia psicologica, la spinge sull’orlo della pazzia finché interviene un ispettore. Tratto dalla pièce Gaslight (1938 _ in italiano Via dell’angelo o Luce a gas) di Patrick Hamilton, già filmato nel 1939 da Thorold Dickinson, è un venerando melodramma psicologico, non privo di artifizi, che conta soprattutto come saggio di manipolazione psicologica e per la recitazione. La sapienza registica di Cukor fa il resto. 7 nomination e 2 Oscar per la Bergman e la scenografia.
Ritratto di un giocatore professionista di biliardo la cui smania di vincere a tutti i costi ne farà un perdente. Dal romanzo The Hustler (1958) di Walter Tevis, adattato dallo stesso regista. 4 interpretazioni eccellenti (tutte candidate agli Oscar come anche film, regia, sceneggiatura, ma vinsero soltanto il veterano Eugen Schüfftan per la fotografia e Harry Horner e Gene Callahan per la scenografia), costruzione narrativa compatta, dialoghi infallibili, il film è rimasto nella memoria degli spettatori soprattutto per la sagace descrizione del mondo americano del biliardo, come apologo sull’America amara e i suoi falsi miti: un’aria che quasi si respira. Newman riprese il personaggio di “Fast” Eddie Nelson in Il colore dei soldi di Scorsese.
È la storia di un’educazione sentimentale: Eddie non insegna a giocare al biliardo a Vincent, ma a mettere a frutto il suo talento, cioè a trasformarlo in denaro, con tutti i mezzi. Seguito, 25 anni dopo, di Lo spaccone (1961) di Robert Rossen. Prima parte splendida all’altezza di Fuori orario , ma poi il racconto si avvita un po’ su sé stesso. Con la sua adolescenziale arroganza da Bruce Lee della stecca, T. Cruise è perfetto ma, come eccitato dal confronto, P. Newman trova un’infallibile grinta. L’atmosferica fotografia di Michael Ballhouse (che ha avuto una nomination all’Oscar come Boris Leven scenografo) fa il resto. 1° Oscar per Newman. Sceneggiatura di Richard Price, basata su un altro romanzo di Walter Tevis che morì 8 giorni dopo la sua pubblicazione nel 1984.
Dal romanzo (1954) di Raymond Chandler: l’investigatore Philip Marlowe è sospettato di complicità nell’omicidio di una donna, uccisa dal marito. Il suicidio di quest’ultimo, che si dichiara unico responsabile del delitto, risolve la situazione, ma Marlowe è poco convinto: c’è puzza di bruciato. Marlowe n. 8 sullo schermo: Gould è assai diverso dal Cary Grant che Chandler vedeva come interprete ideale del suo detective, ma si muove come un pesce nell’acqua di questo film originale dove contano i personaggi più dell’intrigo. Sceneggiato dall’ottima Leigh Brackett (che aveva già collaborato a Il grande sonno di Hawks), il film si distacca risolutamente dal romanzo (soprattutto nella conclusione: “il più ‘morale’ dei colpi di pistola che siano stati sparati al cinema” – R. Escobar), ma è chandleriano nello spirito: quel che lo scrittore diceva in pagine di dolente amarezza, Altman lo esprime nei modi del grottesco e dell’umorismo. Piccoli ruoli per Arnold Schwarzenegger e David Carradine.
Vita misera, imprese criminali e morte di alcuni ragazzi in un quartiere povero di Città del Messico. 3° film messicano di Buñuel e quello che, presentato e premiato a Cannes nel 1951, rilanciò la sua fama in Europa. Fu definito dal suo autore “film di lotta sociale”. A questo crudele e malinconico “poema d’amore sulla mancanza d’amore” (M. Argentieri) il francese Jacques Prévert dedicò questi versi: “Los olvidados/ragazzi affettuosi e male amati/assassini adolescenti/assassinati…”. “Un’opera precisa come un meccanismo, allucinante come un sogno, implacabile come la marcia silenziosa della lava” (Octavio Paz). Fotografia di G. Figueroa.
Amici per la pelle, Arthur Rimbaud e Franz s’innamorano di Odile la cui zia tiene in casa tutti i suoi risparmi. Decidono di impadronirsene, ma il colpo va male: la vecchia muore e Franz e Odile s’imbarcano con i soldi per l’America del Sud. Tratto da Fool’s Gold di Dolores Hitchens, romanzo della Série Noire, il 7° lungometraggio di J.-L. Godard è un riuscito compendio della sua prima maniera: beffardo e malinconico, è un dramma risolto in cadenze di commedia burlesca, e un tipico esempio del disinvolto menefreghismo di moda tra i giovani francesi negli anni ’60. Simpatiche canaglie, cugini suburbani del Belmondo di À bout de souffle, i due amiconi danzano, mimano la morte di Billy the Kid, attraversano di corsa il Louvre in poco più di 7 minuti, impacciati quando delinquono e quando cercano di nascondere i loro veri sentimenti.
Una casa in riva a un lago. Le cognate Rakel, Karin, Annette e Marta stanno aspettando i reciproci mariti. Oltre a loro sono presenti anche Erik, figlio di Annette, e Mary giovane sorella di Marta. A un certo punto Annette comincia a parlare del proprio difficile rapporto con il coniuge e viene seguita dalle altre. Nessuna di loro ha trovato nel matrimonio la felicità. I due giovani ascoltano e a loro non resta che sperare, nonostante tutto, di saper costruire un futuro migliore. Bergman in questo film, uscito dai confini svedesi in ritardo rispetto alla sua realizzazione, sperimenta alcune soluzioni narrative che gli saranno utili nelle sue opere successive. Compare così la distribuzione dei ruoli principali tra quattro personaggi femminili (scelta questa che verrà condotta al suo vertice in Sussurri e grida). Decide poi di allargare la dimensione del racconto partendo da un monologo di Annette di impianto teatrale per poi aprirsi all’inserimento di flashback nei racconti successivi. Inverte quindi la classica progressione che vorrebbe si procedesse da una dimensione colloquiale distesa per poi progressivamente passare al dramma aprendo invece con il racconto più desolatamente doloroso per finire con la lieve accettazione di un universo coniugale in cui i reciproci tradimenti sono la regola. Quest’ultima vicenda avrà quello che oggi definiremmo quasi uno spin off in Una lezione d’amore. Sul piano tematico Bergman continua la sua analisi della vita di coppia mitigando il pessimismo di base con la possibilità di una soluzione diversa affidata ai due giovani Erik e Mary, lasciando però, ancora una volta, allo spettatore la libertà di decidere in merito.
Paese: Italia Anno: 1967 Genere: Sceneggiato TV – Storico Durata: 185 min. Regia: Daniele D’Anza
L’America è colpita al cuore. La sera del 14 aprile 1865 viene assassinato, nel palco di un teatro, uno dei più grandi presidenti: Abramo Lincoln. Il bellissimo sceneggiato di Daniele D’Anza racconta le ultime 24 ore dell’uomo che dal 1860 aveva guidato gli Stati Uniti durante il conflitto fraticida tra nordisti e sudisti schiavisti. Solo di fronte a un grande paese smarrito, che deve riappacificare, ricostruire ed accettare le ragioni di una civiltà, si trova accerchiato ai facinorosi tavoli post bellici, dove introduce il tredicesimo emendamento sull’emancipazione della schiavitù, mettendo fine ai quattro anni di guerra civile. Sospetti, denuncie, inchieste, articoli ma nulla di fatto e come sempre la verità resta nascosta nelle pieghe del tempo.
Mr. Magoo è un personaggio dei cartoni animati creato nel 1949 da John Hubley per la United Productions of America (UPA), uno studio di animazione nato da ex disegnatori della Disney in rotta con la famosa casa di produzione. In totale sono stati realizzati 53 cortometraggi tra il 1949 e il 1959
Quincy Magoo è un ricco pensionato, basso, calvo e molto miope. A causa della sua debole vista si trova continuamente nei guai, in genere senza rendersi assolutamente conto dei pericoli che corre e delle disavventure che gli capitano. Ha un nipote di nome Waldo e un cane di nome McBarker, Ciccio nel doppiaggio italiano. Mr. Magoo rappresenta una satira dell’epoca della “Caccia alle streghe” americana, il periodo in cui il timore del comunismo negli USA portò ad eccessi repressivi. Egli simboleggia l’uomo miope che non vede oltre il proprio naso. Caratterialmente è un personaggio divertente, abbastanza ingenuo e, per colpa della sua miopia, un inconsapevole combinaguai che (ovviamente aiutato dalla fortuna) esce puntualmente incolume dalle situazioni più terribili.
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