Cameron, un reduce della guerra del Vietnam, ricercato dalla polizia, è costretto, allo scopo di rendersi irreperibile, ad unirsi alla troupe del regista Eli Cross, che, al corrente della sua situazione, lo impiega, nonostante la sua totale inesperienza nel campo, come stuntman, in situazioni al limite dell’impossibile. Egli riuscirà a conquistare la sua fiducia e ad imparare velocemente il mestiere, innamorandosi anche di Nina, l’attrice protagonista del film.
Morto il papa, a sorpresa i cardinali in conclave eleggono il francese Melville che accetta, ma al momento di affacciarsi al balcone di San Pietro urla la sua angoscia. Si convoca d’urgenza l’illustre psicoanalista Brezzi, ma l’eletto non cambia idea, anzi, in borghese sfugge alla sorveglianza della scorta, gira per Roma e cerca sé stesso. Lo recuperano in un teatro mentre assiste alla messinscena del Gabbiano di &8 echov. Prodotto dall’autore (Sacher) e da Procacci (Fandango), scritto con Francesco Piccolo e Federica Pontremoli, il 12° di Moretti, storia di una fuga impossibile, è un film complesso e stratificato. Mescola tragedia e commedia, generosità e melanconia, metafore e rimpianti, pessimismo e speranza, trovate geniali (nessuno tra i cardinali vuole essere eletto) e momenti banali, il senso del vuoto e la scissione tra Maschile e Femminile. Ha il suo atout in Piccoli, un’interpretazione memorabile, e collaboratori ineccepibili tra cui Alessandro Pesci (fotografia) e Paola Bizzarri (scene) che ha ricostruito gli interni del Vaticano in teatro. È forse il più importante, sicuramente il più ambizioso film di Moretti, ma non il più riuscito perché viziato dal suo narcisismo, quello per esempio che gli fa trascurare l’ex moglie psicoanalista di Brezzi e lo fa dilungare troppo nel torneo di pallavolo. 3 David di Donatello: attore protagonista (Piccoli), scenografo (Bizzarri), costumista (Lina Merli Taviani).
Un film di Neill Blomkamp. Con Sharlto Copley, David James, Jason Cope, Vanessa Haywood, Marian Hooman.Fantascienza, durata 112 min. – USA 2009. – Sony Pictures uscita venerdì 25settembre 2009. MYMONETRO District 9 valutazione media: 3,91 su 275 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Negli anni ’80 sono arrivati gli alieni. Stavolta però non sono atterrati a Manhattan o in qualche sperduto paesino campagnolo degli Stati Uniti ma si sono fermati con un’astronave gigante sopra Johannesburg senza muoversi più. C’è stato bisogno che un convoglio terrestre andasse a vedere cosa conteneva quella nave apparentemente immobile per scoprire milioni di alieni denutriti, sporchi e in condizioni pessime. Da quel momento per 20 anni i visitatori sonostati stipati in una baraccopoli di Johannesburg creata per l’occasione: il distretto 9. Un luogo dove le creature da un altro pianeta sono trattate come animali, dove regnano caos e anarchia e dal quale ogni tanto scappano facendo incursioni in città che non portano altro che risentimento e xenofobia nella popolazione locale. Ora è arrivato il momento di spostarli da qualche altra parte, ma loro è a casa che vogliono tornare.
Dalla commedia omonima di Gibson. Un’insegnante tenta di rieducare una bimba cieca e sordomuta che le menomazioni hanno reso prepotente e cattiva. La sua pazienza e il suo amore domeranno quel carattere ribelle.
Hud è un ribelle che non accetta imposizioni da nessuno, nemmeno quando si tratta di evitare un disastro, come nel caso di un’epidemia di bestiame. Hud, contrariamente al padre e al nipote, rifiuta di uccidere gli animali della fattoria e minaccia chiunque intenda farlo. Il padre ha un incidente e muore, mentre il nipote abbandona il ranch, lasciando Hud completamente solo. Il film ebbe un tale successo che il successivo film di Newman, che doveva intitolarsi Archer, fu trasformato in Harper, con la H, come Hud, perché portava fortuna secondo i cineasti hollywoodiani. L’attore che fa il nipote è Brandon de Wilde, il piccolo amico di Alan Ladd nel Cavaliere della valle solitaria. De Wilde morì giovanissimo, ucciso da un teppista in una lite su un’autostrada.
California, provincia: un meccanico, di notte, vede una luce. Da quel momento la sua intelligenza diventa sovrumana: tra le altre cose impara la lingua portoghese in un quarto d’ora. Tutti sono allibiti. È un extraterrestre, un semidio?
Subita tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Fredrik Engeman, avvocato, ha una sposa molto giovane, Anne, ed è geloso del nipote che si chiama come lui. Va a cercare consiglio dall’attrice Desirée che è stata una sua vecchia passione e in qualche misura lo è ancora.Viene sorpreso di notte a casa della donna dal suo amante, il dragone conte Malcom la cui moglie, consapevole del tradimento, andrà a riferire tutto ad Anne. Ancora una volta Bergman ci conferma la propria convinzione che l’universo femminile sia molti passi più avanti rispetto a quello degli uomini che sono invece convinti di avere in mano le sorti dell’universo. È infatti Desirèe (non a caso un’attrice) che conduce le danze in una vicenda a cui si possono attribuire innumerevoli paternità illustri. Perché in questa occasione il piacere della scrittura è rinvenibile nella tessitura di rimandi colti da cui far emergere un simbolismo che lo stesso Bergman non riteneva rigidamente decodificabile. Il gioco delle coppie e delle disillusioni resta però intatto anche se declinato diversamente. Desirèe, mentre è impegnata sul palcoscenico, ci ricorda che: “L’amore è come un giocoliere con tre clave: cuore, parole, sesso. È molto facile giocare con le tre clave ma è anche molto facile farne cadere una per terra.” Il tono lieve e un bianco e nero di grande effetto alleggeriscono anche l’impianto teatrale del film ma non intendono affatto nascondere il desiderio di riflettere sulla fragilità dei sentimenti amorosi e sulla solitudine che spesso ne deriva. Con la morte che continua ad essere presente, magari anche solo nell’immagine di un orologio con carillon.
Divorziato che vive (quasi felicemente) da solo ospita un amico, ancora dolorante per la sua recente separazione, ma la convivenza si trasforma in una specie di matrimonio di cui ha gli inconvenienti più che i vantaggi. Scritto da Neil Simon che adattò un suo grande successo (1965) di Broadway, è il raro caso di una commedia che migliora passando dal palcoscenico allo schermo. Scontati gli elogi ai 2 protagonisti e ai loro comprimari, almeno una parte del merito spetta a G. Saks.
La storia di Andy Kaufman, una sorta di comico di rottura, forse geniale, forse idiota, forse dotato, forse cialtrone. Passava dall’imitazione di Elvis alla lettura integrale, davanti a un pubblico letteralmente addormentato, de Il Grande Gatsby di Fitzerald. Morì di cancro dopo aver inutilmente visitato quei guaritori orientali cialtroni come lui. Davvero bravo Carrey, che non sarà simpatico a tutti, ma è ormai un attore vero. Forman ci sa sempre fare, anche se è lontano dalla qualità dei suoi copolavori: Il cuculo, Amadeus.
Anni ’30. A causa di un’amara scoperta Hannon Fuller sa che la sua vita d’ora in poi sarà in grave pericolo. Per questo motivo scrive una lettera a Douglas Hall, suo fedele amico, nella quale gli spiega tutta la verità. Torna a casa si mette a letto e si ritrova in un altro mondo, nel mondo reale. Qui tenta nuovamente di mettersi in contatto con Hall, ma viene massacrato prima di riuscirci. Douglas Hall viene svegliato dalla polizia e invitato a fare il riconoscimento del corpo, da questo punto tanti punti interrogativi costelleranno la sua vita. Tra questi la comparsa della misteriosa figlia di Fuller, di cui lui non aveva mai sentito parlare. Il tredicesimo piano è arrivato in Italia nello stesso anno di Matrix, ma non ha riscosso il medesimo successo. Anche se è da prediligere il meno noto. Il perché è semplice: questo film è complesso come il primo ma non ha bisogno di una trilogia per offrire una spiegazione razionale e credibile. È un ottimo thriller fantascientifico, senza tempi morti e con una trama complessa ma che appare del tutto chiara quando i fili della matassa (o quelli dei circuiti) si sbrogliano. Il regista ha svolto un ottimo lavoro e i protagonisti non sono stati da meno forse, in questo caso, la colpa è attribuibile interamente al marketing.
Nel 1916 due aviatori francesi, il proletario tenente Maréchal e l’aristocratico capitano de Boïeldieu vengono abbattuti dall’asso tedesco barone von Rauffenstein il quale prova un’immediata simpatia per De Boïeldieu. Trasferiti in un campo di concentramento militare i due sono sul punto di fuggire quando vengono trasferiti. Finiranno con il raggiungere un’antica fortezza comandata proprio da Von Rauffenstein. Renoir con questa sua opera raggiunge un enorme successo di pubblico e di critica anche se la sua presentazione alla Mostra di Venezia (nata nel 1932) suscitò un forte disappunto nel regime fascista che intervenne sulla giuria affinché non ricevesse il Leone d’oro (che andò a un altro film francese considerato innocuo: Carnet di ballo di Julien Duvivier). Ciò che dava fastidio era il suo dichiarato pacifismo universale in tempi in cui la seconda guerra mondiale non era ancora imminente ma il nazismo non nascondeva più le sue mire. In La grande illusione però è presente molto più di questo. Certamente il riconoscimento dell’altro al di là della razza e della nazionalità è il fil rouge che attraversa il film. Il legame sentimentale che avvicina Maréchal e la vedova di guerra tedesca Elsa ci parla di esseri umani e non di ‘nemici’. Così come non sono ‘nemici’ ma uomini dotati di un’etica le guardie che non spareranno ai due protagonisti ormai giunti in salvo ma ancora allo scoperto. Va al di là delle all’epoca ormai prossime leggi razziali la solidarietà che si instaura tra Maréchal e il compagno di fuga ebreo Rosenthal (il che gli procurò un duro attacco da parte di Céline in “Bagatelle per un massacro”). In questo film (che Renoir co-scrive e dirige sulla base di conversazioni con il maresciallo Pinsard che, nel corso del conflitto mondiale, gli aveva salvato la vita) il soggetto di base erano inizialmente i tentativi di evasione che avrebbero potuto dar luogo a un succedersi di elementi avventurosi. Non a caso una delle scene visivamente più riuscite è proprio quella di un’ evasione ma quello che rimane come elemento ancor più dirompente (anche se meno appariscente) è la lettura della guerra come rafforzamento delle differenze di classe. L’immediata sintonia che si instaura tra De Boïeldieu e Von Rauffenstein (e che travalica le loro opposte militanze) è dettata dall’appartenenza all’aristocrazia. Maréchal appartiene a un’altra condizione sociale e anche se il senso dell’onore del capitano lo spingerà al sacrificio in suo favore la distanza resterà intatta. Nessuna concessione quindi alla facile retorica da parte di Renoir ma una lucida, anche se emotivamente partecipe, analisi delle dinamiche soci-economiche che che continuano a far sentire il loro peso in ambito bellico. Ciò accade anche grazie alla partecipazione di Erich von Stoheim caduto in disgrazia ad Hollywood e qui perfetto nei rigidi panni del barone (un ruolo minore nella sceneggiatura originale e progressivamente ampliato proprio in seguito alla sua presenza).
Primo e Secondo Pilaggi, fratelli italiani emigrati sulla costa del New Jersey gestiscono un ristorante sull’orlo del fallimento. I due, per risollevare la situazione, decidono di organizzare una sontuosa cena nel loro locale, alla quale invitare il famoso musicista Luis Prime. Gustosa commedia-gastronomica ambientata negli anni Cinquanta.
Tra Il lamento del sentiero (1955) e Il mondo di Apu (1959), è la 2ª parte di una trilogia, tratta dal romanzo Pather Panchali del bengalese Bibhutibhusan Banerjee, che attraverso la storia di Apu e della sua famiglia traccia un affresco dell’India degli anni Venti e del suo travaglio evolutivo. Influenzato dal neorealismo italiano, Ray racconta la vita, la morte, il dolore delle madri, l’egoismo dei figli con un ritmo lento ma senza indugi, con cura figurativa di classico rigore ma senza compiacimenti estetizzanti, con la sobria forza di una semplicità che rende familiare un ambiente a noi lontano. Leone d’oro a Venezia 1957.
Arindam, un famoso attore, deve recarsi a Nuova Delhi per ricevere un premio, ma non trova voli disponibili. È così costretto a prendere il treno, dove tutti lo riconoscono. Aditi, una giornalista, riesce a catturare la sua attenzione e i due converseranno durante il lungo viaggio. Da questo incontro la star uscirà cambiato, mettendo in discussione la sua carriera da attore.
Quattro avventurieri mercenari sono assoldati per liberare il presidente di Stato africano prigioniero dei golpisti. Robusto e convenzionale, poco attendibile nei suoi risvolti romanzeschi sulla drammatica situazione politica dell’Africa odierna, ideologicamente confuso ed equivoco. Ebbe un seguito nel 1985, anch’esso scritto da Reginald Rose.
A Vincent Parry, condannato ingiustamente per uxoricidio, non resta che una possibilità: la fuga, nella speranza di dimostrare la propria innocenza scoprendo da solo l’assassino. La galera lo ha reso duro, ma questo non basta per sopravvivere quando si è braccati dalla polizia. Per sua fortuna Irene Jansen, una donna giovane e ricca che si è interessata al suo caso, lo aiuta a superare i posti di blocco. Anche Sam, un tassista che riconosce Parry dopo averlo preso a bordo, è convinto della sua innocenza e lo conduce da un chirurgo plastico. Dopo l’operazione, trovando assassinato l’unico amico disposto ad aiutarlo, Parry si rifugia in casa di Irene, scoprendo che questa conosce alcune delle persone la cui testimonianza gli è stata fatale al processo. Dopo qualche giorno, Parry riprende le indagini con un volto nuovo. Oltre che dalla polizia, deve guardarsi da un malvivente che ha scoperto il suo segreto e intende ricattarlo. È proprio quest’ultimo a fornirgli l’indizio decisivo per risolvere il mistero. Ma il suicidio del colpevole impedisce a Vincent di provare la propria innocenza, costringendolo a rifugiarsi in Perù, dove con Irene potrà cominciare una nuova vita. Piuttosto elementare per quanto riguarda il “chi è stato”, dato l’esiguo numero dei personaggi sospettabili, il film punta invece sulla tensione della caccia all’uomo, vissuta dal punto di vista di Parry con un impiego rimasto celebre della ripresa in soggettiva. Il volto di Parry resta in ombra o nascosto dietro le bende, visibile soltanto nelle fotografie sui giornali, fino a quando non assume definitivamente le fattezze di Bogart. Insolita per l’epoca, e per i vincoli del codice Hays, anche la luce in cui vengono presentati i poliziotti: più persecutori che tutori della legge. Una visione kafkiana consona alla personalità del “giallista maledetto” David Goodis, dal cui romanzo Giungla umana ( Dark Passage) è tratto il film. Un pessimismo temperato tuttavia dalla presenza di singoli coraggiosi cittadini pronti ad aiutare il protagonista e, naturalmente, da un opportuno lieto fine.
Scritto e diretto da Curtis, sceneggiatore di commedie romantiche di successo, alla sua 2ª regia, è un film lungo ma non prolisso perché vivace nel ritmo, sceneggiato con perizia, interpretato da una squadra di attori vispi che il regista lascia a ruota libera. Si rievoca un episodio storico degli anni ’60: da una nave corsara ancorata nel Mare del Nord, un gruppo di disc-jockey trasmette rock per la gioia di milioni di radioascoltatori. Dalla parte del potere e delle istituzioni c’è un ministro che ricorre a ogni mezzo per far tacere la radio sovversiva. Nonostante gli sfarinamenti nella struttura narrativa, il film funziona: gag abbondanti, dialoghi scoppiettanti, divagazioni spiritose e, ovviamente, la musica: Who, Stones, Jimi Hendrix, Dusty Springfield, Procol Harum. La moltiplicazione dei finali? In linea col disordine creativo del resto.
Dal libro di Michael Cunningham, emergentissimo autore americano già insignito di Pulizter. Storia di tre donne legate dal romanzo “Mrs Dalloway” scritto da Virginia Woolf e letto dalle altre due con risultati devastanti. Prima storia: della stessa Woolf (Kidman, deturpata per assomigliare all’originale), fine anni venti, Inghilterra, quando la scrittrice non riesce ormai più a controllare il suo mortale esaurimento (infatti si annegherà riempiendosi le tasche di sassi). La seconda è quella di Laura (Moore) a Los Angeles 1949, che ha, fra le altre angosce, un marito dolciastro e convenzionale che le fa odiare la vita e il figlio: li abbandonerà per trovare se stessa.
Premiato al Festival di Berlino con l’orso d’argento. Hurt è uno scrittore che ha perso la giovane moglie, incinta, Keitel un tabaccaio di Brooklyn. Nella sua tabaccheria passa il mondo, per lo più poveracci. Mentre Hurt dà asilo a un giovane nero in cerca di un padre mai visto, Harvey affronta una drogata che forse è sua figlia.Nel frattempo si racconta: vicende nella vicenda, pure parole. Keitel ha riempito decine di album della stessa fotografia. Da oltre dieci anni, alle otto del mattino, nella stessa posizione, fotografa l’incrocio davanti al suo negozio, col caldo, col freddo, con tanta gente diversa. Casualmente viene inquadrata anche la moglie dello scrittore, che si commuove fino a piangere. Il “New York Times” commissiona a Hurt il racconto di Natale, è una grande occasione per lui, ma non ha l’ispirazione. È Harvey che lo aiuta, raccontandogli una storia straordinaria, di un certo natale di molti anni prima. Nel frattempo tutti i personaggi, proprio tutti, stanno sempre fumando qualcosa. Il film ha anche questa funzione, è una grande promozione del fumo. Film straordinario, il migliore dell’anno insieme a Lisbon Story. Film di parole, dove per una volta vale più lo scrittore del regista. Non è un caso infatti che il film rechi la firma di entrambi. Paul Auster, lo scrittore, è uno dei grandi talenti emergenti nel panorama americano. Si dimostra che la qualità vera, l’intelligenza, il talento recitativo, valgono sempre, e moltissimo. Per lunghe sequenze i due protagonisti raccontano a macchina ferma sul primo piano. Gli ultimi cinque minuti, che visualizzano il racconto natalizio di Keitel, possono entrare nella leggenda del cinema. Un omaggio infine a Harvey Keitel, presente in tanti film decisivi del nostro tempo. La ragione c’è: è il migliore attore cinematografico del mondo.
Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Sybille Schmitz, Julian West, Henriette Gérard, Rena Mandel Titolo originale Vampyr ou l’étrange aventure de David Gray. Drammatico, b/n durata 75 min. – Francia 1932. MYMONETRO Vampyr valutazione media: 3,89 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
David si ferma per una notte in una locanda e conosce uno strano vecchio che gli lascia un incartamento che gli chiede di leggere dopo la propria morte. Ripreso il viaggio giunge al maniero dell’anziano personaggio ed è testimone della sua morte. Letto il manoscritto scopre l’esistenza di una vampira, certa Marguerite Chopin. Dopo alterne vicende David riesce a sconfiggere il male, colpendo al cuore la vampira con un paletto. Capolavoro pieno di inquadrature mirabili come la soggettiva di David che viene condotto, nella bara, verso la sepoltura. Dreyer miscela realtà e onirismo in uno spettacolo di grande effetto. Tratto dal libro Camilla di Sheridan Le Fanu e fotografato da Rudolph Matè. In circolazione non esistono copie in italiano restaurate. Per poterlo vedere al meglio bisogna accontentarsi di copie in originale con sottotitoli in inglese.
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