Robin di Locksley, detto Robin Hood, vive nella foresta di Sherwood a capo di un gruppo di simpatici fuorilegge. Salva un poveraccio, che ha ucciso un cervo per fame, dalla spada dello sceriffo di Nottingham e poi irrompe col cervo sulle spalle proprio nel salone del banchetto dello sceriffo. Aggredito riesce a fuggire. Nella foresta fa prigioniera Lady Marian, cugina di re Riccardo, per il quale Robin Hood si batte contro l’usurpatore Giovanni Senza Terra. Lo sceriffo cerca in ogni modo di contrastare il ritorno del legittimo re, ricorrendo a ogni intrigo.
Sconvolto dalla morte violenta della moglie, un prof. di storia medievale si fa barbone alla deriva e va alla ricerca del Santo Graal tra i grattacieli di New York. L’aiuta un disc-jockey che si sente indirettamente responsabile della sua disgrazia. Storia di amicizia e di amore in cui la commedia si mescola al dramma e al melodramma, il realismo alla fantasia, il sentimentalismo alla violenza, i grattacieli e i bassifondi metropolitani ai castelli e ai cavalieri del Medioevo. Il giusto dosaggio di una materia così eterogenea, liberamente tratta dal romanzo (1986) di Anthony (Dymoke) Powell, è merito di Richard LaGravenese, sceneggiatore esordiente. Gilliam ci mette il talento visionario, l’energia narrativa e quel gusto della ridondanza che indebolisce la parte finale con un eccesso di zuccheri emotivi. Un quartetto eccellente d’interpreti tra cui la Ruehl che vinse 1 Oscar come miglior attrice non protagonista.
Un film di guerra dove il regista Petersen ( La storia infinita) trae ottimo partito dai grandi mezzi messigli a disposizione. È la storia, vera, di un sottomarino tedesco incaricato di dar la caccia nell’Atlantico ai convogli di rifornimento diretti in Inghilterra
C’era una volta Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, sposata al carismatico Hal, uomo d’affari che la viziava e lusingava. Ma Hal era anche un truffatore e un fedifrago e la fine del loro matrimonio ha portato Jasmine alla bancarotta e all’esaurimento nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, la donna si trasferisce a San Francisco per vivere con la sorella Ginger, che spinge ad essere più ambiziosa in amore, scatenando la reazione del fidanzato di lei, Chili. Rassicurati dall’esordio all’insegna dell’abituale jazz sull’abituale font dei titoli di testa, rigorosamente nell’abituale bianco su nero, ci prepariamo all’abituale “ronde” di incontri ed incroci e dissertazioni più o meno umoristiche sulla tragicommedia della vita, ma pian piano veniamo zittiti e sorpresi da un personaggio femminile gigantesco, che è insieme tutte le attrici di Woody Allen (Mia Farrow e Dianne Wiest in particolare, ma anche la Gena Rowlands di Un’altra donna) e una protagonista senza precedenti, per maturità di scrittura e resa interpretativa. Jasmine arriva da New York a San Francisco in prima classe, senza smettere un secondo di raccontare i dettagli della sua storia alla vicina di posto, che si rivela essere una perfetta sconosciuta.
Un colorito e piacevole western dell’ultimo Ford che propone una situazione tipica del genere: come nel Fiume rosso di Howard Hawks, sono a confronto un vecchio e un giovane, il maturo sceriffo di Tuscosa, Guthrie McCabe, e l’impetuoso tenente Jim Gary. Insieme devono liberare i prigionieri bianchi della tribù indiana Comanches. Alcuni però si sono adattati alla vita dei pellerossa e preferiscono rimanere. Una donna, Elena, ritorna invece con loro a Tuscosa, dove sposerà McCabe.
Diversamente che nel Vietnam, in Iraq e Afghanistan l’esercito USA è fatto di volontari che, soprattutto nei corpi speciali, sono professionisti. In questo 8° film per il cinema della californiana Bigelow appartengono a una EOD, unità di disinnescatori di bombe. Il titolo (= Il pacchetto del dolore) è un modo gergale, imparato nel 2004 a Baghdad dal giornalista Mark Boal, sceneggiatore con Bigelow. Al personaggio del sergente-capo che lavora in un pesante scafandro, seguito dalla cinepresa, è riferita una frase nel titolo di testa: “La guerra è una droga”: legato alla paura e al coraggio, il rischio diventa un’esperienza adrenalinica. Sono soldati che, invece di uccidere, salvano le vite altrui nella guerra più censurata e nascosta della storia USA. La regista l’ha anche coprodotto, con una scrittura ruvida, spiccia, semidocumentaristica. Trionfo agli Oscar 2010 con 6 statuette: film, regia, sceneggiatura originale (M. Boal), montaggio (B. Murawski, C. Innis), suono (P.N.J. Ottosson, R. Beckett), montaggio del suono (P.N.J. Ottosson). Prima donna premiata per il miglior film e regia. Girato in Giordania, vicino al confine con l’Iraq, e a Vancouver.
Michel Poiccard, ladro d’automobili, uccide un motociclista della polizia stradale che lo inseguiva per un sorpasso proibito. Tornato a Parigi, ritrova Patrizia, un’amichetta americana di cui s’era innamorato. Intanto è ricercato dalla polizia. Opera prima di Godard, questo film sul disordine del nostro tempo divenne il manifesto della Nouvelle Vague e, insieme con Hiroshima mon amour (1959) di Resnais, contribuì alla trasformazione linguistica del cinema negli anni ’60, sfidando le regole canoniche della grammatica e della sintassi tradizionali. L’anarchismo di cui fu accusato (o per il quale fu esaltato) è più formale che contenutistico: nelle peripezie dell’insolente Belmondo che fa il duro, imitando Humphrey Bogart, si nasconde molta tenerezza.
Con questo film Allen comincia ad allontanarsi dal genere comico: si ride ancora, ma dappertutto affiorano riflessioni tutt’altro che allegre. Ai tempi dell’invasione napoleonica, Boris Grusenko, eroe involontario, sposa Sonia e per amor suo accetta di uccidere Napoleone, ma viene scoperto e fucilato.
Giappone, 1944: durante un’operazione chirurgica, il dottor Kyoji Fujisaki si procura un taglio ad un dito e viene infettato dalle spirochete di Susumu Nakada, il paziente che stava operando. Dopo aver eseguito le analisi del sangue, il medico si rende conto di aver contratto la sifilide e di non avere medicinali a sufficienza per debellare la malattia.
Kurosawa realizza un’altra opera, dopo Non rimpiango la mia giovinezza, L’angelo ubriaco e Cane randagio, sulla realtà giapponese durante e dopo la guerra; come già era accaduto per L’angelo ubriaco, il film passò al vaglio della censura americana ed al regista venne ordinato di modificare il finale, in cui originariamente Fujisaki impazziva per il peggioramento della malattia, troppo lugubre e soprattutto poco rispettoso verso i reali malati di sifilide.[1]
Primo film del regista a non essere finanziato dalla Toho, Il duello silenzioso fu la prima ed unica collaborazione artistica tra Kurosawa ed il prolifico compositore Akira Ifukube (autore tra l’altro delle musiche di Godzilla); i due ebbero diversi diverbi durante le riprese e decisero alla fine del film di intraprendere strade diverse
Non ho trovato versione in italiano. I subita sono tradotti da google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Mark Dixon è un poliziotto che viene degradato a causa dei metodi violenti che mette in atto nella cattura dei criminali. L’indagine che gli viene subito dopo affidata riguarda l’omicidio di un ricco texano che è stato pugnalato in una bisca clandestina dopo aver vinto un’ingente somma. Quando Dixon raggiunge il principale indiziato dell’omicidio, Ken Payne, costui lo aggredisce e, per difendersi, il detective lo colpisce con un pugno che ne provoca il decesso. Sicuro di essere accusato e condannato Dixon decide di occultare il cadavere evitando così una dura punizione. Purtroppo però dell’omicidio viene accusato un taxista, padre della ex moglie di Payne della quale nel frattempo Dixon si è innamorato. Aderendo a un’inveterata tradizione il titolo italiano tradisce il senso di un film che ha alle spalle un romanziere di qualità (William Stuart) e uno dei più importanti sceneggiatori dell’epoca: Ben Hetch. Il titolo originale si riferisce ai marciapiedi ma va oltre. Ci dice infatti che “dove i marciapiedi finiscono” ci sono i tombini di scolo dell’acqua sporca come ci mostra la significativa sequenza che apre i titoli di testa. Sta lì il senso di un film e di un personaggio come Dixon che conosce per esperienza diretta sia l’una che l’altra condizione sul piano esistenziale. Per godere appieno di un film come questo vanno messe in stand by tutte le visioni delle serie tv come C.S.I., Criminal Minds perché con i metodi d’indagine messi in atto nelle suddette il colpevole sarebbe stato individuato in breve tempo. Qui siamo negli anni Cinquanta e ciò che a Preminger e ad Hetch interessa è mettere in luce il conflitto interiore che dilania il detective Dixon e che, come si scoprirà, affonda le proprie radici nel passato. Grazie a una splendida coppia di attori come Dana Andrews e Gene Tierney, già avuti a disposizione in Vertigine, il regista può dedicarsi a rileggere le regole del noir pur conservandone lo spirito. Di Preminger la critica del passato ha posto in rilievo lo sguardo solo apparentemente gelido che rivolge ai suoi personaggi finalizzato a far ‘sentire’ il fuoco che arde sotto la coltre di cenere. Questo gli consente di bypassare alcuni ‘luoghi’ tipici (come i vicoli bui o i forti contrasti luminosi) in favore di una luce diffusa che mette ancor più in evidenza luci ed ombre che attraversano l’animo del suo protagonista maschile. Di fronte a lui c’è una donna provata dalla vita che però non ha smesso di sperare e che non riveste il ruolo della femme fatale ma semmai quello dell’angelo redentore, senza però cadere nel melenso. Morgan Taylor è tanto bella quanto discreta. È modella in una casa di moda ma accetta un invito in una modesta trattoria così come, successivamente, in una pensione decisamente poco lussuosa. Su entrambi i personaggi si proiettano poi in un caso le luci e nell’altro le ombre di due figure paterne che con la loro presenza o assenza ne segnano i comportamenti.
Un film di Otto Preminger. Con Henry Fonda, Dana Andrews, Joan Crawford Titolo originale Daisy Kenyon. Commedia, b/n durata 99 min. – USA 1947. Daisy tronca la lunga relazione con Dan, avvocato e coniugato, e si sposa con Peter. Dan tuttavia non si dà per vinto e, dopo il divorzio, ha il coraggio di chiedere a Peter di divorziare dalla moglie. Daisy, chiamata a scegliere tra i due, resta con il marito.
Un film di Otto Preminger. Con Frank Sinatra, Kim Novak, Darren McGavin, Arnold Stang Titolo originale The Man with the Golden Arm. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 119 min. – USA 1955. MYMONETRO L’uomo dal braccio d’oro valutazione media: 3,58 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. A Chicago, un abilissimo giocatore d’azzardo è schiavo dell’eroina e succube della moglie rimasta paralizzata in un incidente da lui provocato. Il tenero amore di una ragazza potrebbe redimerlo, ma l’uomo viene accusato di omicidio. Tratto dal romanzo di Nelson Agren sulla vita di un tossicomane, il film venne fortemente voluto dal regista Otto Preminger, che sfidò i duri dettami di quel Codice Hays, che vietava espressamente al cinema di occuparsi di droga, contribuendo alla sua modifica. Con un occhio al cinema espressionista e con una notevole attenzione ai personaggi di contorno, Preminger realizzò “un’opera in cui era presente una vigorosa lezione morale”, avvalendosi di un Frank Sinatra in stato di grazia, della partitura jazz composta appositamente da Elmer Bernstein e dei titoli firmati da Saul Bass. Da ricordare in particolare la lacerante sequenza della disintossicazione di Frankie in un minuscolo monolocale.
Una ragazza madre va a scuola a riprendere la figlioletta, ma la bambina è scomparsa, anzi sembra quasi che non sia mai esistita. Da un giallo di Evelyn Piper (con finale diverso), un film insolito anche per i temi scabrosi (omosessualità, figli illegittimi, incesto) piuttosto rari all’epoca. Lo stile febbrile di Preminger gli dà intensità. Titoli di testa di Saul Bass. Olivier caratterizza con gusto.
Durante la guerra in una fabbrica nel sud degli Stati Uniti l’operaia Carmen Jones s’innamora di un caporale dell’esercito e lo porta alla rovina. Basato sull’adattamento dell’opera di Georges Bizet, fatta da Oscar Hammerstein II nel 1943 a Broadway, questo scattante all black musical si mantiene fedele allo spirito del racconto originario di Prosper Merimée, nonostante l’attualizzazione della vicenda e la negritudine dei personaggi. Chiamato in sostituzione di Rouben Mamoulian, O. Preminger riesce solo in parte a dare uno stile unitario alla materia. D. Dandridge ebbe una meritata nomination all’Oscar. Esordio di Saul Bass (1920) come autore dei titoli di testa, inizio di una collaborazione con Preminger che durò 25 anni. Sceneggiato da H. Kleiner. Fotografia (Cinemascope): Sam Leavitt. Canzoni: O. Hammerstein II, Marilyn Horne canta per D. Dandridge, LeVern Hutcherson per H. Belafonte, Marvin Hayes per J. Adams.AUTORE LETTERARIO: Prosper Merimée
Un comandante della marina americana affronta i giapponesi durante l’attacco a Pearl Harbor. Nonostante il suo coraggio, la nave riporta gravi danni. Più tardi il comandante tornerà in battaglia e compirà un’azione molto rischiosa: muoiono suo figlio e il suo secondo. Lui è gravemente ferito e gli viene amputata una gamba.
Stati Uniti, Georgia, 1953. Miss Daisy è una settantaduenne ebrea vedova che vive in una grande villa con una cameriera di colore. Suo figlio Boolie, dopo che lei è finita nel prato dei vicini in seguito a una semplice manovra con la sua Packard, non vuole che continui a guidare e le impone uno chauffeur. Si tratta del sessantenne Hook, saggio uomo di colore che dovrà sopportare le intemperanze verbali della signora. Premiato con 4 Oscar (film, attrice protagonista, sceneggiatura e trucco) e scritto da Alfred Uhry come adattamento di un suo testo vincitore del Pulitzer, A spasso con Daisy non è il solito film sui diritti civili e la loro conquista da parte della popolazione afroamericana.
Man mano che se ne segue lo sviluppo, sostenuto da due grandi attori come Morgan Freeman e Jessica Tandy che trovano in Danny Aykroyd un misurato partner (sia per tempi di presenza sullo schermo che per recitazione), se ne comprende la qualità. Il rischio di caduta nella retorica è presente quasi in ogni scena ma viene sempre evitato con grande abilità. Daisy è rimasta chiusa in un proprio mondo. Sembra quasi considerarsi ancora una povera maestra ebrea come era originariamente anche se vive nel lusso e, soprattutto, non vuole ammettere con se stessa il trascorrere degli anni. Hook ha imparato dalla vita a stare al proprio posto ma anche a resistere con tenacia (come quando afferrava i maiali senza lasciarsene sfuggire uno) all’alterigia dei bianchi; anche di quelli che si considerano liberal ma nel profondo non lo sono affatto. Il nucleo centrale del film si colloca esattamente in questo ambito. I battibecchi tra i due, le incancellabili diffidenze di Daisy e la dignitosa sottomissione (sembra un ossimoro ma è così) di Hook costellano tutto il film e lo rendono al contempo brillante e portatore di considerazioni non banali. Anche quando, ormai prossimi al finale di una vicenda che abbraccia circa 25 anni di storia sociale americana, Daisy si reca ad ascoltare una conferenza di Martin Luther King non assistiamo a una svolta. Forse può essere stata toccata nell’intimo dalle parole rivolte dal leader del movimento per i diritti civili non ai ‘malvagi’ ma a coloro che credono di essere dalla parte giusta ma, consapevolmente o meno, conservano nel loro quotidiano le catene della segregazione forgiate nel pregiudizio. La sceneggiatura però, saggiamente, non ci dà modo di saperlo. Il gaberiano ‘mangiare un’idea’ resta un’utopia che è impossibile da concretizzare così come non si possono ritrovare i compiti da correggere di un tempo ormai passato.
Un film di Jack Hill. Con Pam Grier, Brooker Bradshow, Robert Doqui, Bill ElliottDrammatico, durata 91 min. – USA 1973. MYMONETRO Coffy valutazione media: 2,00 su 1 recensione. Coffy, infermiera in una clinica, scopre che la giovanissima sorella è una drogata ormai irrecuperabile. Decide di vendicarla. Riesce a introdursi nel mondo degli spacciatori e a ucciderne i vari componenti, tra i quali il suo ex fidanzato.
Si comincia nel sangue e nella morte: una gola tranciata da un rasoio di barbiere e una neonata sporca del sangue materno che in un ospedale di Londra viene messa alla luce subito dopo la morte di una quindicenne tossicomane. E nel prefinale la lunga, inedita, violentissima sequenza in un bagno turco. In questa 2ª history of violence Cronenberg si mette al fianco del collega C. Eastwood con un film classico per trasparenza e concisione nella sua tragica ambiguità e nella ricchezza tematica. In una Londra delle periferie e degli immigrati i personaggi principali sono russi. Quasi tutti fanno parte di una vasta famiglia criminale, la Vory v zakone (ladri della legge). In altri film le modificazioni del corpo attingono alla fantascienza o all’horror: qui sono di un realismo quasi documentaristico. Scritto da Steven Knight ( Piccoli affari sporchi ), è un film gangster con Dostoevskij e pietà nel retroterra. Non è profondamente russo il ripugnante Kirill (Cassel) che esita a sopprimere l’orfanella raccolta dalla pietosa tenerezza di Anna (Watts)? “Gli schiavi partoriscono altri schiavi” le dice Nikolai (Mortensen, scelto anche perché poliglotta), implacabile tecnico dell’omicidio su commissione. Significativo è il tema della famiglia: quella in senso stretto, impersonata in Semyon (Müller-Stahl, padrone di schiavi), e in senso allargato quella dell’identità nazionale (ceceni contro russi, ucraini contro georgiani). Se non fosse per i due minuti in cui si svela la vera identità di Nikolai, sarebbe un film perfetto. Non tenetene conto.
Un armatore navale, Jim, si reca nel West per sposare la bella figlia di un ranchero. Ma il futuro suocero è impegolato in una guerra privata con il suo vicino. L’armatore, uomo pacifico, rifiuta di schierarsi da una parte o dall’altra. Il fidanzamento viene rotto. Poco male: l’armatore, a guerra privata finita, si sposerà una simpatica maestrina. Western di ampio respiro che appaga molto gli occhi, ma riesce meno significativo del previsto. Heston è relegato in secondo piano, ma accettò la parte perché Wyler gli promise il ruolo principale in Ben Hur. Il film è comunque ritenuto un classico.
E zitta zitta, arrivò anche la commedia dell’anno. Mettete da parte ogni paragone con L’Attimo fuggente, od il Club degli imperatori. Ok, ci sono i bambini/ragazzi che non sanno di avere talento e invece ne possiedono a iosa, ok, c’è l’insegnante focoso e antieroico, ok, ci sono preside e familiari degli studenti conservatori ed irreprensibili. Ma siamo su un altro pianeta. Immaginate una jam session di 110 minuti in cui l’intera storia del rock viene rivisitata, reinterpretata ed utilizzata per dare nerbo ad una storia già vista e stravista ma sempre efficace: ecco School of Rock. Il plot ricalca perfettamente i classici canovacci del tema. Il musicista, bravo ma incontrollabile, viene cacciato dalla band da lui stesso creata e, grazie ad un inganno, si sostituisce all’amico professore nella scuola più prestigiosa e politically correct dello stato; seguono varie peripezie che lo portano a far scoprire negli annoiati studenti l’amore per la musica ed il senso della vita. Tutto visto e già visto in salsa drammatica, poetica, razionale. Stavolta però, la forma sorpassa il contenuto e la messa in scena non si perde in pistolotti morali per andare dritta al cuore (e al senso del ritmo) degli spettatori. School of rock è uno dei film più genuinamente spassoso. Solo la sequenza con la quale Jack Black introduce se stesso ed il suo “programma scolastico” agli attoniti studenti, vale il prezzo del biglietto. Linklater, noto fine intellettuale e amante dei ricami formali e stilistici, trova incredibilmente i tempi comici esatti e grazie ad un cast straordinario ed ad una colonna sonora semplicemente epocale (poteva essere altrimenti?), realizza un film di straordinaria banalità che riesce al contempo ad essere irresistibile e perfetto nell’intento per il quale è stato pensato: divertire. Jack Black è semplicemente immenso. Lui stesso musicista e cantante in un gruppo semi-amatoriale, interpreta il protagonista con una partecipazione ed una intensità encomiabili .Scatenato, senza freni, riesce ad essere al contempo svitato, rigoroso, brillante: raramente in altre pellicole si è vista una tale aderenza tra l’attore ed il personaggio che interpreta. Già ottimo nel film dei Farrelly, Amore a prima svista, ottiene con School of rock, la sua definitiva consacrazione. I ragazzi della classe, anzi della scuola del rock, sono assolutamente strabilianti sia dal punto di vista musicale (tutti i pezzi sono “in presa diretta”) che di presenza scenica e danno un plus di vitalità e freschezza al film. Niente male nemmeno Joan Cusak nella parte della etilica e frustrata preside e fate attenzione all’inconsistente Mike White alias Ned Schneebly, l’amico di Black…il film l’ha scritto lui! School of Rock supera i confini della commedia tradizionale, diventa un romanzo formativo, un pazzo helzapoppin di situazioni, scene e gag, mescolate a tempo di rock da un Linklater lontano dall’etichetta di radicale sperimentatore ed innovatore a tutti i costi, e finalmente libero di parlare un linguaggio cinematografico diretto e schietto, seppur inevitabilmente meno raffinato e formalmente convincente. I binari percorsi dal film, portano ad una morale semplice ed essenziale:mai mollare, ma, al contrario di tante pellicole in cui questa risulta un fardello politacally correct appiccicato, giusto per dare senso a trame banali e scontate, in School of Rock è il giusto collante di una storia semplice e genuina. Da vedere e… “occhio al potente!”
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