Harry e Sally s’incontrano tre volte nell’arco di dieci anni e lui ogni volta ci prova, ma non va. Poi diventano amici e un bel giorno finiscono a letto insieme. Da una sceneggiatura, scritta da Nora Ephron, abile, non troppo originale ma ricca di battute frizzanti, R. Reiner, figlio di Carl, ha cavato una piacevole commedia a tratti davvero divertente, con due bravi protagonisti, belle musiche (Berlin, Gershwin e Goodman) e qualche strizzata d’occhio a Woody Allen e Blake Edwards.
Koreeda, uno dei registi più interessanti e sperimentali del cinema giapponese contemporaneo, incontra il film in costume, e nasce un film intenso, divertente e innovativo come “Hana”. Soza è un giovane samurai mandato dal suo clan in un distretto povero dell’antica Edo per vendicare la morte del padre, ma la sua missione molto presto viene soppiantata dal coinvolgimento della vita del quartiere: Soza trova un ruolo felice all’interno del microcosmo grazie all’insegnamento ai bambini, l’onore del suo obiettivo si tramuta quindi in una dedizione di utilità sociale. Poche sono le scene spettacolari di duelli, forte è invece il ripetersi di azioni, anche senza rilevante significato, del quotidiano: Koreeda sceglie di guardare al di la del canoni classici del genere dei film sui samurai per lavorare sul realismo e su valori piu’ vicini alla società contemporaneo. Il suo “eroe” non è una figua mitica, ma un personaggio pienamente umano, attraversato dal dolore, sconfitte, comicità, amore e anche onore, un vero e proprio samurai dei giorni nostri!
Claude va a New York per arruolarsi nei Marines che vanno in Vietnam. Nel Central Park fa amicizia con una combriccola di ragazzi e trascorre con loro i due giorni che lo separano dalla partenza. Tra di essi c’è Sheila, della quale Claude s’innamora. Per consentire a Claude di rivederla, George organizza un’incursione a casa di certa gente, dove appunto si trova la ragazza. Finiscono tutti in gattabuia, ma per poco. Poi Claude parte per il campo-addestramento. George lo raggiunge al campo con la ragazza e si sostituisce all’amico per permettergli di stare con la fanciulla. Andrà a finire che sarà George a partire per il Vietnam. Trasposizione cinematografica della nota commedia musicale messa in scena per la prima volta nel 1967.
Morto il papa, a sorpresa i cardinali in conclave eleggono il francese Melville che accetta, ma al momento di affacciarsi al balcone di San Pietro urla la sua angoscia. Si convoca d’urgenza l’illustre psicoanalista Brezzi, ma l’eletto non cambia idea, anzi, in borghese sfugge alla sorveglianza della scorta, gira per Roma e cerca sé stesso. Lo recuperano in un teatro mentre assiste alla messinscena del Gabbiano di &8 echov. Prodotto dall’autore (Sacher) e da Procacci (Fandango), scritto con Francesco Piccolo e Federica Pontremoli, il 12° di Moretti, storia di una fuga impossibile, è un film complesso e stratificato. Mescola tragedia e commedia, generosità e melanconia, metafore e rimpianti, pessimismo e speranza, trovate geniali (nessuno tra i cardinali vuole essere eletto) e momenti banali, il senso del vuoto e la scissione tra Maschile e Femminile. Ha il suo atout in Piccoli, un’interpretazione memorabile, e collaboratori ineccepibili tra cui Alessandro Pesci (fotografia) e Paola Bizzarri (scene) che ha ricostruito gli interni del Vaticano in teatro. È forse il più importante, sicuramente il più ambizioso film di Moretti, ma non il più riuscito perché viziato dal suo narcisismo, quello per esempio che gli fa trascurare l’ex moglie psicoanalista di Brezzi e lo fa dilungare troppo nel torneo di pallavolo. 3 David di Donatello: attore protagonista (Piccoli), scenografo (Bizzarri), costumista (Lina Merli Taviani).
Stanco della movimentata vita cittadina, Buster Keaton si trasferisce in una grossa fattoria dove viene assunto come guardiano di mandrie. Un giorno, mentre una di queste viaggia su un treno per essere venduta, alcuni banditi tentano di impossessarsene. Ma il nostro eroe riesce a impedire il furto coll’unico aiuto di una mucca! Capolavoro comico.
Un milionario vuole evitare che il proprio figlio sposi una bella bionda terribilmente interessata e spedisce la ragazza in Francia mettendole alle costole un detective.
A Milano, un giovanotto fa la corte a una ragazza portandola a spasso sull’automobile del padrone, ma per un equivoco i due litigano e lui perde il posto d’autista. Più tardi si ritroveranno alla Fiera campionaria e, grazie ai buoni uffici del padre di lei, un tassista, finiranno per sposarsi.
Nel 1937 arriva, in una cittadina del meridione (gli esterni sono girati a Matera), un assicuratore che viene scambiato per un gerarca inviato per una ispezione, e colmato di attenzioni e favori. La trilogia satirica sul fascismo di Zampa, scritta da V. Brancati, morto nel 1954, diventa quadrilogia con questa commedia, sceneggiata da E. Scola e R. Maccari, inclini a raccontare una storia del passato con l’occhio al presente. Il lontano modello è L’ispettore generale (Revizor, 1836) di N.V. Gogol. Mette in valore Manfredi e il suo duttile gioco di rimessa e una compagnia di bravi attori tra cui spicca S. Randone.
34° film di Avati in 40 anni, il 9° ambientato a Bologna e il più autobiografico: il suo alter ego è il 16enne Taddeo che fa da perno e narratore in questa commedia di personaggi, senza un vero intreccio, in cui, secondo lui, ha raccontato la sottocultura di un ambiente – il bar di via Saragozza nella Bologna del 1954, da lui mitizzato – con tenerezza e crudeltà. Dice il vero, non tutto: la crudeltà prevarica sulla tenerezza nel suo film più estremo, misantropo, sgradevole. Nel suo cinico e ladro Taddeo si è calunniato a ritroso. Perché ha spinto, o permesso, che Lo Cascio rida o sghignazzi senza pause? Perché Marcorè portatore di inadeguatezza, è un imbranato così radicale? E il nonno di Cavina che non smette mai di tossire e gioca a biliardo come se non avesse mai maneggiato una stecca? Quasi tutto il film è sopra le righe e, a furia di caratterizzare, scivola nel macchiettismo. Solo l’Al del sobrio Abatantuono è raccontato con simpatia e ammirazione. Fotografia (il fido P. Rachini) e musica (Lucio Dalla) intonate come le scene (G. Pannuti) e i costumi (S. Tonelli). È un’altra tappa dell’ascesa postdivistica della bella e brava Chiatti. A 70 anni Avati ha scoperto il valore dell’ingenuità, ma esagera.
Tre donne di generazioni diverse – nonna, madre, figlia – eliminano per insofferenza o per noia i propri mariti. Tutti decessi dolci, acquatici. Con la complicità di un pretore, loro amico e corteggiatore, fanno passare quelle morti per accidentali. Nel raccontare moralmente questa storia amorale il regista più dandy e perverso del cinema britannico ha fatto una commedia nera che si trasforma in dolente tragicommedia, impregnata di umorismo, ironia ed efferata dolcezza, giocando con i numeri, gli insetti, il sesso, i cadaveri, la solidarietà femminile. Nella colonna sonora un Mozart sublime.
Grga e Zarije sono amici da almeno trent’anni. Matko, il figlio di Zarije, progetta di rubare un carico di carburante per contrabbandarlo. S’affida allora a Grga e ,con la scusa che suo padre, Zarije è morto, gli prende dei soldi, con i quali può portare a termine l’operazione. Nell’affare si mette in mezzo anche il criminale cocainomane Dadan; al momento del furto al convoglio, però, Dadan addormenta Matko e prende per sé il carico. Che al suo risveglio apprende da Dadan che il colpo è fallito; non potendo però restituire i soldi prestati al bandito è costretto ad accettare come condizione di dover far sposare il suo amatissimo figlio Zare con sua sorella Afrodita, detta Bubamara (ovvero coccinella) per la sua bassezza.
È la seconda volta (dopo Re per una notte) che Scorsese si imbatte nella commedia (questa volta da incubo metropolitano kafkiano). Il progetto non è stato sviluppato personalmente dal regista, coinvolto in quel periodo nella preparazione de L’ultima tentazione di Cristo che subì una cancellazione improvvisa da parte della Paramount a sole quattro settimane dall’inizio delle riprese. Dopo aver respinto mucchi di script, ricevette la sceneggiatura di Fuori orario dai produttori Amy Robinson e Griff Dunne (scritta in realtà da Joe Minion uno studente della Columbia University come saggio finale di un corso di cinema del regista jugoslavo Dusan Makavejev). La sceneggiatura sarà trasformata in modo sostanziale dal regista. Fuori orario è stato da subito considerato “una rinascita” nella sua carriera (grande successo di critica e premio alla miglior regia al Festival di Cannes) e il film potrebbe essere letto come una sorta di sua autobiografia emotiva. Scorsese rivelò che le tribolazioni di Paul Hackett (che appaiono un po’ come una versione derisoria e crudele degli ultimi anni della sua vita) riflettono la frustrazione professionale di quel periodo. Ma anziché piangersi addosso, il cineasta infonde al film un’energia inattesa: mai un incubo raccontato al cinema è stato più gioioso. Girato in sei settimane a New York, il film dimostrerà che il regista è in grado di realizzare egregiamente un progetto low-budget (semmai è un ritorno alle origini). Per la prima volta Scorsese lavora con il direttore della fotografia tedesco Micheal Ballhaus (da sempre collaboratore di Fassbinder e quindi abituato alle produzioni indipendenti). Scorsese collaborerà con lui altre sei volte dal Colore dei soldi a The Departed. In seguito alle esplorazioni notturne della New York di Taxi driver (1976), il regista trasforma SoHo (noto quartiere degli artisti della Grande Mela) in un lurido, claustrofobico paesaggio capace di scatenare nel protagonista le più intime ansie e paure. La città non è quindi un semplice ambiente fisico naturale, bensì la proiezione dei fantasmi e delle angosce di un solo individuo.
Dal romanzo di Cameron Crowe, basato sui suoi ricordi di scuola. I personaggi principali sono uno studente molto popolare tra i compagni e la sua sorellina illibata. Prima della fine la ragazza perde la sua purezza e il fratello parte della sua popolarità.
Amante dell’Inghilterra, modesto antiquario perugino approfitta di un’asta a Londra per cercare di anglicizzarsi. Esordio nella regia di Sordi che, dopo aver fatto l’americano, cerca di far l’inglese. Taccuino di viaggio ora spiritoso, ora evanescente. “E non è facile adattarsi alla convenzione di un’Inghilterra in cui tutti gli inglesi… parlano un italiano alla Stanlio e Ollio” (T. Kezich).
Vincent (Blanchet), potente ministro, costretto a dare le dimissioni per una cantonata politica, ricomincia a vivere. Perde la giovane amante, si fa cacciare dalla moglie, scopre la sua casa invasa da famiglie nordafricane, recupera la vecchia madre (Piccoli!), riaggancia le ex amichette, riprende il giro dei bar con i vecchi amici, riscopre i piaceri della pigrizia pensante. Intanto il suo successore assaggia l’ebrietà e le incertezze del potere. Può sembrare una favola poetizzante e leziosa, un po’ demagogica, avulsa dal mondo e dalla realtà sociale, ma è semplicemente una commedia controcorrente, in linea con tutti i film passati di questo georgiano, trapiantato a Parigi negli anni ’80, che ha il genio della scrittura leggera e non crede nel progresso, ma nemmeno nel catastrofismo nichilista oggi di moda. Sembra, la sua, una facile disinvoltura, ma soltanto per chi non sa coglierne la ricchezza musicale delle situazioni, impregnate di una buffoneria sottile, affidata ai gesti e ai comportamenti più che ai dialoghi. Non è forse spiazzante il suo bestiario, la galleria degli animali, buffi perché fuori dal loro contesto (asini, tucani, ghepardi, bisonti)? Dietro l’apparente frivolezza del racconto “c’è una sorta di tessitura molto compatta, la confezione di una trama fine, densa, quella di un vestito ideato da un sarto artista e filosofo” (J.-F. Rauger).
Per rialzare le quotazioni in declino nei sondaggi e tentare di essere rieletto, un presidente degli USA ha bisogno di una guerra o di qualcosa di simile. In mancanza di meglio, trova un Impero del Male nel Canada. Dopo Roger & Me (1989) e Pets or Meat – Return to Flint (1991, inedito in Italia), l’intrepido M. Moore fa un’incursione nella fiction, pur rimanendo fedele ai suoi intenti critici e satirici sul sistema sociopolitico statunitense. Più di una freccia a bersaglio, dialoghi spiritosi qua e là, ghiotti confronti tra canadesi (ai quali Moore non lesina la sua simpatia) e yankee, ma l’idea di partenza ha il fiato corto.
Un decrepito albergo di Los Angeles è teatro degli episodi narrati dai quattro registi. Il filo conduttore è il portiere Tim Roth, agitato e “cartonesco”. Ha a che fare con una congrega di streghe, due bambini pestiferi, una coppia sadomaso e una scommessa riciclata da un telefilm di Hitchcock (quella del dito tagliato). Un film che può anche essere evitato.
Le alpi giapponesi innevate. I genitori della piccola Ai la lasciano sciare da sola per la prima volta. La bambina viene salvata da un grave incidente da un ragazzino, Makoto, che riceve in dono dall’atto eroico una cicatrice sulla fronte. Una ferita che in qualche modo segna un patto di sangue non dichiarato. Undici anni più tardi, nei meandri della metropolitana di Shinjuku, la liceale Ai assiste a uno scontro tra gang rivali. Un ragazzo che non ha mai visto prima sbaraglia da solo tutti gli avversari; ha una cicatrice sulla fronte…
Presentato al Festival Cinematografico di San Francisco nel 1998, il film narra la storia di Bill (Jeremy Theobald), un aspirante scrittore che, in cerca di ispirazione, comincia a pedinare le persone, trasformando le loro vite in materiale per il suo lavoro. Tutto va bene finchè Bill si imbatte in Cobb (Alex Haw), ladro di professione che gli insegna il mestiere. Eccitato all’idea di compiere azioni illegali entrando negli appartamenti altrui, Bill diventa ben presto oltre che un rapinatore anche un assassino. Il regista Christopher Nolan, si rivela un vero asso nell’utilizzo della handycam; peccato che il film non presenti colpi di scena e che si indovini già tutto dopo i primi dieci minuti.
Nel 1932 anarchico della Bassa lombarda, deciso a far fuori il Duce, trova ospitalità in una casa chiusa di lusso dove s’innamora della bella Tripolina. Il mattino dell’attentato si sveglia in ritardo. Ghignante quadro di costume, è un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili. Premiato Giannini a Cannes.