Nel 2000 Lars chiede al suo vecchio amico Jørgen di girare 5 rifacimenti di Det perfekte menneske ( L’uomo perfetto , 1967), un corto sperimentale di 12 minuti, assegnandogli ogni volta compiti precisi e regole da seguire. Nell’ordine gli impone di girare a Cuba e Bombay, di filmarlo con la tecnica dell’animazione, di ambientarlo in un hotel di Bruxelles e di rinunciare a ogni regola. Per 3 anni J. Leth incontra L. von Trier 5 volte, sottoponendosi alle critiche del suo collega che gli somministra premi o punizioni in un tipico rapporto sadomasochistico. O terapeutico? In questo caso “non è chiaro chi dei due sia davvero il paziente e chi l’analista, chi la cavia e chi lo sperimentatore.” (A. Morsiani). Alla fine, nonostante tutto, i due rimangono amici. O era tutta una finzione, un giuoco? Film unico, nato da un progetto inedito, che può irritare o affascinare per le stesse ragioni. Difficile una via di mezzo: prendere o lasciare.
“Più ti avvicini alla morte e più senti di essere vivo”. Questo è in sintesi il pensiero che animò Simon Yates e Joe Simpson quando, durante una scalata sul Siula Grande nelle Ande peruviane nel 1985, si trovarono a vivere un’avventura al limite della sopravvivenza: Joe scivola e cade restando appeso nel vuoto alla corda di sicurezza retta da Simon, che, giunto allo stremo della resistenza, taglia la corda e ritorna al campo base. Verrà poi raggiunto da Joe che non solo sopravviverà, ma scriverà il libro dal quale è tratto il film. Può interessare anche ai non amanti dell’alpinismo: ben narrato, riesce a essere verosimile grazie ai 2 interpreti principali, veri scalatori, e alle riprese mozzafiato. Fotografato con perizia e montato con brio senza facili concessioni allo spettacolo, è un ammirevole film di montagna, omaggio non retorico alla forza di volontà e di sacrificio dell’alpinismo moderno.
Questo notevole documentario analizza la realizzazione di The Great Dictator (Il dittatore) di Charles Chaplin, evidenziandone l’eccezionale valenza storica. I paralleli tra le carriere di Chaplin e di Hitler hanno del prodigioso. Nati entrambi nella stessa settimana dello stesso mese dello stesso anno, furono entrambi segnati da un’infanzia durissima. Chaplin divenne il più grande comico della storia e, per un certo periodo, l’uomo più amato del mondo. Hitler divenne capo della Germania e, per sempre, l’uomo più odiato della storia. Entrambi scelsero di portare ridicoli baffetti, veri in un caso, falsi nell’altro. Il regime di Hitler incluse nei suoi provvedimenti antisemiti anche la messa al bando dei film di Chaplin, che pure non era ebreo.The Great Dictator, iniziato nel1938 ed uscito nel 1940, fu il primo film parlato di Chaplin, che lo girò malgrado la forte opposizione incontrata a Hollywood sia da parte dei simpatizzanti dell’antisemitismo e del nazismo sia da parte dei produttori ebrei, i quali temevano che il film avrebbe reso ancor più difficile la vita degli ebrei in Germania. Chaplin dichiarò in seguito che, se avesse saputo tutta la verità su Hitler, non avrebbe potuto scherzarci su. Per fortuna lo fece, ed il film fu accolto favorevolmente soprattutto in Inghilterra, che in quel periodo stava subendo le incursioni degli aerei di Hitler. In altri paesi europei, tra cui la neutrale Irlanda, fu invece vietato. Il documentario cita, peraltro, un’unica proiezione tenutasi in un cinema di Belgrado nel 1942, quando un temerario ragazzo jugoslavo lo sostituì alla pellicola di propaganda che era stata programmata per un pubblico composto di soldati tedeschi. Non si sa con certezza se Hitler abbia mai visto il film: i leader nazisti erano grandi appassionati di cinema ed avevano i mezzi per far arrivare di nascosto in Germania gli ultimi successi hollywoodiani ed inglesi.Per Chaplin, The Great Dictator parve segnare l’inizio dell’impopolarità – riconducibile sia alle sue tendenze liberal sia alla sua vita privata – che lo portò poi ad abbandonare gli Stati Uniti. Oggi The Great Dictator rimane un film memorabile perché, come dice Kevin Brownlow, “in un tempo in cui la follia e le tenebre oscuravano il mondo, diede forza a milioni di persone con la potenza della risata”.La realizzazione di The Tramp and the Dictator è stata stimolata dal ritrovamento di un Kodachrome 16mm girato da Syd Chaplin, fratello maggiore di Charlie, durante le riprese di The Great Dictator. La valigia in cui era conservato, insieme con film di viaggio dello stesso Syd, venne consegnata, alla morte della sua vedova, ai figli di Charles Chaplin e rimase a lungo chiusa nei cellari di casa Chaplin a Vevey, in Svizzera, finché, un giorno, il film non venne disimballato e proiettato da Christopher e Victoria Chaplin. Furono essi che per primi rivelarono l’esistenza di questo prezioso documento in occasione della presentazione alla stampa, a Parigi, del libro di Christian Delage, Chaplin, la grande histoire (1998).Kevin Brownlow intreccia il Kodachrome con materiali documentaristici sul Terzo Reich frutto delle ricerche di Michael Kloft, uno specialista in documentari sulla seconda guerra mondiale, che stava lavorando a Das Dritte Reich – in Farbe (Il Terzo Reich a colori) quando, ad una proiezione speciale a Berlino, vide il materiale girato da Syd. Negli Stati Uniti Brownlow ed il produttore Patrick Stanbury hanno intervistato persone che ancora ricordano la lavorazione del film come il figlio di Chaplin, Sydney e sua cugina Betty Tetrick, o il grande caricaturista Al Hirschfeld, che curò la pubblicità del film; ed anche Sidney Lumet, che era un adolescente quando, nel 1940, assistette alla prima newyorkese. Tra gli altri intervistati, Reinhard Spitzy, membro dell’entourage di Hitler. Altri rari materiali sono stati forniti anche da Andreas-Michael Velten, autore del documentario Der Clown und der Diktator realizzato nel 1989 per una mostra che ricordava il centenario di entrambi i personaggi.The Tramp and the Dictator esiste in tre versioni: l’originale della Turner; la versione della Spiegel Television, che privilegia il ritratto di Chaplin e di Hitler piuttosto che la lavorazione del film; e un adattamento italiano ancora in fase di preparazione. Le Giornate presenteranno la versione della Turner. – DR
La storia di Joe Strummer narrata da amici, parenti e colleghi – raccolti intorno a un falò – e ripresa dall’obiettivo di Julien Temple. Il futuro non è scritto celebra il ricordo di uno dei maggiori esponenti del punk attraverso video domestici, materiali d’archivio, fotografie, vignette (realizzate dallo stesso Strummer), spezzoni di film, interviste d’epoca e testimonianze di artisti che lo hanno conosciuto o ne sono stati ispirati – Bono Vox, Martin Scorsese, Johnny Depp, Steve Buscemi, John Cusack, Jim Jarmusch, Flea e Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers fra gli altri. Il documentario di Temple ripercorre la vita del “guerrigliero” partendo dalla sua infanzia, passando dagli anni formativi (la scuola d’arte, le prime band), al successo mondiale dei Clash e il successivo allontanamento dalle scene di Strummer dopo la separazione dai suoi compagni, alle prove da solista e da attore fino al ritorno sotto i riflettori con i Mescaleros. Il futuro non è scritto è una sorta di mosaico, un collage a più voci tenuto insieme da quel fuoco che generarono i Clash sullo sfondo sociale e politico dell’epoca – le occupazioni londinesi, la nascita della rivoluzione punk, le guerre in Vietnam e in Iraq – che offre uno spaccato reale e realistico di quegli anni pieni di contraddizioni. È anche un’opera ricca di aneddoti che aiutano a capire l’ascesa e la caduta di una band che ha fatto storia e la frustrazione dei componenti, in primis dello stesso leader, costretto a ripartire da zero per ricercare quella felicità che appariva come un miraggio. La voce di Strummer si unisce al coro dei partecipanti dando l’impressione di essere ancora fra noi e lancia un messaggio universale: “Nella vita, devi essere capace di prenderti quello che vuoi, perché nessuno te lo regalerà mai”.
Come un archeologo che ricostruisca un’ipotesi di vita organica a partire dalle tracce fossili, il regista indaga la pioggia seguendone le impronte evanescenti, la evoca nel frullare del fogliame, nel movimento di una finestra che sbatte, nell’ingrossarsi dei tendaggi, la intuisce nelle onde circolari che si allargano sui canali, nel gesto di un passante sorpreso dalle prime gocce, nella rapida schiusa degli ombrelli, nell’affrettarsi dei carrettieri, nelle tracce fangose degli pneumatici. Non è l’evento in sé a suscitare interesse, piuttosto il tessuto di relazioni in cui è implicato; non è sulla pioggia che si concentra la partecipazione dello sguardo cinematografico, ma sulla sua espressione figurativa, che è, per natura, variegata, mutevole.tarista Ivens.
Chi ha conosciuto la vicenda della fotografa Vivian Maier, non potrà fare a meno di notare sorprendenti analogie con la materia narrativa di In the Realms of the Unreal (realizzato qualche hanno prima di quello sulla Maier) in cui si racconta la storia vera di Henry Darger – solitario custode d’ospedale di Chicago -rivelazione postuma di un eccentrico genio artistico, nascosto al mondo per una vita intera. Alla sua morte, nel 1972, il suo padrone di casa fece una scoperta sorprendente: un colossale e oscuro manoscritto fantasy composto di 15.143 pagine, corredato da più di 300 illustrazioni strane e affascinanti, tra collage, disegni e dipinti ad acquarello. Piuttosto che intervistare esperti d’arte e psicologi, e in mancanza di altri materiali visivi d’archivio disponibili su Darger (del quale esistono solo quattro fotografie note), la regista sceglie di osservare la sua opera dal punto di vista di coloro che lo hanno conosciuto e di raccontare il mondo epico e allucinato del suo romanzo attraverso alcune sequenze in animazione, realizzate a partire dai disegni originali del suo autore.
Collocato nell’arco di quattro giorni, il film presenta una struttura binaria, in cui l’interesse dell’etnologo e del sociologo si intreccia con un approssimativo canovaccio narrativo.
The Human Pyramid (French: La Pyramide humaine) is an 1961 Ivoriandocufiction film directed by Jean Rouch.[1][2] Rouch forced black African and white French students to improvise interactions with each other at an integrated high school in Abidjan.
La prima classe al Liceo di Abidjan. Due file di banchi. Da una parte gli africani; dall’altra gli europei. Non c’è molto razzismo ad Abidjan. Soltanto ignoranza. Usciti dalla classe i due gruppi continuano la loro vita, una vita separata. Per i Bianchi c’è la “banda”. Vanno in piscina, si ritrovano al caffè, come i liceali e gli studenti di tutto il mondo. I Neri, invece, vivono a Treichville, nel luogo della loro infanzia. Nadine è appena arrivata da Parigi. Non riesce a capire quest’ignoranza. Ne parla alla “banda”. JeanClaude e Alain sono d’accordo con lei. Perché non mescolarsi con i compagni Neri?
Un film di James Marsh. Con Ian Holm, Jo Vukelich, Jeffrey Golden, Marilyn White, John Schneider (II) Drammatico, durata 76 min. – Gran Bretagna, USA 1999.
Straordinario documentario che testimonia dei disastri accaduti in una cittadina del Wisconsin durante l’ultimo decennio del Diciannovesimo secolo. Il film si ispira al libro omonimo di Michael Lesy, pubblicato nel 1973, in cui sono state messe a confronto le fotografie in bianco e nero custodite nell’archivio della cittadina di Black River Falls, risalenti al 1890, con le foto e gli articoli pubblicati sui giornali dello stesso periodo. Il risultato è sorprendente. La cittadina di Black River Falls sembrava posseduta da una strana epidemia e i giornali riportavano bizzarre storie di follia, eccentricità e violenza tra i cittadini. Suicidi e assassini divennero quotidiani, la gente era come posseduta dai fantasmi e dalle forze del male. Il film è interamente costruito a partire dalle dichiarazioni dei giornali dell’epoca e dalle registrazioni effettuate nel vicino manicomio.
Quello di Victoria è il più esteso lago tropicale del mondo (68 800 kmq), compreso tra Uganda, Kenya e Tanzania. Nel 1962, “per fare un esperimento”, vi fu introdotto qualche pesce persico del Nilo. Nel giro di venti anni il vorace predatore provocò l’estinzione di quasi tutta la fauna ittica, assunse dimensioni da squalo cannibale e trasformò l’ecosistema della regione, l’assetto sociale e le abitudini alimentari degli indigeni. Nacque un’industria che esporta i filetti di pesce persico in mezzo mondo. Quasi ogni giorno all’aeroporto di Mwanza (Tanzania) atterra un cargo russo Antonov che riparte con un carico di cinquanta tonnellate di pesce. Non è, però, un documentario ittico quello che Sauper, tirolese giramondo con casa a Parigi, ha girato tra molte difficoltà, tangenti da pagare e rischi con una piccola telecamera e un aiutoregista. Altrimenti non avrebbe vinto, dopo 3 anni di lavoro, 16 premi (uno a Venezia 2004 nelle Giornate degli Autori) e una nomina all’Oscar 2005. Il pesce persico diventa una metafora del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale. Gli aerei non arrivano vuoti a Mwanza, come i razzisti, panciuti piloti ucraini dicono: trasportano kalashnikov, napalm e munizioni per rifornire le guerre civili che dagli anni ’80 devastano il cuore (di tenebra) dell’Africa. Diseguale, sconnesso, impressionistico nella prima ora, sull’orlo del miserabilismo, diventa poi uno sconvolgente rapporto con crude immagini: sterminate distese del pesce scartato che i poveri indigeni friggono e mangiano; ragazze che campano prostituendosi per pochi dollari agli alieni della civiltà occidentale; bambini che sniffano colla; ragazzini che a nuoto spingono i pesci nelle reti; il guardiano che spera nell’arrivo di una guerra di cui profitterebbero in molti.
Pietro è un animatore di gruppi di bambini. Ebe è sindacalista. Gianni fa parte di una cooperativa di pesca. Pasquale aiuta i ragazzi che sono stati in carcere nel reinserimento. Vincenzo fa parte di un’organizzazione non governativa per la cooperazione con il Terzo Mondo. Vivono o hanno vissuto a Torino e questo sembra, all’apparenza, l’unico dato che li accomuna. Ma nell’autunno del 1980 avevano tutti condiviso, come operai Fiat, uno dei momenti più importanti nella vita della società italiana. Per 35 giorni la Fiat non aveva funzionato a causa di uno sciopero causato da una raffica di licenziamenti. Allo sciopero si contrappose la marcia dei 40.000 che volevano invece ritornare al più presto al lavoro. Guido Chiesa ripercorre quei giorni attraverso la memoria e la vita di persone molto diverse tra loro. Chiesa con questo documentario ha realizzato un’opera sicuramente più ‘vera’ e sentita de Il partigiano Johnny
Filmati d’archivio, foto di scena e un’inedita intervista per un documentario di circa sessanta minuti su uno dei film più contestati, amati e discussi del secolo scorso. C’è un solo termine – macabro – per definire Salò o le 120 giornate di Sodoma, terminato nel 1975 e ancora in fase di montaggio quando Pasolini fu assassinato all’Idroscalo. Ispirato al romanzo di Sade e ambientato nella cittadina protagonista dell’ultimo scampolo di guerra mondiale, la Salò di Pasolini è un mondo devastato dall’omologazione culturale, dai soprusi anarchici del potere, un ritratto cinico di partigiani inermi e giovani illibate costrette a ogni sorta di barbarie dai loro aguzzini. L’intervista raccolta da Giuseppe Bertolucci integra le tematiche del film unendole al pensiero del suo autore, rassegnato e spento. Uno sguardo al di là della cinepresa verso un mondo confuso dalle ideologie e distrutto dalla speranza, meccanismo perverso per nascondere il peso insopportabile della realtà, tramutando il sentire comune in un’attesa estenuante e senza vie d’uscita. Pasolini parla a ruota libera del suo film, del concetto d’autore, della fiducia demagogica riposta nella fede, in un ideale ecclesiastico trasformatosi improvvisamente – e in maniera impercettibile – in un bazar del libero consumo. La fine delle ideologie (che avrebbero dovuto portare alla trilogia Porno Teo Kolossal, scritta per l’interpretazione di Ninetto Davoli ed Eduardo De Filippo) o la loro trasformazione, diventano il terreno di guerra su cui scontrarsi. Un sentiero che Pasolini riassume nelle ultime scene del suo film: il rappresentante del potere – essere sadico e impunito – guarda attraverso la sua finestra, binocolo alla mano, le torture inflitte ai corpi delle giovani vittime. Uno specchio della nostra società filtrato dall’espressione artistica di un intellettuale punito dal suo stesso (pre)vedere.
Scorribanda attraverso la storia del glorioso istituto Luce, nato nel 1924, e testimone di tutti i fatti italiani fino alla fine della guerra (dove si ferma il film) e oltre. Presentato alla mostra di Venezia nella sezione Immagini fra cronaca e storia. Il regista e lo sceneggiatore Ernesto G. Laura non portano niente di nuovo. La loro tesi è che le immagini portano comunque una verità affrancata da regimi e condizionamenti. Ma non è una tesi nuova.
Where Does a Body End? is a 2019 Canadian documentary film directed by Marco Porsia about the American experimental rock band Swans.[1][2][3] The film had its premiere on May 3, 2019, at the IndieLisboa Film Festival in Portugal.[4][5] The film was released worldwide on September 11, 2020.
The worldview of Michael Gira, through his life as a globetrotter and his four decades leading Swans, a group that he founded in the noisy and iconoclastic New York underground of the early ’80s and that keeps reinventing itself today.
Un gruppo di giovani cineasti guidati dal pioniere della cinematografia subacquea Francesco Alliata fonda una casa di produzione denominata Panaria Film. Il loro punto di riferimento sono le Eolie e presentano a Roberto Rossellini le riprese effettuate e delle idee per un film possibile. Rossellini all’epoca vive una storia d’amore con la passionale Anna Magnani. Un giorno però legge la lettera di un’attrice svedese ormai famosa ad Hollywood: Ingrid Bergman. Costei si dichiara disponibile a lavorare con lui. Il loro legame diverrà ben presto qualcosa che va oltre la professione. Rossellini si approprierà delle idee degli uomini della Panaria Film e girerà con lei Stromboli. La Magnani non starà però con le mani in mano e, con la regia di William Dieterle, girerà, sempre alle Eolie, Vulcano. Tenendo come base il libro di Anile e Giannice dal titolo omonimo, Francesco Patierno ha realizzato un interessantissimo documentario che permetterà a chi all’epoca c’era di ripercorrere una vicenda che tenne in agitazione le cronache di mezzo mondo. Chi è venuto dopo avrà modo di venire a conoscenza di una commistione quasi irripetibile di realtà e immaginario. Grazie infatti a un amplissimo materiale di repertorio viene offerta una lettura delle vicende (che furono davvero senza esclusione di colpi) che va al di là del documentario di ricostruzione di un’epoca. Patierno riesce a far ‘parlare’ sequenze dei film delle tre dramatis personae facendoli diventare parte integrante della storia. Il cinema, con il suo carico di finzione, diventa più vero del vero grazie ad un’osmosi che si rivela al contempo efficace ed appassionante.
Nata il 1° gennaio 1923 a Milano, Valentina Cortese è una delle pochissime star nostrane ad essere approdata a Hollywood e ad aver conosciuto splendori e stravaganze dello studio system. Lo ha fatto con successo, alla fine degli anni Quaranta, in fuga da una realtà che le stava troppo stretta, sposando nel ’51 l’attore Richard Baseheart, per poi tornare in Italia e, grazie al sodalizio con Giorgio Strehler, diventare anche un’icona del teatro (ambito «dove tutto è possibile»). Diva! di Francesco Patierno (Pater familias, Il mattino ha l’oro in bocca, La gente che sta bene) è un documentario dall’approccio anticonvenzionale, non celebrativo ma intimo, dall’andamento non cronologico, che tiene miracolosamente insieme cinefilia e re-enacting, ricreazione drammatica.
Un film di Folco Quilici. Con Denis Puhira, Al KauweDocumentario, durata 95 min. – Italia 1962. MYMONETRO Ti-Koyo e il suo pescecane valutazione media: 3,67 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un bambino trascorre le sue ore in compagnia di un piccolo pescecane. Dopo alcuni anni, diventati ambedue grandi, si ritrovano e si dedicano al recupero di ostriche nella laguna. Dovranno smettere per colpa di alcuni avidi pescatori.
Un film di Eyal Sivan. Titolo originale Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne. Documentario, durata 128 min. – Francia, Germania, Belgio, Israele, Austria 1999.
Montaggio di 2 delle 350 ore del processo ad Adolf Eichmann facendo riferimento al libro di Hannah Arendt La banalità del male. Uno dei più determinati criminali di guerra appare come un essere mediocre, che ha ‘eseguito il proprio lavoro’ con metodica e burocratica applicazione.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.