Miliardario pluridivorziato s’innamora di una francese nobile e squattrinata che accetta di sposarlo, ma solo per rendergli la vita impossibile e dargli una lezione. Da una commedia di Alfred Savoir, già filmata nel 1923, qui sceneggiata da B. Wilder e C. Brackett, è un Lubitsch con il ritmo veloce e il cinismo di un Hawks. Con Desiderio (1936), Angelo (1937) e Ninotchka (1939), costituisce un piccolo trattato lubitschiano di economia politica sul fascino discreto del capitalismo.
Alfred Kralik (James Stewart) lavora come commesso nel negozio di regali ‘Matuschek’s’, il ‘negozio dietro l’angolo’ che dà il titolo al film, ed è innamoratissimo di una ragazza che non ha mai conosciuto di persona, ma con la quale scambia una fittissima corrispondenza epistolare. Da ‘Matuschek’s’ lavora anche come commessa Klana Novak (Margaret Sullavan), e i due non si sopportano… ma non sanno che tra loro l’amore è già sbocciato per lettera: Klana infatti è proprio la ragazza che Alfred non ha mai conosciuto e per la quale ha perso la testa. Lubitsch, che ambientò la vicenda a Budapest, rimase particolarmente soddisfatto di questa commedia degli equivoci realizzata quando la seconda guerra mondiale era già iniziata, e contraddistinta da un mirabile equilibrio di ironia e romanticismo. Del film sono stati realizzati vari remake, tra cui il recente C’è post@ per te di Nora Ephron, con Meg Ryan e Tom Hanks, che trasporta la vicenda nel tempo della comunicazione via Internet.
Masaru e Shiniji sono due giovani indisciplinati che tornano a visitare la loro vecchia scuola ricordando i giorni in cui erano spensierati studenti. Entrambi compiono scelte di vita rischiose, tentando rispettivamente la strada della mafia giapponese e della boxe.
Cluny Brown, orfanella proletaria, conosce casualmente a Londra nel 1940 Belinski, scrittore polacco, rifugiato politico, e lo riincontra in casa degli aristocratici Carmel in una località di provincia dove sono entrambi elementi di disturbo. Penultimo film di Lubitsch, “opera singolare, di estremo interesse” (G. Fink) tratta da un romanzo di Marjorie Sharp. Romantico, divertente per la moltiplicazione di arrivi e entrate, la finezza delle gag, la garbata ironia sul rigido classismo britannico
La scrittrice tedesca Sandra Voyter sta rilasciando un’intervista nello chalet sulle montagne vicine a Grenoble dove vive insieme al marito Samuel Maleski e al loro figlio non vedente Daniel. La conversazione fra lei e la giovane giornalista divaga, ed è infine interrotta dalla musica a tutto volume suonata da Samuel. Qualche ora dopo Samuel viene trovato morto sul selciato innevato davanti allo chalet: si è gettato o è stato ucciso? Sarà questo il dilemma da risolvere attraverso un’indagine minuziosa e un processo complicato e seguitissimo dai media. Ad assistere Sandra, principale indagata, è l’avvocato Vincent Renzi, suo amico di lunga data, e ciò che emergerà dalle indagini, prima ancora che un verdetto, è il problematico rapporto coniugale fra Sandra e Samuel, che ha trovato il punto di rottura nell’incidente all’origine della cecità di Daniel.
Anatomy of a Fall utilizza i meccanismi del film di indagine quelli del “courtroom drama” per parlare d’altro: infatti non va valutato come esempio riuscito dei due generi, dei quali non ha la coerenza ermetica, ma come esplorazione metaforica di una relazione di coppia come questione supremamente percettiva.
La valutazione delle scelte di Sandra e Samuel diventa talmente divergente da formare due realtà parallele, e in mezzo c’è Daniel, che non può che pagare lo scotto della reciproca cecità fra i suoi genitori. La falsariga lungo la quale si muove la narrazione è quella fra finzione e realtà anche perché Sandra è una scrittrice di successo che attinge al suo privato (e alle idee del marito) con indelicata leggerezza, mentre Samuel vorrebbe esprimersi attraverso la scrittura ma non ne trova il tempo, lo spazio e la determinazione (e forse non ne ha neppure la capacità).
La regista francese Justine Triet alza parecchio il tiro rispetto al suo precedente Sibyl – Labirinti di donna nel creare una storia (scritta insieme all’attore e sceneggiatore Arthur Harari) tesa e inquietante che compie una scelta fondamentale: quella di ribaltare i ruoli di coppia tradizionali, non solo perché lei è un’autrice di successo e lui resta a casa ad occuparsi del figlio, ma perché le rimostranze dell’uno verso l’altra, scandagliate chirurgicamente in una delle scene principali del film, di solito vengono applicate a generi invertiti.
L’altro asso nella manica di Triet sono due superbi attori: Swann Arlaud nel ruolo dell’avvocato Renzi e soprattutto Sandra Huller in quello della protagonista sua omonima (il che fa venire il sospetto che la parte sia stata scritta su di lei): la sua risata, allo stesso tempo salvifica e ferina, è al centro di una caratterizzazione magistrale.
Sandra Voyter non si relaziona alle persone se prima non ne ha individuato l’archetipo animale, e quale sia l’archetipo di Samuel lo si capirà solo alla fine. Nel frattempo emergerà tutta la disfunzionalità di una coppia in cui le rinunce dell’uno in nome dell’altra (e viceversa) sono vissute come imposizioni mal tollerate, e di un sistema giudiziario che preferisce soffermarsi sul come che sul perché di certe derive destinate a finire in tragedia.
La trilogia originale di Star Wars è stata creata da George Lucas e distribuita nelle sale tra il 1977 e il 1983. Per il 20° anniversario del franchise nel 1997, Lucas ha introdotto notevoli cambiamenti all’interno dei film per affrontare la sua insoddisfazione per i tagli originali. Queste versioni, promosse come “Edizione speciale”, includevano scene aggiuntive, dialoghi diversi, nuovi effetti sonori e immagini generate al computer . Queste modifiche, insieme ad altre aggiunte nel 2004 e nel 2011, sono state riportate nelle successive versioni home video. A partire dal 2023 , le versioni cinematografiche originali non sono disponibili in commercio e non sono mai state rilasciate ufficialmente in alta definizione .
Le nuove modifiche sono state accolte con una risposta da mista a negativa da parte di alcuni critici e fan. Harmáček ha ritenuto che cambiare i film in questo modo costituisse “un atto di vandalismo culturale”. Nel 2010 ha iniziato a creare una ricostruzione in alta definizione delle versioni cinematografiche dei film. Lui e un team di altri otto fan hanno utilizzato le versioni Blu-ray del 2011 per la maggior parte del materiale, le versioni LaserDisc del 1993 a bassa definizione come guida alla versione originale e varie altre fonti. La prima versione è stata pubblicata online nel 2011 e da allora sono state rilasciate versioni aggiornate.
La bella Laura Hunt è trovata assassinata nel suo appartamento di New York con una revolverata che le ha sfigurato il viso. Il tenente McPherson indaga, appassionandosi al caso in modo ossessivo. Da un romanzo di Vera Caspary, sceneggiato da Jay Dratler, Samuel Hoffenstein e Betty Reinhardt. Film di culto per gli amanti del cinema nero: eleganza, decadenza, perversione, crudeltà, umorismo e una forte vena di necrofilia ne fanno un cocktail unico. Il motivo di David Raksin (“Laura”) incanta ancora oggi. Uno di quei film felici dove tutto concorre al risultato finale: regia, sceneggiatura, fotografia (J. LaShelle, premio Oscar), scenografia, musica. Alcune scene furono dirette da Mamoulian, poi sostituito dal produttore D.F. Zanuck con Preminger. 3 minuti tagliati poco dopo l’uscita del film sono stati reintrodotti in certe versioni video
Morta la moglie, Walter Kowalski – quasi 80enne reduce dalla guerra di Corea (1951-52), ex operaio della Ford – vive solo, con la cagna Daisy e una lussuosa auto Gran Torino modello 1972, da lui stesso assemblata, in un quartiere multietnico di Detroit, vicino di casa di una famiglia asiatica Hmong, perseguitata dai vietnamiti dopo il ritiro dei soldati USA. È cattolico, polacco di origine, malato ai polmoni, astioso contro tutti, patriota razzista, ma ancora capace di cambiare e di un ultimo atto d’amore. Scritto da Nick Schenk, non è solo, nella sua classica trasparenza, in linea con gli ultimi film di Eastwood (soprattutto Million Dollar Baby ), ma è ammirevole per la libertà con cui fa convivere la semplicità dello stile con la complessità dei temi, il pathos con l’ironia (e l’autoironia), la misantropia con lo spessore etico, l’odio con la tenerezza, la denuncia della violenza con il suo uso razionale, i rimorsi del passato con un filo di speranza nell’avvenire. Questo film che si apre e si chiude con un funerale fa riflettere sulla vecchiaia e la morte e rimane aperto alla vita e alla gioventù. Commuove senza sentimentalismi. Ricorre alle parolacce senza volgarità. Fa capire che la piccolezza umana può essere una grandezza. Fa aspettare lo spettatore con una sorta di suspense per poi sorprenderlo nel finale. L’esclusione dagli Oscar è un merito ma, come non capita spesso, non gli ha precluso il successo di pubblico. È un piccolo, grande film.
L’americano Robert Jordan, che milita nelle file repubblicane durante la guerra civile, deve partecipare a una missione per la distruzione di un importante ponte. Si unisce a un gruppo di partigiani e s’innamora di un’orfana, vittima della guerra. Tratto dal romanzo (1940) di Ernest Hemingway _ per il quale la Paramount pagò una cifra enorme per quell’epoca (150000 dollari) _ e sceneggiato da Dudley Nichols che puntò sul versante sentimentale del rapporto Jordan-Maria, sacrificando quello politico, è _ nel bene e soprattutto nel male _ un tipico prodotto dell’industria hollywoodiana quando si cimenta con la letteratura “alta” e argomenti storici impegnativi come la guerra civile di Spagna. La coppia Cooper-Bergman funziona; i capelli corti di lei lanciarono una moda. Scene del geniale W. Cameron Menzies. Girato nella Sierra Nevada. 9 nomination, ma 1 solo Oscar per K. Paxinou, attrice non protagonista.
Montréal, Canada, 1989. Laurence è uno stimato professore di letteratura in un liceo e un apprezzato romanziere esordiente. Nel giorno del suo 35esimo compleanno, confessa alla propria fidanzata – la grintosa regista Frédérique – che la sua vita è una totale menzogna. Laurence ha sempre sentito di essere nato nel corpo sbagliato. Donna costretta in abiti e attributi maschili, Laurence ha finalmente preso consapevolezza del bisogno di non mentire più, agli altri e soprattutto a se stesso. Fred, che sta con lui da due anni, è sconvolta. Ma la loro è una relazione di passione, affinità, complicità, stima, sostegno e un affetto profondissimo. Dopo un iniziale allontanamento, la coppia si ricompone: Laurence ama Fred comunque, a prescindere dal suo desiderio di diventare donna; Fred non può fare a meno di lui e desidera sostenerlo nel difficile percorso di transizione. Inizia, così, una nuova vita. Ma le ostilità e i pregiudizi che i due innamorati dovranno affrontare, nei dieci anni seguenti, metteranno più volte in discussione il loro rapporto straordinario. Può l’amore elevarsi così tanto da superare le differenze di genere? Esiste un sentimento talmente puro e accogliente da continuare ad ardere anche quando il corpo smette di diventare uno strumento di richiamo sessuale? Il terzo film di Xavier Dolan – giovane promessa del cinema canadese indie – pone domande a cui è arduo rispondere. Lo stesso regista non sembra interessato a proporre soluzioni ai molti interrogativi suscitati, così come non intende dare giudizi sulla storia narrata e sui personaggi che la abitano, così fuori dall’ordinario. A proprio agio con personaggi marginali, questa volta Dolan getta uno sguardo sulla marginalità più estrema, così poco raccontata anche dal cinema queer. La transessualità non è un soggetto facile e il regista, poco più che ventenne, sceglie di trattarlo nel modo più semplice e naturale possibile: filtrandolo attraverso le lenti del sentimento d’amore, che stempera la drammaticità e l’estremizzazione della vicenda di Laurence, uomo affermato che decide, in età non più giovane, di rinunciare a tutte le certezze acquisite, pur di vivere finalmente se stesso. La posta in gioco è altissima, perché Laurence si assume la responsabilità di rischiare tutto ciò che ha costruito: l’affetto della famiglia e degli amici, la stima sociale, un lavoro che lo riempie di soddisfazioni e soprattutto l’amore della sua anima gemella. Improvvisamente solo in una società che, nonostante la dichiarata apertura mentale, non è disposta a rinunciare alla propria facciata di perbenismo e conformismo, Laurence deve affrontare la diffidenza e il pregiudizio di chi un anno prima lo ammirava. Dolan rappresenta plasticamente questa condizione di reietto, con la falsa soggettiva che anima la sequenza iniziale del film, in cui il protagonista, vestito da donna, cammina per strada e la macchina da presa immortala gli sguardi stupiti, intimiditi o derisori che lo scrutano. Ma Laurence ha dalla sua la maturità e la consapevolezza di sé, oltre che la forza dell’amore, pur se la ferma volontà di andare fino in fondo comporta la necessità di rinunciare alla totalità di questo amore. Una totalità che i due attori protagonisti – Melvil Poupaud e Suzanne Clément, straordinari nei rispetti ruoli – rendono plasticamente, facendola pulsare davanti ai nostri occhi. La tenerezza e la sensibilità con cui il regista guarda a questa storia – da cui la parola “speciale” è bandita, perché indicatore di un perbenismo che non ha neppure il coraggio di manifestarsi apertamente – costituiscono la cifra artistica e insieme umana del film che segna il passaggio definitivo del giovane cineasta alla maturità, dopo le due sorprendenti ma acerbe prove precedenti. Laurence Anyways è l’opera di Dolan dal tema più estremo, eppure è la meno urlata, la più delicata. La più narrata e la meno estetizzante, anche se riconosciamo la consueta cura dell’inquadratura, dei costumi, dei colori, della colonna sonora (rigorosamente anni ’80 e ’90) e dei dialoghi. La più disperata, ma anche quella più intrisa di speranza. In definitiva, la più vera.
Bologna, 1858. Edgardo Mortara, un bambino ebreo di quasi sette anni, viene sottratto alla sua famiglia e consegnato al “Papa Re” Pio IX. La motivazione ufficiale fornita dal Diritto canonico è che a sei mesi il bambino era stato battezzato e dunque non può che ricevere dalla Chiesa un’educazione cattolica che lo “liberi dalle superstizioni di cui sono imbevuti gli ebrei”. I genitori di Edgardo, Momolo e Marianna, non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Ma Pio IX non teme la disapprovazione di nessuno, rispondendo alle richieste di restituire Edgardo alla sua famiglia con un “non possum” e il sorriso serafico di chi si ritiene al sopra delle umane regole. E nonostante il clima sia quello risorgimentale la Chiesa rimane inamovibile, contando sulla sua sedicente inviolabilità.
Messico 1866, durante la rivoluzione popolare contro Massimiliano d’Asburgo. Colonnello sudista e avventuriero cercano di impedire che una carrozza piena d’oro giunga nelle mani dei ribelli. Il fascino picaresco del film risiede nel vento delirante di follia che percorre il racconto manicheo, in un umorismo che non si smentisce nemmeno nei momenti più drammatici, in un erotismo sano, nella riflessione critica sulla Storia.
Stati Uniti, 1841. Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon infila un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, Solomon avanzerà nel cuore oscuro della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome.
Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l’adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall’altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s’è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d’alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l’Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare. Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all’inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord. Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l’ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente. Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva “giusto”, quando dire “bello” non aveva senso. Giustissimo, dunque. Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s’impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. “Ma – scrive Saviano – osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco”. Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per “sversarlo” altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.
Padre assente, madre malata e bisognosa di cure, famiglia numerosa. Per Kim Byung-doo non ci sono molti modi di sbarcare il lunario in tempi rapidi, per sé e per i suoi cari, che non passino dalla criminalità organizzata; e così Byung-doo cresce nelle gerarchie mafiose, accettando ogni missione. Quando nella sua vita si ripresentano l’amico fraterno Min-ho, aspirante regista cinematografico, e il suo amore adolescenziale Hyeon-ju, commessa di una libreria, per Byung-doo crolleranno molte certezze. Ignorando le ragioni precise che hanno portato a un simile titolo internazionale, A Dirty Carnival, si lavora di intuito. L’ambizione di ritrarre in un affresco il più possibile ampio e diversificato l’universo mafioso e i suoi molteplici corollari ha forse condotto il talentuoso Yoo Ha verso la visione di un grande circo, di uno spettacolo iterativo, un loop tragicomico senza via d’uscita; fatto di tradimenti, avidità, colpi bassi, violenza e servilismo. Uno sporco carnevale con mazze da baseball vere, per una maschera quasi clownesca, spesso triste e tumefatta, come quella di Byung-doo, tragico exemplum di manovalanza mafiosa. C’è qualcosa di neorealista nell’analisi compiuta da Haa, nell’annullamento dei valori nel nome del denaro, come nella fatica percepibile di tirare avanti e dare un senso a una vita che di senso non ne ha alcuno. L’uscita, un possibile piano B, sono banditi già dall’incipit, che rende evidente tanto la gabbia in cui vive Byung-doo che l’unica possibile via di fuga da essa. E se non è nuovo il fatto di mettere in scena il rapporto ambiguo tra cinema e gangster, finzione e verità (ripreso in seguito fin troppo abbondantemente in quel Rough Cut scritto da Kim Ki-duk e all’origine della crisi spirituale di Arirang), è al contrario originale la dinamica dei rapporti umani che ruotano attorno ad esso e il ruolo negativo del regista Min-ho, totalmente contiguo ai gangster per ambizione e mancanza di scrupoli. L’evidente cinefilia che Ha infonde in questo amaro racconto di formazione sembra richiamare il Doinel di Truffaut o il milieu zavattiniano, confermando la vocazione, già ammirata in Once Upon a Time in High School, di saper cogliere il lato più doloroso dell’adolescenza senza fermarsi alla superficie. In A Dirty Carnival Yoo Ha gioca la sua carta più ambiziosa e nichilista, consegnando un manifesto del cinema di genere destinato a resistere nel tempo, ben oltre la semplice variazione di un canone.
Un film di Kathryn Bigelow. Con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong. Thriller, durata 157 min. – USA 2012. – Universal Pictures uscita giovedì 7febbraio 2013. MYMONETRO Zero Dark Thirty valutazione media: 4,10 su 79 recensioni di critica, pubblico e dizionari. La caccia ad Osama Bin Laden è stata la missione che più ha impegnato l’America contemporanea, nel corso di un decennio abbondante e di due mandati presidenziali, e che più l’ha esposta, in termini di promesse e vendette, all’interno dei suoi confini e al cospetto del mondo intero. Questa è la storia di Maya, giovane ufficiale della CIA, armata d’intuito e di una determinazione dura a morire, che non si è lasciata fermare dai giochi di potere né dalle indecisioni o dallo scetticismo dei superiori ed è riuscita nell’impresa storica di trovare l’ago che pareva svanito nel nulla all’interno di uno dei pagliai più fitti, complessi e lontani dagli uffici di Washington che si potessero immaginare. Al di là del successo nel raccontare una storia nota con una tensione che non dà tregua, e oltre una regia di massima precisione, come un’arma intelligente guidata però da una mano umana scaldata dalla passione, c’è una considerazione banale nella sua evidenza che fa di Zero Dark Thirty un film raro e imperdibile: tanto nella ricostruzione quasi documentaristica dei metodi di lavoro dell’Intelligence, delle dinamiche maschili al suo interno, della solitudine al femminile, dell’impegno visivo, strategico e linguistico che ne sono parte integrante e che occupano per intero la prima parte del film, quanto nella grande sequenza dell’azione e nella difficile chiusura, non c’è nulla che manchi al film né nulla che sia di troppo. Non è una questione di realismo, ma una misura tutta interna all’opera, ottenuta con gli strumenti della scrittura e della messa in scena e i tempi del montaggio, che lo rende magnificamente esauriente e mai esondante. Non si dia dunque troppo credito a chi si lascia scandalizzare dalla sequenza della tortura in apertura, perché vorrebbe dire guardare il dito là dove la Bigelow indica la luna (tanto più che la realtà delle cose, in questi casi, è plausibilmente più cruenta). Eppure la sequenza ha la sua importanza, perché posiziona il personaggio di Jessica Chastain in un punto cruciale. La Chastain è il film, proprio in virtù del suo collocamento su un fronte duro, inscalfibile, totalmente dentro il proprio lavoro (come la regista dentro il suo) ma anche profondamente femminile, efficace là dove usa altre modalità per la caccia all’uomo, che non sono la forza bruta né l’intimidazione. Sta tutto lì, nel portarci a credere al cento per cento che dietro quella piccola donna dalla carnagione chiara e dal fisico inesistente c’è un killer che arriverà al bersaglio che nessun altro ha saputo avvicinare, il successo di Kathrin Bigelow e del suo cinema solo apparentemente “maschile”. Ciò non toglie che la regista riservi le uniche scene di palpabile umanità alla comunione maschile dei soldati prima dell’attacco, nelle bellissime sequenze dei giochi al campo o del silenzio tragicamente poetico in elicottero, ma il punto non cambia, perché Zero Dark Thirty non è una missione di pace, bensì la storia di una (magnifica) ossessione. Che Maya – personaggio solo vagamente ispirato alla realtà ma più che altro creato ad hoc – sia il film, e non solo la sua protagonista, lo testimonia anche la sua trasformazione fisica nella scena in cui indossa il chador sopra le All Star, che ad un certo punto sposta lo scopo dell’impresa dall’esterno verso l’interno del personaggio. Non è più, allora, la sicurezza della terra madre, né lo sventare nuovi devastanti attacchi, la priorità assoluta che la muove, bensì la fedeltà cieca a un obiettivo folle, come nella miglior letteratura cinematografica. Perché trovare Osama, per Maya, vuol dire prima di tutto trovare se stessa.
Un film di Jules Dassin. Con Robert Manuel, Jean Servais, Carl Möhner, Claude Sylvain Titolo originale Du Rififi chex les hommes. Giallo, Ratings: Kids+16, b/n durata 116 min. – Francia 1954. MYMONETRO Rififi valutazione media: 4,10 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Un gruppo di gangster, a Parigi, compie un colpo favoloso, praticando un buco nel tetto di una gioielleria e impadronendosi di un bottino enorme. Ma uno della banda, Cesare, regala un anello a una cantante, il cui amico, un gangster rivale, capisce la verità e scatena una caccia all’uomo per impossessarsi della refurtiva. Tra le due bande scoppia una guerra senza esclusione di colpi. Gli autori del furto, Tony il Laureato, Jo lo Svedese e gli altri finiranno tutti uccisi, non prima di aver creato larghi vuoti nella gang avversaria. Tratto da un famoso romanzo di August Le Breton, il film è divenuto celebre a sua volta, dopo essere stato premiato a Cannes, come uno dei migliori esempi di film poliziesco.
Il film si suddivide in 6 episodi. 1) Sicilia. Carmela, una ragazza di paese, fa da guida a una pattuglia americana per indicare un percorso in cui non si incontrino i tedeschi; 2) Uno sciuscià ruba le scarpe a un MP americano ubriaco. Questi lo ritroverà ma avrà un’amara sorpresa; 3) Roma. Francesca, giovane prostituta per necessità, incontra un soldato americano che aveva conosciuto il giorno della liberazione; 4) Harriett è alla ricerca di Lupo, artista e ora capo partigiano in una città ancora in parte sotto il controllo dei tedeschi; 5) Appennino emiliano. Tre cappellani militari (uno cattolico, uno protestante ed uno ebreo) trovano accoglienza in un convento di frati isolati dal mondo; 6) Delta del Po, Porto Tolle. Un gruppo di partigiani e di soldati americani combatte contro i tedeschi che esercitano un’ultima disperata resistenza. Un anno dopo Roma città aperta Rossellini sente il bisogno di tornare a riflettere sulle ferite ancora drammaticamente aperte nelle coscienze degli italiani e lo fa con uno spirito di assoluta libertà creativa. La scelta di suddividere in sei episodi il film gli offre l’occasione per delineare una sorta di polittico che, grazie alla mano del Maestro, non si frammenta ma riconduce alla fine il tutto ad unità. Proprio perché può sperimentare stili e ritmi narrativi diversi utilizzando il trait d’union della risalita delle truppe angloamericane dalla Sicilia fino al Nord, Rossellini fa di Paisà una sorta di laboratorio per il suo cinema a venire. Non si tratta però (e non potrebbe essere altrimenti con una personalità come la sua) di una sterile ricerca estetico-formale. In ogni episodio si sente come lo sguardo del regista si nutra di una profonda umanità con cui guarda a coloro che, in varie forme, sono vittime del conflitto. Sceglie quindi di utilizzare la parola così come sgorga dai pensieri dei singoli e cioè di far parlare spesso gli angloamericani nel loro idioma (con gli inusuali, per il nostro pubblico, sottotitoli) e i vari personaggi italiani con i loro propri accenti e dialetti. In questo modo rende forse più difficile la comprensione ma fa percepire in modo diretto una verosimiglianza che il doppiaggio teatralmente corretto aveva spesso tolto al cinema nazionale. In tutti gli episodi poi viene sottolineata la riconoscenza del popolo nei confronti dei liberatori ma anche la difficoltà di un incontro tra culture diverse (come contrasta, solo, per fare un esempio, quel cibo in scatola con le poche ma naturali risorse alimentari dei frati …). Rossellini poi ha l’ardire di non di dedicarsi a trionfalismi d’occasione. L’eroismo sta negli sguardi, nella capacità di continuare a vivere, a cercare un senso alla vita, a non arrendersi. Anche a costo della vita stessa messa a repentaglio in una strada della storica Firenze così come tra le acque della foce del Po.
Dal romanzo Clean Break di Lionel White, sceneggiato da Kubrick con lo scrittore Jim Thompson che con il regista collaborò anche in Orizzonti di gloria e gli scrisse il trattamento di Killer at Large che non fu mai realizzato. Uscito dal carcere, Johnny mette a punto un minuzioso piano per una rapina in un ippodromo che frutta due milioni di dollari. Il grosso bottino suscita avidità e ferocia tra i complici. È un film che rivelò Kubrick e indusse la critica americana a parlare di un secondo Welles. La sua cinepresa bracca i personaggi con l’occhio di un terrier che sorveglia un gruppo di topi. Fondato sulla rottura della continuità narrativa che permette allo spettatore di seguire lo svolgimento dell’azione secondo diverse prospettive, il film ha un ritmo incalzante e una suspense di tenuta infallibile. Fotografia di Lucien Ballard.
Irlanda, 1952. Philomena resta incinta da adolescente. La famiglia la ripudia e la chiude in un convento di suore a Roscrea. La ragazza partorirà un bambino che, dopo pochi anni, le verrà sottratto e dato in adozione. 2002. Philomena non ha ancora rinunciato all’idea di ritrovare il figlio per sapere almeno che ne è stato di lui. Troverà aiuto in un giornalista che è stato silurato dall’establishment di Blair e che accetta, seppur inizialmente controvoglia, di aiutarla nella ricerca. Gli ostacoli frapposti dall’istituzione religiosa saranno tanto cortesi quanto depistanti ma i due non si perdono d’animo. Stephen Frears racconta in questo suo riuscitissimo film la storia vera di una madre alla ricerca del figlio perduto che Martin Sixsmith ha reso nota con il libro “The lost Child of Philomena Lee” che, pubblicato nel 2009, ha consentito a molte donne di sentirsi sostenute nel raccontare il loro ‘vergognoso’ passato. Frears di lei dice: “Incontrando la vera Philomena Lee ero sorpreso dal fatto che volesse venire sul set, cosa che ha fatto il giorno in cui veniva girata la scena terribile della lavanderia. Philomena è una donna magnifica, priva di autocommiserazione, che continua ad avere fede nonostante le ingiustizie subite”. Sta proprio nella chiusura di questa dichiarazione il senso profondo di un film che sa commuovere, far pensare e anche divertire. Perché sul grande schermo ne abbiamo già viste molte di vicende di madri che cercano i figli loro sottratti nei più diversi modi e Peter Mullan con Magdalene aveva già denunciato nel 2002 l’atroce situazione di queste giovani vite affidate a religiose accecate da una presunta fede. Frears però ci fa sapere che Philomena non ha perso la fede (quella vera) e costruisce il suo film (grazie a due formidabili interpreti come Judi Dench e Steve Coogan) proprio sul confronto tra due persone che partono da punti di vista in materia estremamente distanti. Martin giornalista e studioso della storia della Russia non crede in Dio ed ha scarsa fiducia anche negli esseri umani di cui ha assaggiato sulla propria pelle la feroce doppiezza. Philomena non è una donna colta (legge romanzetti d’amore di cui ricorda ogni dettaglio) e avrebbe mille ragioni per essere divenuta una delle atee più rigorose ma non è così. Perché è riuscita, anche nella sofferenza più profonda, a non confondere Dio con coloro che hanno talvolta la pretesa (trasformata in potere prevaricatore e assoluto) di rappresentarlo. Philomena e Martin si confrontano e anche si scontrano in materia (anche perché il giornalista non le risparmia mai il proprio scetticismo) ma non si tratta qui di chi abbia ragione o abbia torto. Si tratta piuttosto di un incontro che è sempre possibile quando si è capaci di andare al di là delle barriere che il pregiudizio erige tra le persone. Frears riesce a raccontarlo grazie all’umanità che ha pervaso i suoi film migliori e alle doti di narratore di grande spessore.
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