Burbero benefico, gestore di una sala per scommesse ippiche, si lascia ammorbidire il cuore da una bimbetta lasciatagli in pegno da uno sfortunato giocatore suicida. Commedia di situazione, affidata ai caratteri più che all’azione, fa perno su un Matthau impareggiabile con la sua camminata curva e l’angoloso istrionismo. È la 4ª versione di un soggetto di Damon Runyon, interpretato la 1ª volta da Shirley Temple.
Un film di Luca Miniero. Con Claudio Bisio, Alessandro Siani, Angela Finocchiaro, Valentina Lodovini, Nando Paone.Commedia, durata 102 min. – Italia 2010. – Medusa uscita venerdì 1ottobre 2010. MYMONETRO Benvenuti al Sud valutazione media: 2,85 su 179 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Alberto è un mite responsabile delle poste della bassa Brianza a un passo dal tanto sospirato trasferimento nel centro di Milano. Quando gli comunicano che la promessa rilocazione gli è stata revocata per dare precedenza a un collega disabile, Alberto, per non deludere le speranze della moglie e del figlio, decide di fingersi a sua volta disabile. Durante la visita di controllo, commette però un’imprudenza e, come punizione, gli viene imposto un trasferimento in Campania, in un piccolo paese del Cilento. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto antiproiettile.
Fra l’esagono francese e lo stivale italiano, la cartina socio-culturale del pregiudizio appare specularmente rovesciata. In Francia la commedia popolare brama il sole del Mediterraneo e le palme della Costa Azzurra, mentre teme il freddo della Manica e i cieli grigi delle regioni del Nord; in Italia il sogno dell’uomo padano vive all’ombra della Madunina di Milano e rivolge tutte le possibili stigmatizzazioni verso il Sud pigro e parassitario. Da Giù al Nord a Benvenuti al Sud, l’attraversamento delle Alpi dell'”opera buffa” di Dany Boon ristabilisce una connessione fra discesa geografica e declino civile mediante lo stesso percorso bonario e leggero di sovvertimento dello stereotipo. Il film si presenta infatti come un vero e proprio remake nel senso americano del termine: una replica puntuale degli snodi narrativi e delle principali gag dell’originale francese, adattata al linguaggio partenopeo e allo scontro con la cultura meneghina. Nella “traduzione” va persa molta della comicità surreale e strampalata della mimica e delle boutade di Dany Boon e Kad Merad, a favore di tempi comici più in linea con l’impostazione cabarettistica di Claudio Bisio e Alessandro Siani. L’adattamento scritto da Massimo Gaudioso ricalca e parafrasa laddove serve, lisciando e addolcendo l’eccessivo schematismo della sceneggiatura originale soprattutto nei rapporti fra i vari personaggi. Per il resto, lo sceneggiatore di Gomorra si limita a convertire i vari elementi che caratterizzavano il Nord-Pas de Calais nel loro diretto corrispettivo cilentano (i formaggi puzzolenti diventano mozzarelle di bufala, i distillati alcolici e le birre corpose diventano caffè e limoncelli, mentre la tradizione dei carillon delle torri campanarie si converte nella pirotecnica barocca del folklore campano) e ad aggiungere qualche lieve elemento caricaturale sul razzismo leghista o di autoironia in merito allo stesso film di Garrone. Da parte sua, Luca Miniero aggiunge alla messa in scena piuttosto basica di Dany Boon un certo virtuosismo tecnico e uno spettro di colori più ampio e caldo, in linea con le tonalità della costa cilentana. In definitiva, laddove ognuno – protagonisti, comprimari, caratteristi e autori – gioca il proprio ruolo a dovere e gestisce senza falli né malizia il gioco leggero della commedia, resta un dato non troppo confortante: il fatto che anche le idee, per ridicolizzare affettuosamente il nostro piccolo paese, abbiamo bisogno di importarle dall’estero.
Giovane guardiano di un obitorio si fa coinvolgere dal suo assistente in una lucrosa attività di sfruttamento della prostituzione. È una commedia amara che incuriosisce per il suo mix di ingredienti trasgressivi e antipuritani, ben frullato da una regia agile, dialoghi mitragliati, interpreti che credono nei loro personaggi. Nella colonna sonora c’è “That’s What Friends Are For” di Rod Stewart. Appare anche Kevin Costner. 1° film di Keaton.
Ray Peterson si reca a trascorrere un periodo di vacanze in solitudine nell’abitazione che possiede alla periferia della città. Il giovane ambisce alla pace e alla tranquillità, ma ben presto si accorge di strani eventi che avvengono nella casa dei vicini.
Fanatico di cinema arriva a Roma con l’ambizione di diventare un attore a tutti i costi. Dopo varie esperienze se ne tornerà al paese natio con le pive nel sacco. Il difetto sta nel manico: la sceneggiatura (B. Zapponi, Dino e Marco Risi) sembra tirata fuori da qualche cassetto dove giaceva dagli anni ’50. Ne soffrono anche i personaggi, tra i quali il più riuscito è quello di Maccione. Gassman, Tognazzi, Bouchet e Monicelli nel ruolo di sé stessi.
Ritratto di un pastore abruzzese, contestatore inconsapevole, idealista semianalfabeta che i familiari vorrebbero far passare per matto. Ruzzolone senza riscatto di P. Germi che si propone di contrapporre la sanità della vita di campagna contro lo stress della città e battersi per l’individuo contro le costrizioni e le ipocrisie sociali. “Avrebbe potuto essere un’ottima commedia della cattiveria e finì invece per diventare una mediocre commedia della bontà” (E. Giacovelli). Anarchismo da parrocchia, pastoraleggiante e annacquato. Anche Celentano ha l’aria di uno scavezzacollo di città che s’è travestito da burino per farsi gabbo dei villani.
Durante la metà degli anni 1980, Howard Marks aveva quarantatré anni alias, ottantanove linee telefoniche, e 25 compagnie commerciali in tutto il mondo. Bar, studi di registrazione, banche offshore: erano stati tutti veicoli per il riciclaggio di denaro che serviva alla sua attività principale: lo spaccio di droga. Marks ha cominciato a spacciare durante il corso di filosofia post-laurea a Oxford e ben presto cominciò a spostare grandi quantità di hashish in Europa e in America nelle attrezzature delle bande rock in tour. La vita accademica ha cominciato a perdere il suo fascino.
Un bancario e la moglie, trovandosi in difficoltà finanziarie, decidono di dividere la loro casa coi rispettivi amanti, ma arrivano anche il marito e la moglie di questi che a loro volta si portano dietro i nuovi partner.
Rifacimento del francese Il rompiballe (1973). Matthau è un killer a pagamento che dalla sua stanza d’albergo sta per sparare su un testimone scomodo. Ma nella stanza attigua c’è un poveraccio che tenta il suicidio perché abbandonato dalla moglie. Il killer cerca di dissuaderlo (la faccenda richiamerebbe senz’altro l’attenzione della polizia sul posto). Ma così facendo, non riesce a togliersi dai piedi quel piagnisteo, che rischia di mandargli a rotoli il piano così bene organizzato.
Un coscienzioso assassino di professione s’appresta ad eliminare un pericoloso testimone, che potrebbe far condannare un’intera cosca mafiosa quando, per caso, si trova a salvare un aspirante suicida (vedi anche Buddy Buddy).
Accanto alla violenza, la sessualità costituisce un tema ricorrente nelle opere di Vancini. Desunto da un romanzo di Quarantotti Gambini (su di un’isola deserta, una adolescente desiderata da due coetanei si concederà ad un uomo maturo), il film risulta però epidermico, a causa del mancato approfondimento imputabile ad una censura non ancora liberalizzante.
Due allevatori cassintegrati, quasi in risarcimento della negata indennità di licenziamento, rubano Corinto, campione taurino di riproduzione che vale un miliardo, per (s)venderlo all’Est. Come nelle opere precedenti del padovano Mazzacurati, il film parte da un’idea forte, originale, carica di potenziale metaforico _ il magnifico e mostruoso toro diventa qui l’emblema del capitalismo _ ma il racconto si rivela poi debole e sfrangiato. I temi sono indicati, ma non approfonditi. Manca di energia. Abbonda, invece, come in tanto cinema italiano degli anni ’90, un’aria lamentosa di sconfitta, rassegnazione, disorientamento. Musiche di Ivano Fossati. Leone d’argento a Venezia e Coppa Volpi a Citran come miglior attore. 2 Grolle d’oro: regia, produzione (Cecchi Gori).
Boston Legal è una serie televisivastatunitense di genere legale creata da David E. Kelley, composta da 5 stagioni per un totale di 101 episodi, trasmessa dalla ABC dal 3 ottobre2004 all’8 dicembre2008. Inizialmente intitolata Fleet Street, in riferimento alla strada di Boston in cui hanno sede gli uffici dello studio legale Crane, Poole & Schmidt, Boston Legal è uno spin-off di The Practice, altra serie a sfondo legale creata da David E. Kelley. Nell’ottava stagione di The Practice, molti episodi avevano lo scopo di introdurre nuovi personaggi in vista della futura messa in onda di Boston Legal. L’episodio chiave può essere considerato quello in cui lo studio legale Young, Frutt & Berluti decide di licenziare Alan Shore, il quale passa allo studio legale Crane, Poole & Schmidt e fa loro causa. Denny Crane, fondatore di Crane, Poole & Schmidt si interessa al caso e partecipa al processo. La giuria riconosce ad Alan i soldi guadagnati presso Young, Frutt & Berluti, ma non ordina la sua riassunzione, così Denny decide di prenderlo nel suo studio.
Serie sottovalutata a mio giudizio.
Aggiunti 5/6 episodi della seconda e quarta stagione mancanti.
Registrazione parziale dello spettacolo teatrale portato in giro nella stagione 2005-06 con più di 250 000 spettatori. Il prologo dei quattro alieni che sbarcano sulla Terra in una città simile a Milano, è un pretesto per legare la catena delle scenette comiche. Da non perdere i fuoriscena sui titoli di coda. L’umorismo frizzante (con risvolti surreali) prevale sulla satira, ma non mancano i rimandi agli umori antimeridionali della Lega nordista. La solita ripartizione dei ruoli nel trio dà spazio soprattutto alla buffoneria sopra le righe di Aldo, impegnato anche nel cantare in platea una passionale “My Way”. È apprezzabile, comunque, l’onestà dell’operazione che non soltanto sottolinea la natura teatrale dello spettacolo, ma ne amplifica il fascino. Il merito è anche di R. Gaspari che sfrutta a dovere le invenzioni di A. Brachetti. Nella vita S. Fallisi è moglie di Aldo.
Il corpulento Paolo ha un passato da sciupafemmine (e per questo la moglie l’ha mollato), un presente in cui sciupa sé stesso lavorando svogliatamente, bevendo troppo, e un futuro che sembra già sciupato. Una zia slovena muore e a lui spetta l’eredità: ma non si tratta di soldi, bensì di Zoran, un ragazzotto con occhiali enormi che parla un italiano arcaico, imparato da vecchi libri. Paolo non vede l’ora di scaricarlo, ma deve aspettare che la burocrazia faccia il suo corso. Poi scopre che Zoran tira le freccette con abilità mostruosa. Si sorride in diverse occasioni: il protagonista, profittatore antipatico, con accento veneto e sbronza molesta, è triste e infelice, contrapposto al nipote, una macchietta in salsa slava che parla in modo buffo, ma ha sensibilità umana. Interessante opera prima di Oleotto, di ritorno nel suo Friuli dopo aver studiato cinema a Roma. Distribuito da Tucker Film.
Due sposini che vivono a New York vogliono migliorare il loro tenore di vita. Ma come di norma avviene in questi casi, non fanno altro che indebitarsi fino al collo e passare attraverso le situazioni più stravaganti, fino a quando la fortuna si decide a dar loro una mano.
Egocentrico, borioso e odioso giornalista specialista in meteorologia, a Punxsutawney (Pennsylvania) per l’annuale Festa della Marmotta, è costretto a rivivere, senza sosta, all’infinito, la stessa giornata. L’incubo gli cambia la vita. Commedia filosofica e sentimentale che parte da una buona idea, sceneggiata con intelligenza senza cadere nel ripetitivo e sostenuta da una sapiente regia: attori ben diretti, buona ambientazione della provincia americana, montaggio funzionale, capacità di mescolare i toni umoristici con quelli grotteschi.
Dopo aver lavorato per 45 anni come operaio ospite (“Gastarbeiter”) Hüseyin Yilmaz, annuncia alla sua vasta famiglia di aver deciso di acquistare una casetta da ristrutturare in Turchia. Vuole che tutti partano con lui per aiutarlo a sistemarla. Le reazioni però non sono delle più entusiaste. La nipote Canan poi è incinta, anche se non lo ha ancora detto a nessuno, e ha altri problemi per la testa. Sarà però lei a raccontare al più piccolo della famiglia, Cenk, come il nonno e la nonna si conobbero e poi decisero di emigrare in Germania dall’Anatolia.
Tre funzionari sovietici, in missione in Francia per vendere dei gioielli, sono “convertiti” ai piaceri consumistici da un aristocratico, amico intimo dell’ex proprietaria dei monili. Per ricondurli alla retta via arriva dalla Russia l’inflessibile Nina Ivanovna Yakusciova. Tra tensioni politiche e altre discrepanze la forza dell’amore nella Parigi di fine anni 30 avrà la meglio sul resto. In Ninotchka (sceneggiato tra gli altri da Billy Wilder, prima di diventare regista) a Lubitsch non interessa il risvolto ideologico della storia non attribuendo troppa serietà al manicheo scontro comunismo/capitalismo e prendendosi gioco di una parte e dell’altra. Sono piuttosto la messinscena e l’umorismo sottile delle battute a rilevare in una sapiente compressione di idee e significati in singole sequenze.
Dopotutto il Lubitsch touch, il tocco di Lubitsch o alla Lubitsch ha segnato il cinema. Un regista innovativo in un’epoca in cui la settima arte era standardizzata su cliché fortemente collaudati in relazione alla tradizione dei paesi dove i film venivano realizzati. Raffinato, audace, irriverente, elegante, fascinoso “il suo cinema è il contrario del vago, dell’impreciso, dell’inespresso, dell’incomunicabile, non ammette mai nessuna inquadratura decorativa, messa là per fare bella mostra: no, dall’inizio alla fine si è immersi nell’essenziale, fino al collo” come disse efficacemente François Truffaut. Unico ruolo brillante nella carriera della “divina” Garbo, qui al penultimo film e all’ultimo capolavoro. La MGM pubblicizzò il film con lo slogan: “Garbo laughs!” (“La Garbo ride!”) operando una sorta di demolizione del mito, preannunciandone un’umanizzazione. La pellicola è anche nota per essere una delle prime satire politiche alla Russia di Stalin di particolare impatto considerando la data di distribuzione nelle sale in Europa (un mese dopo l’uscita del film la Germania nazista invadeva la Polonia). Vietato in Unione Sovietica e nei suoi stati satelliti nel dopoguerra il film fu proibito anche in altri paesi europei per paura di “turbamenti all’ordine “pubblico” e risultava ancora inedito in Finlandia fino al 1988. Il film è stato candidato a quattro premi Oscar ma senza vittoria: era l’anno del trionfo di Via col vento.
Con partenza da Firenze il 26 agosto 1944, dopo l’arrivo degli Alleati, un anziano ex pugile mette insieme un quartetto di giovanotti affamati allo sbando, portandoli a tirar pugni nelle sagre di paese. Film corale picaresco di svelta protervia e apparente futilità in una miscela di disincanto e buffoneria, pathos e ironia, crudeltà e tenerezze di contrabbando. Soggetto di Rodolfo Angelico, sceneggiato da L. Benvenuti, P. De Bernardi, S. Cecchi D’Amico, M. Monicelli.
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