James Moll e Steven Spielberg realizzano questo documentario per la “Survivors of the Shoah Visual History Foundation”. La fiction è bandita eppure questo film, che ha come protagonisti cinque ebrei ungheresi sopravvissuti alla Shoah che ripercorrono la storia di vicende che loro stessi hanno in qualche misura rimosso, colpisce dritto al cuore e al cervello. Dimostrando che documentario non significa necessariamente “noia”. Da vedere prima di “rivedere” i libri di storia.
Regia di Wang Bing, Titolo originale: Feng Ai, Hong Kong, Francia, Giappone, , Genere: Documentario, durata 220′
50 uomini vivono per 12 mesi all’interno di un manicomio isolato, passando le loro giornate in un unico piano e avendo pochi contatti con l’equipe medica. Ognuno degli internati si trova lì non per problemi di salute mentale ma per aver ucciso qualcuno o commesso qualche reato contro i funzionari pubblici.
Girato nel Sahara meridionale, in Kenya, in Tanzania, nei paesi che si affacciano sul golfo di Guinea e nelle Canarie, è diviso in tre parti (La creazione, Il paradiso, L’età dell’oro), commentate da testi in voce off attinti da una leggenda degli indios guatemaltechi o scritti dal regista. Difficile definirlo: documentario surrealista? Film allucinato tra il documentario etnologico e il cinema underground informale? Paesaggio in trance, come lo definisce Herzog qui al suo 2° lungometraggio? Tentativo di filmare l’infilmabile, qualcosa che è al di là della realtà, delle sue bellezze e dei suoi orrori? Riflessione apocalittica sulla fine di una civiltà? Nella 2ª parte gli innesti umani sono elementi spuri che abbassano la tensione visionaria.
Parigi, anni ’20. Prendendoci per mano con la sua macchina da presa, André Sauvage ci fa conoscere la poesia di Parigi attraverso monumenti, insegne, pubblicità, vetrine di negozi, persone, dettagli di volti, corpi ed emozioni. Un poeta che, attraverso il suo sguardo visionario, ci fa dono del ritratto della sua città e della possibilità di saggiarne ed immaginarne il fermento negli anni folli che ne hanno suggellato la bellezza.
Intercalando film hollywoodiani trionfalmente mainstream (Philadelphia, The Manchurian Candidate) con produzioni ‘minori’ e impegnate su alcune specifiche cause (la lotta contro l’apartheid, la promozione della cultura haitiana, la denuncia delle condizioni di vita nei quartieri afroamericani), il cinema di Jonathan Demme si vuole politico. Enzo Avitabile Music Life ribadisce questa volontà politica. Muovendo dalla poetica musicale dell’artista napoletano, il documentario di Demme traduce in immagini il suo desiderio in musica di salvare il mondo. Complice una trasmissione radiofonica, che riversava le note di Avitabile nell’auto di Demme in corsa sul George Washington Bridge, i due artisti si ‘incontrano’ e producono insieme ottanta minuti di note e fotogrammi. In perfetta comunione con la sensibilità di Demme, le partiture di Avitabile, sempre aperte alla contaminazione e alla differenza, esibiscono una solidarietà per gli oppressi e un’empatia per i margini. Il documentario, alla maniera del disco “Salvamm’o munno”, armonizza la tradizione arcaica contadina della Campania con il suono antico dei Bottari di Portico fino a comprendere stili musicali contemporanei, fino a battere la strada della World music, fino a tuffarsi nel Mediterraneo e nei suoi vivi orizzonti. Italia, Africa, Medio Oriente, la produzione di Avitabile, mane e mane con i Sud del mondo, ospita artisti straordinari, depositari di una precisa identità culturale e di una tradizione artistica millenaria. Tradizione intonata dalla voce ‘vesuviana’ di Zi’ Giannino Del Sorbo e colorata dalla polifonia delle launeddas di Luigi Lai. Una partitura collettiva che canta gli oppressi nelle lingue del Sud e dentro una straordinaria evidenza sonora. Inteso a recuperare il patrimonio musicale partenopeo e a rivelarne la piena bellezza, Avitabile attraversa Napoli e i luoghi della sua musica, chiese, accademie, conservatori, liberando sulla strada la Tradizione sigillata. Il suono del suo sassofono risale la cantina dell’infanzia (e dell’applicazione) nel quartiere di Marianella rompendo la linearità del racconto e insinuando la vita familiare e amicale di Enzo. Dentro le immagini di Demme, che tradiscono un’aria di sopralluogo e di scoperta, Avitabile mescola i suoni laici con la solennità liturgica, l’anima sinfonica col cuore cameristico, risvegliando il grido popolare.
Giuseppe Tornatore ha collaborato col Maestro – definizione per una volta appropriata – in un arco temporale che va da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), frequentandolo per circa trent’anni. Nel 2018 ha scritto “Ennio. Un maestro” (Harper Collins), intervista fluviale e conversazione franca, a trecentosessanta gradi: in Ennio ne riprende argomenti, andamento cronologico e tono disteso, modesto, autocritico con cui Morricone si era concesso alle sue domande. Attorno a lui, nel film, una schiera di musicisti, registi, colleghi ed esperti portano testimonianze rilevanti e inerenti una carriera straordinaria, che supera il concetto di prolifico: centinaia le opere firmate, da Il federale (1961) all’unico Oscar vinto per una colonna sonora, The Hateful Eight nel 2016, a 87 anni.
“Lei” non è una donna. Non è Juliette Manson (Vlady) che si prostituisce a ore per integrare il bilancio domestico, ma la sua città, la regione parigina, l’intera società dei consumi che l’ha ridotta a oggetto. “Lei” è la vita di oggi (nel ’67, nell’87, nel 2007), la legge terribile dei grandi agglomerati urbani, la guerra del Vietnam, la morte della bellezza, la circolazione delle idee, la Gestapo delle strutture (da un “prossimamente” del film). Uno dei più agri film di Godard dove “il paesaggio diviene il vero volto delle cose” (U. Casiraghi). Memorabile la sequenza della tazzina di caffè.
Dalla città di Łódź è un film cortometraggio documentario polacco girato nel 1968 da Krzysztof Kieślowski.
Con questo film, finanziato dalla scuola, dalla WFD e supervisionato da Kazimierz Karabasz, Kieslowski consegue il diploma ed entra ufficialmente nel mondo lavorativo del cinema. Il film è tutto ambientato a Lodz ed è una bellissima panoramica su questa misteriosa e affascinante città che il regista ha vissuto intensamente negli anni dei suoi studi. Kieslowski ci parla di una città dalle caratteristiche crudeli e insolite, una città cadente e pittoresca, dagli edifici fatiscenti e dagli abitanti strambi o mutilati. Lo stesso regista racconta di macabri giochi che era solito fare con i suoi compagni di corso: nel percorso che compivano ogni mattina per andare a scuola si imbattevano spesso in persone mutilate, a ognuna delle quali corrispondeva un certo punteggio calcolato sulla base del tipo di mutilazione. Chi otteneva il punteggio più alto era il vincitore del giorno. Un gioco inquietante, ma forse necessario a sdrammatizzare e a mantenere un certo distacco da un mondo che Kieslowski non aveva mai conosciuto e che su di lui ha avuto sicuramente un forte impatto.
l portiere notturno di una fabbrica è un fanatico sostenitore della disciplina e della repressione, sia sul lavoro che sulla vita privata, e nel tempo libero fa il guardiapesca.
Hotel Mira di Hong Kong (Cina): rintanato in una delle stanze c’è il contractor della NSA (National Security Agency) Edward Snowden le cui rivelazioni di lì a poco rimbalzeranno tra i media planetari. È il giugno 2013, Snowden ha 29 anni e una consapevolezza impressionante della gravità delle informazioni di cui è in possesso. L’incontro con la macchina da presa della regista Laura Poitras, alla presenza dei giornalisti Glenn Greenwald e Ewen McAskill, dura otto pericolosissimi giorni. Citizenfour è l’alias con cui Snowden – tramite messaggi criptati ha contattato Greenwald e la Poitras (a gennaio dello stesso anno), dopo aver identificato lei come persona interessata ai fatti e averne verificato l’affidabilità (da una delle prime didascalie apprendiamo che Citizenfour è la terza parte di una trilogia sugli Stati Uniti post 11 settembre, dopo My country my country del 2006 sulla guerra in Iraq e The Oath, 2010, su due personaggi le cui storie si intrecciano con Al-Qaeda e Guantanamo). In parallelo all’intervista “posata” in albergo, emergono alcune testimonianze ed episodi salienti sul tema dei big data e metadata: esponenti dell’agenzia per la sicurezza nazionale che negano di raccogliere dati personali di privati cittadini, con la complicità delle grandi compagnie di telecomunicazioni e, con grande sconcerto, l’adesione a tali politiche anche da parte di alcuni governi europei. Oltre a Snowden parla William Binney, suo precursore alla NSA nello “spifferare” (traduzione possibile di whistleblowing) la policy totalitaria dell’agenzia già nel 2006. E anche un rappresentante del movimento Occupy Wall Street, che illustra i concetti di linkability, avvertendo sulla pericolosità del controllo dei dati incrociati, veicolati e registrati dalle tecnologie di cui ci serviamo. Vera merce di scambio e oro dei giorni nostri. La straordinaria decisione senza ritorno di Snowden di venire allo scoperto al punto di rischiare la vita è reazione diretta, ma tutt’altro che precipitosa, alla delusione per le promesse disattese della politica obamiana. Oltre al danno, anche la beffa: una normativa anti Grande Fratello esisterebbe, ma non viene applicata, adducendo a scusa l’altrettanto grande alibi della sicurezza post 9/11 (cavallo di battaglia, tralaltro, della precedente presidenza).nsomma, pur essendo la preda, non chiede protezione ma esposizione.
Nella notte tra il 14 e il 15/11/1959 due giovani in libertà vigilata entrano in una casa isolata di Holcomb (270 abitanti, Kansas) a scopo di furto e fanno strage della famiglia Clutter (padre, madre, due figli). Il 30 dicembre sono arrestati. Rei confessi al processo, sono giustiziati il 14/4/1965. L’anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo-documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti. 4 candidature agli Oscar: sceneggiatura, regia, fotografia (Conrad Hall), musica (Quincy Jones). Nel 1996 ne fu fatta una versione TV, regia di Jonathan Kaplan.
Sono almeno 4 i dati di fatto che dovrebbero suscitare meraviglia e ammirazione: 1) dopo una carriera iniziata mezzo secolo fa 2 registi 80enni hanno fatto uno dei loro film migliori e il più originale; 2) vent’anni dopo La casa del sorriso (1991) di Marco Ferreri, un film italiano ha vinto il 1° premio (e quello della Giuria Ecumenica) al Festival di Berlino; 3) nell’art. 27 della Costituzione si legge: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e il film è in linea su questo tema; 4) il film dei Taviani dura solo 76 minuti. Nel carcere romano di Rebibbia, sezione di Alta Sicurezza, grazie al regista Fabio Cavalli si fa del teatro da anni. La proposta di mettere in scena Giulio Cesare di Shakespeare è dei 2 registi. Intendevano confrontare la condizione esistenziale dei carcerati (tra cui alcuni ergastolani) con le emozioni del testo più politico del drammaturgo inglese: l’amicizia e il tradimento, il parricidio e la congiura, il prezzo del potere e quello della verità. Ci sono riusciti con una intensità straordinaria pari al rifiuto di ogni risvolto didattico o ideologico. Il film comincia con la fine dello spettacolo tra gli applausi del pubblico borghese esterno e finisce con i carcerati che, uno a uno, rientrano nelle celle. Uno di loro dice, guardando la cinepresa: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Sembra una smentita al tema della rieducazione, ma non lo è. È uno dei segni dell’antiretorica che permea il film. Molti dei carcerati riacquisteranno un giorno la libertà, ma non saranno più le stesse persone. Forse saranno migliori anche grazie all’arte. 5 David di Donatello: film, regia, montaggio (Roberto Perpignani), produttore (Grazia Volpi), fonico in presa diretta (Benito Alchimede, Brando Mosca).
Burden of Dreams è un documentario del 1982 diretto da Les Blank, uscito nelle sale per la prima volta il 22 settembre 1982 a New York. In formato making-of è stato girato durante la caotica produzione del film Fitzcarraldo di Werner Herzog nelle giungle del Perù.
Questo documentario è una sorta di tributo al “choro”, un vecchio modo di suonare che sta alla base di tutte le composizioni brasiliane, comprese la samba e la bossa nova.
Il pastore Tommaso Cestrone – detto “l’angelo di Carditello”, perché custode volontario di una residenza borbonica abbandonata dallo Stato, insieme all’arcadia circostante, trasformata dalla camorra in “terra dei fuochi” – salva dalla morte un bufalo neonato e lo adotta, battezzandolo Sarchiapone. Stroncato da un infarto, dall’aldilà invia Pulcinella a prendere l’animale e a portarlo in Tuscia dal suo amico tombarolo Gesuino che vuole ingrassarlo per mangiarselo. Lo stesso Pulcinella, allettato dai piaceri terreni, si fa uomo e non sente più il linguaggio di Sarchiapone che così va al macello meditando sulla tragicità di questa vita ma confidando in un’altra. “I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono dire la verità”: in questa battuta Marcello, anche sceneggiatore con Maurizio Braucci, dichiara il senso del suo eccentrico, originale, spiazzante film, che a partire da un fatto reale s’inventa una favola filosofica che non solo mostra la devastazione umana della bellezza della natura “bella e perduta”, ma ne fa vedere anche la causa: la presunzione dell’uomo di credere di essere l’unico a possedere un’anima e la conseguente atrofizzazione della sua capacità di ascoltare e comprendere il linguaggio simbolico della natura. È un grido di dolore espresso in immagini stupende e con musiche evocative (Marco Messina, Sacha Ricci). Con stile personalissimo, Marcello fonde la finzione con spezzoni di filmati Luce del Ventennio e di riprese documentaristiche odierne (montaggio di Sara Fgaier, anche coproduttrice) e alterna inquadrature di paesaggi e volti (fotografia di Salvatore Landi e dello stesso Marcello) con esoteriche soggettive di Sarchiapone realizzate con il found footage . Voce off di Sarchiapone, l’io narrante, di Elio Germano. Distribuito da Cinecittà Luce.
Meglio conosciuto per i suoi successi Father is a Dog e Mother is a Whore, Lee Sang-woo dirige questo grande ritratto della Corea con circa 100.000 dollari, un dramma familiare che guarda all’immagine del paese come ad un grande centro di esportazione di bambini.
Titolo originale Auschwitz: The Nazis and ‘The Final Solution’
Paese Gran Bretagna
Anno 2005
Formato serie TV
Genere documentario, storia guerra
STAGIONI 1
Episodi 6
Durata 60 minuti
Lingua originale inglese
Uno studioso e documentarista ricostruisce in queste pagine l’origine e il funzionamento della più tristemente celebre macchina di morte nazista, Auschwitz, che diventa il punto di partenza per esaminare l’Olocausto in tutte le sue implicazioni. In particolare, Rees si sofferma ad analizzare le motivazioni e la mentalità dei maggiori criminali nazisti, grazie a una serie di preziose interviste rilasciate dai protagonisti, ai resoconti delle SS e ai documenti resi disponibili dagli archivi russi. Il risultato è un saggio che non esita ad affrontare anche questioni «scomode», come la corruzione diffusa tra i prigionieri, la presenza di bordelli, le complici mancanze dei Paesi occupati o l’imbarazzante silenzio degli Alleati, che sapevano dei campi.
Ad Alberto Sordi si riferisce l’appellativo contenuto nel titolo di questo documentario, dedicato al più grande interprete della commedia italiana dai fratelli Carlo e Luca Verdone. A raccontare la vita e la carriera di Sordi ci sono le testimonianze di amici, registi, colleghi, collaboratori e studiosi, tra i quali Franca Valeri, Gigi Proietti, Pippo Baudo, Claudia Cardinale, Gian Luigi Rondi, Goffredo Fofi, Ettore Scola, Enrico e Carlo Vanzina, Christian De Sica. Insieme a sequenze tratte dai suoi film, video e immagini inediti – provenienti dagli archivi di Medusa, Rai, Cinecittà Luce, Fondazione Alberto Sordi e Associazione culturale Enrico Appetito.
Aka: “AKA Serial Killer”. Ispirati a quattro omicidi avvenuti in Giappone nel 1968, attribuiti a uno studente diciannovenne che venne soprannominato “il killer della pistola”.
Evolution of a Filipino Family è un film filippino co-prodotto, montato, scritto e diretto da Lav Diaz. Con una durata di 624 minuti (10 ore e 24 minuti), è uno dei film più lunghi mai realizzati. Ha guadagnato a Diaz il riconoscimento internazionale da parte della critica, noto per aver introdotto molti dei marchi cinematografici di Diaz, inclusa la durata
Ci sono voluti oltre 10 anni di lavorazione, con un programma di riprese discontinuo dovuto a problemi di budget e un anno di montaggio. Il film è un vero e proprio viaggio attraverso le Filippine a livello sociale, culturale e politico. La saga epica si estende per 15 anni e abbraccia il regime di Marcos (1971-1987), con una struttura narrativa che cambia man mano che la storia si sviluppa e alterna sequenze in video e film. Il film segue i vari membri della famiglia Galiardo, in particolare il nipote Raynaldo, che passa dall’essere un ragazzo di campagna cresciuto nella giungla a un adolescente cittadino.
“Non possiamo semplicemente restare a guardare la corruzione nella politica e nell’economia, non possiamo rimanere apatici e passivi. Dobbiamo mostrare questo periodo oscuro del nostro Paese per correggere la sua visione e, di conseguenza, la coscienza e il pensiero del nostro popolo. Dobbiamo confrontarci apertamente con il nostro passato per un futuro migliore.” (L. Diaz)