Sottoproletario romano vive alle spalle di una prostituta che finisce in galera. Ne trova un’altra, se ne innamora e cerca un lavoro. Buono o cattivo, onesto o disonesto, è sempre uno che sta “fuori”. Il 1° e, forse, il migliore dei film di Pasolini, che vi trasferisce la tensione etica e formale dei suoi romanzi sul sottoproletariato romano. È un dramma epico-religioso che tocca il mistero “scandaloso” della Grazia. Cammei di Sergio Citti nel ruolo di un cameriere, di Elsa Morante in quello della detenuta Lina e della giornalista Adele Cambria in quello della madre popolana. Fotografia: Tonino Delli Colli; scene: Flavio Mogherini; musica: 4 brani di J.S. Bach, amatissimo da Pasolini.
Il capostazione Roubaud accecato dalla gelosia uccide un corteggiatore della moglie Sévérine. La donna s’innamora di Jacques Lantier, un ferroviere, e lo incita ad assassinare il marito per liberarsene. Il ferroviere ucciderà invece Sévérine e si getterà sotto un treno. Tratto dal romanzo di Émile Zola e sceneggiato dallo stesso Renoir, questo film è uno dei più riusciti del grande regista francese, che appare anche come attore nel ruolo di Cabuche, un bracconiere. Jean Gabin che aveva appena terminato di girare Il porto delle nebbie è qui in uno dei suoi ruoli più felici. Questo film fu rifatto da Fritz Lang nel 1954 in chiave prettamente americana con il titolo La bestia umana (Human Desire) con Glenn Ford, Broderich Crawford e Gloria Grahame; e con minor efficacia nel ’57 da Daniel Tinayre con il titolo Ossessione di sangue con Massimo Girotti.
Zona del lago di Como, inverno 1944. Silvio Magnozzi, partigiano romano, sul punto di essere ucciso da un tedesco, viene salvato da Elena, figlia della proprietaria di un albergo. Silvio si nasconde per qualche tempo in un mulino abbandonato, Elena gli porta da mangiare, nasce una relazione. Una notte l’uomo sparisce e lo ritroviamo a Roma dopo la Liberazione. Lavora in un giornale comunista e un giorno viene incaricato di fare un servizio sull’oro di Dongo, che è molto vicino al paese di Elena. Silvio telefona, Elena lo insulta, ma poi si presenta all’appuntamento e i due vanno a Roma insieme. Da quel momento l'”idealista” Magnozzi vivrà tutte le vicende chiave dell’Italia di quegli anni: il referendum che vede la vittoria della Repubblica, le elezioni del 18 aprile ’48 (quelle della paura comunista), le lotte di classe che lo porteranno in prigione, l’integramento nella ditta del suo vecchio, ricco nemico. Nel frattempo il matrimonio con Elena, donna pratica, ha avuto i suoi problemi. Titolo chiave di un’epoca del nostro cinema. La guerra e il dopo immediato visti quindici anni più tardi. Altri grandi film sulla guerra, come Tutti a casa e Il generale della Rovere, sono di quel periodo. Non ci sarebbe mai più stato un Risi come quello (ricordiamo Il sorpasso e I mostri). Alcuni episodi della Vita sono nel grande libro del cinema italiano: la cena in casa dei principi proprio al momento dell’annuncio che il re ha perso il referendum; Sordi che cerca di dare, disastrosamente, un esame di ingegneria, oppure ubriaco, a Viareggio, che sputa alle macchine che gli passano vicino; e ancora la scena finale del solenne schiaffo dato al commendatore che finisce in piscina. Magnifica stagione, corale, del cinema italiano (dei Monicelli, Risi, Comencini). Certo, più tardi ci sarebbero state le grandi individualità degli autori e dei “poeti” come Antonioni, Fellini e Pasolini, ma Silvio Magnozzi è il magnifico rappresentante delle cose che noi italiani abbiamo fatto, non solo sognato.
Un film interessante liberamente tratto dal Pigmalione di G.B. Shaw; uno studioso americano in Grecia rimane affascinato dalla classica bellezza di una prostituta.
Nella Parigi del 1870 la marchesa di Merteuil (Bening) e il visconte di Valmont (Firth) congiurano per indurre all’adulterio Madame de Tourvel (Tilly) e far perdere la verginità all’ingenua Cécile (Balk). Dal romanzo epistolare in 175 lettere Les liaisons dangereuses (1782) di Choderlos de Laclos che ispirò Relazioni pericolose (1960) di Vadim e Le relazioni pericolose (1988) di Frears, il cecoslovacco Forman, attivo a Hollywood dal 1971, ha tratto un film elegante, sinuoso, persino romantico che guadagna in grazia e finezza quel che perde in crudeltà e dissolutezza. Ha abbassato l’età dei personaggi, attenuato la divisione manichea tra carnefici e vittime, messo la sordina alla perversità della marchesa e al cinismo di Valmont. Su sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, il film sceglie come cuore della storia i rapporti tra Merteuil e Valmont che, come si evince anche da Laclos, si sono appassionatamente amati prima che l’azione cominci. Fu lui probabilmente a tradire per primo il loro amore. In questa chiave Valmont, ucciso in duello, paga con la vita il male che le ha fatto con un suicidio per interposta persona. I più tra i critici hanno condannato il film, preferendo quello di Frears, e il pubblico l’ha ignorato. Ci si augura che il tempo dia ragione ai meno.
The Gilded Age è una serie televisivastatunitense creata da Julian Fellowes e ambientata durante la Gilded Age degli Stati Uniti, nel decennio degli anni ’80 del 1800 a New York. Originariamente annunciata nel 2018 per NBC, nel maggio 2019 è stato comunicato il suo trasferimento su HBO.[1] La serie ha debuttato il 24 gennaio 2022
La trama ruota attorno a Marian Brook, figlia orfana di un generale sudista che va a vivere dalle zie a New York. Accompagnata dalla misteriosa Peggy Scott, una donna afro-americana travestita da domestica, la ragazza rimane coinvolta nelle allettanti vite della ricca famiglia che vive nella casa accanto alla sua, composta dal magnate delle ferrovie George Russell, dal figlio Larry e dall’ambiziosa moglie Bertha.
Nel 1927 a Hollywood un famoso attore che fa coppia sullo schermo con un’attrice antipatica supera il difficile passaggio dal muto al parlato con l’aiuto di un amico e l’amore di una cantante. Una delle migliori commedie musicali nella storia di Hollywood, meno pretenziosa di Un americano a Parigi e meno spettacolare di Un giorno a New York, ma superiore a entrambi per vivacità, umorismo, armonia tra le parti. Grande classe a livello coreografico, molte invenzioni a quello registico, memorabili numeri comici di D. O’Connor. Nemmeno un Oscar.
Cecil Blount De Mille è un regista che ha firmato opere di grandissima popolarità che, paradossalmente, non sono le sue migliori. Tutti ricordano i suoi “colossi” come Sansone e Dalila, ma personalmente ritengo che De Mille abbia dato il meglio nei western, dove aveva una sua misura particolare e grande riconoscibilità. Basta ricordare La conquista del West, un western del ’36 già perfettamente adulto, tre anni prima di Ombre rosse, e poi La via dei giganti, Giubbe rosse e Gli invincibili, quasi tutti con Gary Cooper. Tuttavia dicendo De Mille si dice Dieci comandamenti, che è un’opera meritevolissima, beninteso, un titolo che non ha mai trovato posto in nessuna delle classifiche nobili, proprio per le sue caratteristiche di troppa spettacolarità, popolarità, artificio. De Mille voleva soltanto piacere al pubblico, dargli ciò che voleva. John Ford riconosceva questa sua capacità, e in un certo senso gliela invidiava. Nei Dieci comandamenti tutto è perfetto: l’aspetto degli attori, i costumi, le armi, la natura, gli edifici, i trucchi, la musica, le inquadrature. È tutto così stilizzato e calligrafico da far invidia al più avanzato dei registi pubblicitari.
In una bella casa sul mare vivono George, mezza età, e Nathalie, moglie giovane. Appare un precedente fidanzato di lei, che poi viene trovato morto. Chi sarà stato? Da quel momento tutto succede. Chi è buono? Chi è cattivo? Un parziale remake de La congiura degli innocenti di Hitchcock. Gli attori ci sono, ma il film presume troppo e alla fine delude.
Per recuperare un delfino, mascotte dei Miami Dolphins, trafugato alla vigilia del Superbowl (finalissima del campionato di football), si ricorre a un detective specializzato in ritrovamento di animali. J. Carrey, comico TV di veloce parlantina e di istrionismo anfetaminico, è una sorta di Jerry Lewis in perenne stato di agitazione chimica al servizio di una farsa sgangherata, condita di battutacce grevi e di rozze gag. Campione d’incasso sui mercati di lingua inglese. Costernante.
Elizabeth rompe con un compagno con cui è stata a lungo e si confida con Jeremy, il proprietario di un caffè che se ne innamora. Ma la ragazza lascia New York per un viaggio le cui tappe sono scandite dalla ricerca di un lavoro, il desiderio di poter acquistare un’auto e il bisogno di curare le ferite interiori. Incontrerà storie di individui che la faranno crescere e la porteranno a uno sguardo nuovo sul mondo. Forse più libero o forse ancor più legato a qualcuno e quindi positivamente ‘libero’. Ancora un viaggio nei sentimenti quello del regista cinese divenuto da tempo uno dei Maestri del cinema. Alla sua prima prova in lingua inglese Wong Kar Wai dichiara: “Talvolta la distanza tangibile tra due persone puo’ essere minima ma quella emotiva enorme. Il mio film vuole essere uno sguardo rivolto a quelle distanze sotto varie angolazioni”. Dopo il suo capolavoro In the Mood for Love sembrava essere divenuto prigioniero di un formalismo che rischiava (vedi 2046) di ottundere la sua capacità di narratore di emozioni spesso a rischio di implosione. In Un bacio romantico torna a produrre vibrazioni pur non rinunciando a una ricerca estetica estremamente raffinata ma nuovamente non fine a se stessa.
1966. Hong Kong è sull’orlo della guerra civile. Il signor Chow, un giornalista e autore di romanzi, torna in città dopo essere stato a Singapore. E’ alla ricerca di Su Li-Zhen, un antico amore, e trova alloggio in un alberghetto non rinunciando a cercare compagnia femminile. Sta scrivendo un romanzo su un futuro in cui sarà possibile ritrovare i ricordi perduti. L’anno sarà il 2046, suggerito dal numero della stanza accanto alla sua. Mentre si trova nell’hotel ha una relazione con due donne in successione: la figlia del proprietario innamorata di un giapponese e Bai Ling, una prostituta che si innamora di lui. Nella sua vita entrerà anche una nuova Li-Zhen. 2046: una data, un titolo di romanzo, un numero. Nel 2046 Hong Kong, dopo l’amministrazione speciale iniziata nel 1997, tornerà a far parte definitivamente della Repubblica Popolare Cinese. Per Wong Kar-wai questo anno cruciale diventa rappresentazione di un futuro ipoteticamente felice ma dal quale si desidererà fuggire per tornare nella realtà. Una realtà che prende le mosse da una stanza inizialmente luogo inesplorato e poi spazio in cui poter entrare sapendo che c’è una via d’uscita. La quale si rivelerà però soltanto fisica perché i personaggi dei film del regista nato a Shanghai finiscono sempre con il rimanere prigionieri delle storie che hanno vissuto anche se apparentemente pretendono di liberarsene attraverso il sesso praticato con altri o, come in questo caso, con il gioco d’azzardo. Non è un caso che la donna cercata in 2046 abbia lo stesso nome di quella perduta in In the Mood for Love anche se qui si presenta come altre due figure femminili che portano lo stesso nome. Il mondo di Won Kar-wai è fatto di interni in cui la luce ha un ruolo predominante e la composizione dell’inquadratura si avvale di una definizione curata al millimetro. Ci sono spesso elementi della scenografia che sottolineano i rapporti tra i personaggi così come, altrettanto spesso, il buio domina occupando un terzo dello schermo, quasi assorbendo in sé il non detto dei personaggi. Perché la dimensione estetica nel suo cinema assoggetta l’intero processo creativo rischiando talvolta di raggelare la tensione emotiva che è sempre elevata. Il signor Chow scrive romanzi concettuali che si ispirano alla vita così come Wong Kar-wai scrive sceneggiature complesse che diventano film. Entrambi pensano di difendersi in questo modo dal sentimento che invece prevarica il loro volere a dispetto di qualsiasi eccesso di estetismo.
Due storie solo apparentemente parallele nella notte di Hong Kong. Da un lato il rapporto tra il killer Ming e la partner Agent (puramente professionale per il primo, morbosamente passionale per la seconda), dall’altro le vicende tragicomiche di Ho, un muto che vive di espedienti e cerca l’amore. Fallen Angels recita il titolo originale, ovvero angeli “caduti” e non “perduti”, come vuole la banalizzazione del titolo italiano. In una sola parola muta inesorabilmente il senso del tratto con cui Wong Kar-wai modella alcune esemplari solitudini metropolitane. In origine si trattava di due episodi rimasti esclusi da Hong Kong Express, poi cresciuti a dismisura sino a divenire un film a sé, in cui Wong potesse portare alle estreme conseguenze la sua poetica. Se il capostipite lavorava di fioretto, ritraendo delicate e romantiche storie d’amore, Angeli perduti ne rappresenta l’oscuro contraltare, sensuale dove l’altro era pudico, spudorato dove l’altro giocava di sottrazione; aggressivo tanto nello stile – uso e abuso del grandangolo e della camera a spalla – che nell’esasperazione gridata dei contenuti e del fine ultimo. La consapevolezza autoriale di Wong Kar-wai appare ormai evidente e a tratti compiaciuta, ma le accuse di manierismo rivolte al film sminuiscono la potenza di un’opera in cui il senso profondo dell’incomunicabilità e della morte al lavoro raggiunge il suo acme. Attraverso i rimandi osmotici e le strizzatine d’occhio con Hong Kong Express – l’ananas scaduto, Lei che pulisce la casa in assenza di Lui, la condivisione di topoi e situazioni – Angeli perduti celebra la definitiva fine dell’illusione (della felicità), esaltando fino a svuotare di significato l’eroismo di personaggi teorici e astratti sino a sembrare degni di Antonioni (anche se si muovono con lo step-framing dell’action di Hong Kong). La felicità, effimera e forse illusoria, come una boa a cui aggrapparsi disperatamente, nel nulla (pieno di cose) della metropoli.
Un poliziotto messicano, Vargas, affianca un ispettore americano, Quinlan, nelle indagini sull’uccisione di un ricco proprietario terriero. Ben presto Vargas scopre che Quinlan ha un’idea tutta sua della giustizia e che non esita a falsificare le prove pur di far combaciare la realtà con le sue convinzioni. La verità alla fine trionfa, ma non senza difficoltà. Da un “giallo” di Whit Masterson. Questo titolo è diventato, nel tempo, un vero culto per gli appassionati. Pur non essendo considerato una delle opere fondamentali del regista, contiene alcune soluzioni di linguaggio richiamate anche nelle scuole di cinema. Molto citato è il piano sequenza di dodici minuti dell’inizio. E anche le acrobazie di Charlton Heston nel finale quando pedina Quinlan cercando di registrare la sua voce per incastrarlo. L’aneddotica racconta di Marlene Dietrich, che non era prevista nella sceneggiatura, in visita casuale sul set, inserita estemporaneamente nella parte della zingara. La produzione impose al regista alcune scelte non gradite. Welles disse: “mi hanno dato Heston, biondo di un metro e novanta, per fare un poliziotto messicano”. Nel 2001 il film è stato rimasterizzato e ricomposto nella colonna sonora. È stato distribuito nel grande circuito in edizione originale sottotitolato. Il pubblico, soprattutto giovane, ha risposto bene.
Nella notte tra il 14 e il 15/11/1959 due giovani in libertà vigilata entrano in una casa isolata di Holcomb (270 abitanti, Kansas) a scopo di furto e fanno strage della famiglia Clutter (padre, madre, due figli). Il 30 dicembre sono arrestati. Rei confessi al processo, sono giustiziati il 14/4/1965. L’anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo-documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti. 4 candidature agli Oscar: sceneggiatura, regia, fotografia (Conrad Hall), musica (Quincy Jones). Nel 1996 ne fu fatta una versione TV, regia di Jonathan Kaplan.
A causa della suocera e di un intraprendente vicino di casa, due freschi sposini cominciano a litigare. La riconciliazione avviene nel parco. È lui quello a piedi nudi. La divertente e tenera commedia di Neil Simon, grande successo di Broadway, passa senza danni sullo schermo. Redford meglio della Fonda. Meglio di tutti la Natwick come mammà.
Due lottatrici di catch alle prese con un manager truffaldino e con un sottobosco di malavita e sfruttamento. Riusciranno a farcela e ad aggiudicarsi l’ambito trofeo. Robert Aldrich, maestro del cinema di violenza, per raccontare lo sport più sadico e crudele, il catch femminile, ha scelto la strada della commedia, con risultati solo qua e là brillanti.
3° capitolo di una trilogia sul “gelo emotivo dell’Austria” dopo Der siebente Kontinente (inedito in Italia) e Benny’s Video (passato solo su Raisat Cinema). Le vite di una mezza dozzina di persone si incrociano in una banca dove uno studente fa una strage senza motivi apparenti. Il 52enne regista-sceneggiatore, esordiente tardivo, espone un puzzle frantumato di fatti e personaggi che come tela di fondo hanno una situazione di alienazione. Si alternano frammenti di vita quotidiana con quelli di telegiornali su eventi di grande scalpore, come le vicende di Michael Jackson o la pulizia etnica in Bosnia, per suggerire che anche loro testimoniano nello stesso modo la volgarità e la falsificazione dei media. Con un linguaggio lucido e rigoroso che diventa quasi ipnotico, Haneke pone domande senza risposta, invoca valori (pietà, commozione, indignazione) di cui non c’è più traccia.
In un campo lavoro di una prigione californiana, un detenuto riesce a evadere grazie all’intervento di un alleato indiano. In fuga verso San Francisco, i due si lasciano alla spalle i cadaveri di alcune guardie e di un vecchio socio, prima di minacciare un membro della loro banda e sequestrarne la compagna per cercare di recuperare il mezzo milione di dollari di un vecchio colpo. Nel frattempo, la polizia incrocia per caso il loro percorso nelle stanze di un piccolo albergo della periferia e ne nasce una sparatoria. Fra i poliziotti presenti sul luogo c’è Jack Cates, detective giustiziere nonché bevitore e fumatore compulsivo, che, per un’esitazione di troppo, causa la morte di un agente e la fuga dei due rapinatori. Ormai screditato e colpevolizzato dall’intero dipartimento, Jack decide di agire privatamente coinvolgendo un altro membro della banda finito in prigione: Reggie Hammond, ladruncolo chiacchierone agli ultimi sei mesi di detenzione, cui vengono concesse quarantotto ore di libertà su parola per aiutarlo a trovare i due criminali.
Conquistato dal fascino della statua della Venere d’Anatolia, splendida e altera seppur inanimata, il vetrinista Eddie (Robert Walker) la bacia e assiste sgomento alla sua trasformazione in una donna bellissima e sensuale (Ava Gardner). Da quel momento la sua vita diventa un continuo susseguirsi di contrattempi, di avventure ed equivoci provocati, suo malgrado, proprio dalla Dea dell’Amore…
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