Quattordici anni dopo la fondazione del malvagio Impero Galattico, un gruppo eterogeneo di ribelli (accomunati dall’odio per l’Impero) si unisce a bordo di un’astronave cargo di nome Spettro, entrando in contatto con le prime scintille dell’Alleanza Ribelle.
Z Nation è un serie televisiva post-apocalittica horror statunitense creata da Karl Schaefer e Craig Engler. La serie è prodotta da The Asylum per la rete via cavo Syfy. La prima stagione, composta da 13 episodi, ha debuttato il 12 settembre 2014. La serie è stata rinnovata per una seconda stagione.[1] In Italia la serie è trasmessa dal 10 giugno 2015 sul canale AXN Sci-Fi.
Tre anni dopo lo scoppio di un’apocalisse zombie, un gruppo di sopravvissuti dovrà riuscire a portare sano e salvo in California l’unico uomo che può fermare l’ epidemia, ovvero l’unico a cui è stato iniettato un vaccino sperimentale grazie al quale non si è trasformato dopo essere stato morso. Ma dovranno vedersela con tanti pericoli e segreti
La vita dello studente universitario Nasir ‘Naz’ Khan, di origine pakistana, precipita nel caos quando una sera esce da casa sua nel Queens di New York e ruba il taxi del padre per raggiungere una festa a Manhattan. Naz finisce per perdersi e per dare un passaggio a una ragazza con cui trascorre la serata a base di sesso e droga. Quando nel cuore della notte si risveglia confuso nella cucina di Andrea, sale in camera per salutarla ed andarsene ma la trova morta sul letto in un bagno di sangue.Incastrato dall’arma del delitto e diverse testimonianze, Nasir si affida all’aiuto di un avvocato caduto in disgrazia, John Stone, per dimostrare la sua innocenza al processo.
Scritto da Bridget O’Connor (cui il film è dedicato) e Peter Straughan dal romanzo (1974) di John le Carré, già trasposto in una serie TV (1979 – 7 puntate) di grande successo, famosa anche per l’interpretazione di Alec Guinness come George Smiley (qui Oldman): il più maturo degli agenti del MI6 (il servizio segreto dello spionaggio britannico) per le sue competenze e conoscenze è incaricato di scoprire tra i colleghi la talpa infiltrata dal KGB sovietico. La regia è dello svedese Alfredson di cui in Italia s’è visto soltanto Lasciami entrare (2008). Condensare in 2 ore una vicenda con una quarantina di personaggi che nella serie TV dura più di 400 minuti non era facile. Per gustare questo film antispettacolare – dove le spie non sono acrobatici eroi da missioni impossibili, ma mediocri burocrati che separano il dire dal fare, la verità dalla realtà; organizzato in ellissi, ricco di dettagli e di analisi psicologica, affidato a una puntigliosa ricostruzione d’epoca (1973-74 in Inghilterra, a Budapest, a Istanbul) – bisogna saper rinunciare alla voglia di capire quel che sta succedendo per apprezzarne il clima minaccioso di grigiore, squallore, sospetto, sfiducia e malinconia e godersi gli attori.
All’inizio della seconda guerra mondiale Walter Schellenberg, giovane generale delle SS, ha l’idea di trasformare il “salon” (bordello di lusso) gestito a Berlino da Kitty Schmidt, in una centrale d’ascolto e di sorveglianza, sostituendo le professioniste del sesso con dilettanti scrupolosamente selezionate, di sicura fede nazional-socialista. Da questo fatto vero di cronaca il poliedrico sceneggiatore Ennio De Concini sviluppa una fiction dove nel lupanare nazificato del potere nasce l’amore con l’iniziale maiuscola e si diffondono idee di libertà e ribellione. Da questo cocktail di sesso, nazismo, svastica e perversioni erotiche (di moda sullo schermo negli anni ’70 dopo il successo di Portiere di notte ) T. Brass cava un film per uomini soli con un apporto figurativo di prim’ordine dove bisogna continuamente levarsi il cappello per salutare il passaggio di Visconti, Bertolucci, Cavani, Chaplin, Barbarella, l’ Histoire d’O , Arancia meccanica , Cabaret , persino Freaks e la commedia all’italiana. Bocciato dalla censura amministrativa, ottenne il visto di circolazione dopo aver subito 16 tagli concordati tra i censori e il produttore Giulio Sbragia. Inutilmente Brass cercò per vie legali di far togliere il suo nome dai titoli.
Il piccolo Matt Murdock è cresciuto assieme ad un padre pugile, talmente forte da farsi chiamare “Devil”, ma non abbastanza tenace da evitare loschi affari malavitosi. Quando Matt scopre che il papà è al servizio del boss cittadino, fugge via deluso. È l’ultima cosa che vede perché un incidente con un materiale radioattivo lo rende cieco, potenziandone tutti gli altri sensi.
Mr. Fogg scommette con gli amici che farà il giro del mondo in soli 80 giorni. Alla fine la scommessa sembra perduta per sole 24 ore. Sorpresa finale. Tratto dal romanzo (1873) di Jules Verne non è un film, ma un filmone, un filmissimo. 160 giorni di lavorazione e più di 40 star compaiono nel viaggio. Niven è impeccabile, la MacLaine sprecata e Cantinflas eccede. Prodotto da Michael Todd che ne è il vero autore, girato in Todd AO, incassò 23 milioni di dollari, ebbe 5 premi Oscar (miglior film, sceneggiatura, fotografia, musica, montaggio). Rifatto come miniserie TV. “È un film come qualsiasi altro, soltanto due volte più lungo… le scene di treni e piroscafi sembrano infinite” (D. Robinson).
Finito il liceo e indecise su che cosa fare, Enid (Birch) e Rebecca (Johansson) passano l’estate vivacchiando nello scontento. Rebecca, la più bellina, si conforma presto al mondo degli adulti, mentre Enid – più esigente e creativa – ha idee precise su che cosa non le piace e perfidamente le esprime, si veste da punk e ama i film degli anni ’60. Al posto dell’amica subentra il quarantenne Seymour (Buscemi), asociale e incompreso come Enid, collezionista maniacale di dischi jazz e di affissioni del passato remoto. Simpatico nel suo garbo, ma anche aguzzo nel mettere in immagini il supermercato suburbano della cultura di massa cui allude il titolo, Zwigoff l’ha scritto con Daniel Clowes ai fumetti del quale si è ispirato. Lo si vede nell’impostazione figurativa dell’agrodolce commedia, non lontana nei toni e nella lucidità critica dalla narrativa di Don DeLillo.
Strano oggetto cinematografico The Wholly Family. L’ultima fatica di Terry Gilliam- breve ma intensa, 5 giorni di set- è un cortometraggio prodotto da Pasta Garofalo, già molto attiva nel product placement e con all’attivo opere brevi di Edo Tagliavini, Pappi Corsicato e Valeria Golino, il cui Armandino e il MADRE ha anche portato a casa un Nastro d’Argento. Pur essendo un’azienda nota per la sua ottima pasta a finanziare il progetto, però, il lavoro dell’ex Monty Python risulta incompleto e farraginoso, cucinato male nonostante tutti gli ingredienti siano giusti. Risulta evidente da due-tre momenti niente male, come l’assalto dei Pulcinella al bambino (Nicolas Connolly) o il finale apparentemente pacificato e in verità perfido. Anche perché è proprio in quei fotogrammi che si vede e si sente tutto l’autore di Brazil e Parnassus.
Su un carro trainato dai cavalli e con un gruppetto di attori, Parnassus porta in giro nella Londra di oggi uno spettacolo dove c’è uno specchio magico: chi lo attraversa esaudisce desideri segreti e si trova nei territori meravigliosi del proprio inconscio. Parnassus ha fatto un patto col diavolo, ottenendo l’immortalità in cambio dell’anima della figlia Valentina quando entrerà nel 16° anno di età. Fanno una scommessa: il primo che riuscirà a conquistare 5 anime, portandole dalla sua parte, avrà la vittoria. Il disperato Parnassus vince grazie all’arrivo del giovane Tony, dal passato oscuro. Dopo 4 settimane di riprese, Ledger, interprete di Tony, morì in tragiche circostanze. Il visionario regista lo sostituì, in sequenze mirate, con 3 attori famosi (Depp, Law, Farrell). Didascalia finale: “Un film di Heath Ledger e dei suoi amici”. 3° film di Gilliam scritto con Charles McKeown, è un’altra riflessione sul rapporto tra realtà e fantasia, ma anche una metafora sul “tema delle due vie: la via dell’uomo e quella del diavolo”. In entrambe, però, si notano forzature e indecisione, qualcosa di irrisolto. Costo: 30 milioni di dollari. Fotografia: Nicola Pecorini. Scene: Anastasia Masaro. Effetti (molto) speciali della londinese Pearless Camera Co. Spicca Waits che fa un diavolo travestito da Mr. Nick.
Vincent La Guardia Gambini (Pesci), avvocato alle prime armi di Brooklyn, è chiamato a Wahzoo City (Alabama) a difendere un suo giovane cugino (Macchio) e un amico (Whitfield), accusati di omicidio. Il suo fantasioso modo di vestirsi e l’ignoranza delle procedure penali non fanno buona impressione sul giudice (Gwynne), ma molto lo aiuta la sua pepata fidanzata Mona Lisa Vito (Tomei). Il pittoresco e vulnerabile machismo mediterraneo di Vinny non basterebbe a sostenere la commedia, ma la sceneggiatura di Dale Launer, anche produttore, è efficace nel disegno dei personaggi di contorno. Film Fox di poche pretese, ma divertente. Ottimi duetti. Oscar per l’attrice non protagonista alla Tomei.
Le madornali e iperboliche imprese del barone di Münchhausen hanno 3 fonti tutte tedesche del Settecento (il vero barone Karl Friedrich Hieronymus von M., l’erudito Rudolph Erich Raspe e il poeta Gottfried August Bürger), furono illustrate da G. Doré nel 1862 e portate sullo schermo già nel 1911 (G. Méliès), 1913 (E. Cohl), 1914 (muto italiano), 1943 (J. von Backy), 1962 ( Baron Prasil ). Con 40 milioni di dollari e collaboratori di prim’ordine (D. Ferretti scenografo, G. Pescucci costumista, G. Rotunno operatore), Gilliam ha rimanipolato la vecchia materia all’insegna del meraviglioso su grande scala, iniettandovi l’umorismo stravagante di Lewis Carroll e la buffoneria esorbitante dei Monty Python. Effetti speciali strabilianti.
Insieme a Mad Max e Walkabout, Wake in Fright è ampiamente riconosciuto come uno dei film più importanti nello sviluppo del moderno cinema australiano. Diretto da Ted Kotcheff (Rambo), il film racconta il declino morale di un insegnante inglese.
In una villetta sulla Costa del Sol catalana un ex malavitoso londinese si gode in pace, con la sua donna, i risparmi. Ma è costretto a tornare al lavoro ai danni di una inviolabile banca di Londra che è anche, nella storia del cinema, oggetto del primo colpo grosso bancario eseguito sott’acqua. La sequenza è ingegnosa e spettacolare, ma il meglio del film è nella prima ora al sole del Mediterraneo col duello verbale tra il corpulento e pacioso R. Winstone e il serpigno, minaccioso B. Kingsley, nella cura dei personaggi di contorno, nel retrogusto amarognolo e angoscioso della storia. Sceneggiato dagli stessi autori di Gangster N° 1 , diretto dal televisivo J. Glazer, prodotto da Jeremy Thomas, è uno dei migliori film del recente filone gangsteristico britannico. Titolo fuorviante.
Un uomo torna dal Vietnam dopo otto anni di prigionia e trova che la sua famiglia è stata sterminata. L’uomo che era in condizioni psicofisiche miserande, ritrova tutte le sue energie per condurre una lenta, elaborata vendetta nei confronti degli assassini della moglie e del figlio. Scritto da Paul Schrader ( Il bacio della pantera).
Jon e Wendy, fratello e sorella, vivacchiano a New York in uno stato di ordinaria non-felicità. Jon, docente di letteratura, da anni alle prese con un denso saggio su Brecht, vive con una polacca. Quando a lei scade il permesso di soggiorno, potrebbe sposarla, ma la lascia ripartire. Wendy scrive copioni teatrali che nessuno rappresenta né pubblica, campa con lavori precari e stratagemmi meschini e ha una relazione stracca con un uomo sposato. La loro vita ha uno scossone quando devono occuparsi del vecchio padre scorbutico, che non si è mai occupato di loro, in preda a demenza senile e senza casa. I film sulla vecchiaia – alcuni grandi – non hanno mai avuto successo di pubblico. È rimossa dentro di noi, forse, più che la morte. In questo film che pur è una commedia, amarissima, sugli orrori dei rapporti umani, la Jenkins mette una sequenza notevole – il viaggio in aereo di Wendy con il padre. La vecchiaia non era mai stata raccontata al cinema così impietosamente, ma senza cinismo: Senectus ipsa est morbus . Dialoghi affilati, due protagonisti in gara di bravura. “Ogni vita – scriveva Scott Fitzgerald – è beninteso un processo di demolizione”.
Nel 1935 la famiglia McCourt – padre, madre e 4 maschietti – lascia Brooklyn per tornare a Limerick, la città più santa e piovosa dell’Irlanda cattolica, dove Frank, il maggiore dei figli, passa dall’infanzia all’adolescenza in una miseria nera illuminata dalla presenza della madre Angela e dalla volontà di tornare negli Stati Uniti. Tratto dall’autobiografia (1996) di Frank McCourt, premio Pulitzer, sceneggiato da A. Parker con Laura Jones, è il film più algofiliaco e umido uscito da Hollywood alla fine del secolo, ma anche uno dei risultati più felici per coesione narrativa e intensità figurativa nella diseguale carriera del regista londinese. Nell’aggirare le trappole del verismo e del moralismo (nessun personaggio è giudicato, anche se nel sottotesto è esplicita la denuncia dell’ottuso e meschino cattolicesimo irlandese), raggiunge una sorta di eroismo tragico, evidente nella figura di Angela. Efficace direzione degli attori e notevoli i contributi della fotografia in grigio-verde (M. Seresin) e della musica (John Williams).
Il Robin Hood di Richard Lester è diverso dagli altri ‘principi dei ladri’ rappresentati sul grande schermo: è un ultraquarantenne non più tanto aitante che a distanza di vent’anni, dopo un lungo esilio, torna tra le foreste di Sherwood. Ad attenderlo c’è il grande amore, Marian (una ritrovata Audrey Hepburn dopo 9 anni di pausa dal cinema), che nel frattempo è diventata la badessa di un convento. Non sarà l’unico film sul leggendario eroe popolare inglese che vede Connery tra i protagonisti. Quindici anni dopo l’attore comparirà anche in un cameo nel celebre Robin Hood principe dei ladri, pellicola del 1991 diretta da Kevin Reynolds con Kevin Costner, Mary Elizabeth Mastrantonio e Morgan Freeman.
Quando una giovane escursionista si imbatte in una fattoria isolata dopo aver perso la sua strada sull’Appalachian Trail, viene accolta da una strana ma bellissima coppia. I due ospiti nascondono però un terribile segreto.
Per aggiudicarsi il titolo di Lord, simpatico mascalzone deve sbarazzarsi di otto consanguinei concorrenti. Ottenuto lo scopo e vicino a un ricco matrimonio, è condannato a morte per un delitto che non ha commesso. Graziato, commette un errore fatale. Dal romanzo di Roy Horniman, un classico della commedia britannica postbellica e un gioiello satirico di umor nero. Un po’ datato, ma come un mobile antico. A. Guinness in 8 parti.
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