All’inizio degli anni Venti un soldato dell’Armata Rossa è ingiustamente accusato di aver fatto la spia ai rapinatori che hanno assaltato un treno carico d’oro. Il presunto traditore lascia i suoi, si aggrega ai banditi, recupera l’oro, scopre la vera spia. 1° film lungo del regista (anche interprete del capo dei banditi) che, tenendo d’occhio la lezione del western americano, straripa di trappole, svolte, ribaltamenti, romantica energia. I versi della ballata che apre il film sono di Natalija Kon&9 alovskaja, madre di Michalkov.
Ou Yang Feng (L. Cheung), già spadaccino e sicario di professione, vive da eremita nel deserto. Gli fa visita una ragazza (C. Young) che vorrebbe vendicare la morte del fratello. Gli richiama alla memoria l’unica donna (M. Cheung) che ha mai amato, ora moglie di suo fratello. Ma anche il suo migliore amico (T. Leung) è innamorato di lei. Nel suo 3° e costoso film, Wong prende in prestito i personaggi di un romanzo di arti marziali di Jin Yong e li situa in mezzo a un deserto per analizzarne ossessioni e manie. “Incredibile apologo filosofico, film di kung-fu senza combattimenti, film in costume senza un tempo di riferimento, paradossale tentativo di ‘prendere sul serio’ le storie di fantasmi e di eroi mitologici cinesi” (G. Manzoli).
A differenza della versione REDUX che dura 93 minuti questa ne dura 98
Il remake di un pilastro della cinematografia di genere di Hong Kong come One-Armed Swordsman, che segnò nel 1967 una nuova partenza per il wuxia imponendosi come pietra miliare della svolta verso un realismo ‘gore’, non poteva che prendere vita per mano di Tsui Hark, pontefice massimo del dramma di cappa e spada nonché vate di una nuova ed affascinante tipologia di kung fu movie. On vive sin dalla morte del padre in una fabbrica di lame, sotto la protezione del mastro fabbro, ma, una volta scoperto che il padre morì per mano di un avventuriero errante di rara malvagità, decide di seguire la strada della vendetta. Nel tentativo di salvare la figlia del proprio tutore da una banda di briganti, On perderà un braccio e sarà costretto a vivere da ‘storpio’, tra discriminazione e continue umiliazioni. In seguito all’ennesimo sopruso, la volontà di vendetta consumerà l’autocommiserazione, spingendolo a sviluppare uno stile marziale che si adatti alla propria menomazione fisica.
Liberamente ispirato a un libro di racconti di Piu Sung-Ling (1640-1715), è un vasto affresco epico-avventuroso con risvolti fantastici la cui azione ha per sfondo un villaggio della Cina settentrionale nell’epoca Ming (1367-1643) e per personaggi principali la bella, valorosa e perseguitata figlia (Feng) di un ministro morto sotto le torture, che s’è nascosta in una casa infestata dai fantasmi; un giovane povero (Chun), pittore e letterato; un generale travestito da cieco e un pacifico monaco buddista, esperto in arti marziali, le cui ferite si rigenerano al sole e il cui sangue si tramuta in oro. Si può dividere in tre parti: la prima ha le cadenze di un racconto del mistero con risvolti ironici; la seconda mette in scena duelli all’arma bianca che si trasformano in fantasiosi e magici balletti; nella terza parte l’azione spettacolare lascia il posto a un misticismo visionario: vi si suggerisce come l’etica dello Zen – precisione, rigore, controllo di sé, ascetismo, efficacia, lealtà – si traduce in gesto e azione. 4° film di King Hu, raffinato scenografo e coreografo, pur non mancando di squilibri, di prolissità e di passaggi opachi, è uno splendido esempio di cinema come fonte di avventura, meraviglia, magia spettacolare, organizzazione del movimento nello spazio. In concorso a Cannes nel 1975, in Italia è stato visto soltanto sui teleschermi.
Li Mu Bai è un maestro di arti marziali la cui spada viene ritenuta dotata di poteri magici. Li Mu Bai ama la bella e coraggiosa Yu Shu Lien, ma non può rendere espliciti i suoi sentimenti perché la ragazza è stata fidanzata al suo fratello di sangue. Un giorno decide di consegnare la spada a Shu Lien perché la porti al signor Tè che dovrà custodirla. Ma il dignitario se la fa rubare. Shu Lien avrà però la fortuna di incontrare la figlia del governatore Yu, ormai promessa a un futuro sposo e desiderosa invece di percorre i sentieri dell’avventura. Ang Lee torna a casa e al proprio immaginario infantile e ritrova l’originalità che ne aveva contraddistinto gli esordi. A questo regista la trasferta americana non ha fatto bene: si è messo in testa (dopo i piacevolissimi Banchetto di nozze e Mangiare Bere Uomo Donna) di spiegare l’America agli americani e ha realizzato tre film come Ragione e sentimento, Tempesta di ghiaccio e Cavalcando col diavolo che finivano col risultare più manuali di storia e/o sociologia per immagini che film. Molto meglio va quando, come in questo caso, racconta Taiwan agli occidentali con quell’attenzione all’universo femminile che lo contraddistingue e che, anche in questa storia “marziale”, conquista lo schermo unendo agilità ed eleganza.
Ci sono tutti, i personaggi principali del romanzo di Collodi, nel Pinocchio di Matteo Garrone: Geppetto e il suo burattino di legno, Lucignolo, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, fino all’Omino di burro, il Tonno e la Balena. Perché questo ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più note nel mondo è enormemente rispettoso dell’originale, come già era stato Il racconto dei racconti al testo di Gianbattista Basile.
C’è una cura devota nella ricerca delle facce giuste, negli scenari che chiunque abbia letto Pinocchio ha immaginato, nei dettagli dei costumi, del trucco (impressionante il legno con cui è costruito il bambino), degli effetti speciali artigianali, come lo erano stati ne Il racconto dei racconti, e utilizzati con grande parsimonia, ovvero solo quando narrativamente necessari.
In questa cura c’è tutto l’amore e la reverenza che Garrone ha verso il testo di Collodi, il suo perfetto equilibrio nel dosaggio degli elementi narrativi e nella caratterizzazione di personaggi che sono diventati archetipi, verso quell’ingranaggio drammaturgico che vede il percorso di iniziazione alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino (e dunque un uomo) vero dipanarsi per corsi, ricorsi e inciampi, sempre due passi avanti e uno indietro, con un andamento ad elastico sempre pronto a ritornare bruscamente al punto di partenza, proprio quando sembrava così vicino al salto evolutivo.
Gli interpreti son perfetti: Benigni trattenuto e straziante (come già il Nino Manfredi del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini), il piccolo Federico Ielapi minuto ma tosto, sempre in equilibrio fra intraprendenza e desiderio di appartenere, disobbedienza e lealtà.
E poi Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, nati per diventare la Volpe e il Gatto, Gigi Proietti credibilissimo come il burbero Mangiafuoco dallo starnuto facile, le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna; il grillo parlante Davide Marotta. Standing ovation per Maria Pia Timo (la Lumaca), Enzo Vetrano (il Maestro) e Nino Scardina (L’Omino di burro).
Seydou e Moussa sono cugini adolescenti nati e cresciuti a Dakar, ma con una gran voglia di diventare star della musica in Europa. Tutti in Senegal li cautelano contro il loro progetto, in primis la madre di Seydou, ma i due sono determinati, e di nascosto intraprendono la loro grande impresa. Un viaggio che si rivelerà un’odissea attraverso il deserto del Sahara costellato dei cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta, le prigioni libiche e il Mediterraneo interminabile e pericoloso. I furti, le violenze e i soprusi non si conteranno, ma ci saranno anche gesti di umanità e gentilezza in mezzo all’inferno. Soprattutto, Seydou dovrà scoprire che cosa comporta mettersi al timone della propria e altrui vita in circostanze ingestibili.
Il film narra la storia di un commissario di polizia inglese che, nell’imminenza della pensione, sfrutta l’abilità di un ladro internazionale per fargli eseguire un colpo col quale si sistemerà.
Non ho trovato versione in italiano. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Il povero Jack London avrebbe affrettato il suicidio se avesse saputo che i suoi libri avrebbero originato queste riduzioni italiane, di grande successo, in cui il Klondike è fatto in casa, buone suorine si alleano a insopportabili bambini biondi per lottare contro i prepotenti e si riciclano i resti del western all’italiana.
Manciuria, anni ’30. Chang-yi, raffinato sicario dandy, è assoldato a caro prezzo per recuperare una mappa in mano a un banchiere giapponese. A sua insaputa, intanto, lo stesso incarico è affidato dall’esercito indipendentista coreano a Do-won, famoso cacciatore di taglie. È un film avventuroso che in Italia può attirare 2 tipi di spettatori: la piccola schiera di conoscitori del cinema asiatico e un gruppo di spettatori più ignoranti, magari vecchi estimatori di western americani (o di Sergio Leone), che vogliono passare 2 ore abbondanti di un cinema d’azione ricco di sequenze mirabolanti alla King Hu, traiettorie visive ubriacanti, inseguimenti, cavalli a iosa, treni. Un film di puro godimento, insomma, senza problemi aggiunti.
Un film di Fabian Bielinsky. Con Gastón Pauls, Ricardo Darín Titolo originale Nueve Reinas. Avventura, durata 115 min. – Argentina 2003. MYMONETRO Nove Regine valutazione media: 3,41 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Due piccoli truffatori, Juan (Gastón Pauls) e Marcos (Ricardo Darín), uniscono le proprie forze per un colpo da mezzo milione di dollari. Di mezzo c’è una serie di francobolli contraffatti, bidoni e controbidoni, personaggi dalla doppia faccia e morale: ma anche i due bidonisti non si sono detti proprio tutto… Onusto di notevole successi raccolti in vari Festival, “Nove regine” è un bel film. Se i modelli sono dichiaratissimi (dal Mamet di “La casa dei giochi” alla commedia all’italiana di Monicelli e Risi), pure la sceneggiatura è un orologio svizzero, la regia mai banale, gli attori semplicemente strepitosi. E l’intrigo giallo e picaresco viaggia che è un piacere verso un finale, se non proprio sorprendente, quanto meno più originale della media del genere.
Da un racconto di Davis Grubb. Scontati quarant’anni di carcere, vecchio detenuto esce con due compagni e un assegno di venticinquemila dollari che fa gola a un disonesto banchiere e a un corrotto poliziotto. Nella curiosa mistura di comicità, avventura e violenza, il film ha un suo fascino dovuto alla bravura degli attori, il vecchio Stewart in testa.
Venuti a sapere che l’amico Rudy è detenuto in Marocco per droga, quattro milanesi, ultratrentenni ex sessantottini, partono con 30 milioni di lire (nascoste) necessari per il rilascio. Ben diretti tutti gli attori in sintonia con i personaggi, ma banale e folcloristico il rapporto del regista col paesaggio. Film di viaggio sull’amicizia, l’avventura, la fuga verso l’utopia, sostenuto da una sceneggiatura ben congegnata e un po’ ruffiana che prese il premio Solinas, firmata da Carlo Mazzacurati, Umberto Contarello, Vincenzo Monteleone. Musiche: Roberto Ciotti con Lucio Dalla che canta “L’anno che verrà”. Divertente la sequenza sul set abbandonato di un western italo-spagnolo.
In una villa di fantasmi, il dottor Markway compie degli esperimenti di parapsicologia insieme ad alcune persone dotate di facoltà medianiche. In un crescendo di tensione tra i personaggi assistiamo al precipitare della situazione.
La guerra di Troia, dal rapimento della bella moglie di Menelao fino all’incendio. L’impostazione è filotroiana con Elena onesta, sposa malmaritata, Paride eroicizzato, atleta senza macchia né paura che tende all’apertura a sinistra, capace di mandare al tappeto un marcantonio come Aiace. Ulisse: scettico pacifista. Achille: un bullo. Gli Atridi fanno la peggior figura. Colosso Warner Bros girato a Cinecittà. Tolte poche scene di massa, gestite da Yakima Canutt (e da Raoul Walsh non accreditato), sembra diretto da Wise soltanto per ritirare la paga. Record degli strafalcioni storici concentrati in una sola scena: quella in cui Paride presenta Elena a Priamo.
Un commissario governativo e scrittore si reca con il fratello a Dawson City per documentarsi sui cercatori d’oro nel Klondike. I due sono accompagnati da una guida indiana che ha con sé il figlioletto e il lupo Zanna Bianca. Un losco avventuriero, notate le straordinarie qualità dell’animale, non esita a uccidere la guida indiana per impadronirsene, facendo poi anche altre vittime. Nella lotta contro il malvivente, alla fine comunque avrà la meglio il commissario.
Durante le guerre napoleoniche, tra il 1808 e il 1810, il capitano inglese Hornblower contende una bella dama all’ammiraglio Leighton. Sontuoso film di avventure in costume ben girato da Walsh e tratto da ben 3 romanzi di Forester. Girato a Londra per gli interni. Esterni di mare al largo tra Nizza e Monaco.
Re Artù, con l’aiuto di Lancillotto del Lago, fonda la Tavola Rotonda e porta la pace in Bretagna. Ma i due guerrieri sono divisi dall’amore che Ginevra, la moglie del re, porta (castamente) a Lancillotto. Della cosa approfitta il malvagio Mordred, che istiga i cavalieri alla rivolta. Artù muore. Lancillotto lo vendica. Ginevra si fa suora.
È la seconda parte del film fiume dedicato da Troell agli emigrati svedesi in America all’inizio del secolo scorso (la prima parte circolò nei cinema col titolo Karl e Kristina). Qui è descritto l’arrivo della famiglia nel Minnesota. Dopo dieci anni Kristina muore di parto. Karl rimane solo, a portare avanti la famiglia e la terra.
Nel 1607 – tredici anni prima dell’arrivo a Plymouth del Mayflower con i Padri Pellegrini – tre caravelle inglesi approdano sulle coste della Virginia, alle foci del fiume Cickahominy. Comincia la storia della principessa Pocahontas (1595-1617) e dell’avventuriero ed esploratore John Smith (1580-1631). I personaggi sono storici, il film è un poema epico che scarta la loro trasformazione in romantica (e ipocrita) leggenda sulla riconciliazione delle razze. Il nome di Pocahontas non è mai pronunciato. Il preludio del wagneriano L’oro del Reno suggerisce l’imminenza di un disastro: se Pocahontas è un’ondina, i britanni sono gli gnomi in cerca dell’oro. Il mattino del nuovo mondo dura poco. È un poema in 3 tempi. All’idillio sognato del primo subentra la disillusione. Per i compatrioti di Smith, i veri barbari, l’incontro con l’Altro porta alla sua esclusione, preludio dello sterminio, anche se, romantico dallo sguardo lucido, Malick indica i parallelismi tra i due mondi: anche gli indigeni hanno regole e tabù. Invece di ascoltare il cuore, Smith prosegue il suo mestiere di esploratore, obbligando Pocahontas a rinnegare i suoi e accettare l’assimilazione. Malick ha sempre raccontato l’oltraggio che l’azione dell’uomo continua a fare alla natura. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Scene: Jack Fisk. Musica: James Horner.
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