Una ventina di ragazzini inglesi dai 7 ai 14 anni, sopravvissuti a un incidente aereo, restano abbandonati a sé stessi su un’isola tropicale. Si organizzano, eleggono come capo il saggio e volitivo Ralph, ma presto la comunità si spacca in due e prende il sopravvento il gruppo dei cacciatori guidati da Jack, che regredisce allo stato tribale e si dedica al culto di un totem, il signore delle mosche. Tratto dal romanzo (1954) di William Golding, adattato dal noto regista teatrale al suo 3° film, girato a Portorico, è un apologo pessimista sulla regressione che si può interpretare con Freud, ma anche con Lévi-Strauss. Pur avendo, specialmente nella 2ª parte, momenti suggestivi, non riesce a diventare – com’è nel romanzo – quella favola atroce che P. Brook voleva. Rifatto nel 1990.
Sarah, adolescente sognatrice, una sera in cui rimane sola a casa con il fratellino e innervosita dai suoi pianti, invoca il re degli gnomi Jareth, pregandolo di portarlo via. Toby scompare. Sarah, pentita, corre a riprenderselo affrontando ogni sorta di pericoli: nani, paludi, porte magiche. Quando rivede finalmente Toby… si risveglia.
Si apre con un ingorgo a Los Angeles che si trasforma in un delizioso balletto coreograficamente perfetto nel suo disordine apparente. Lei aspira a far l’attrice e serve cappuccini al bar. Lui ama appassionatamente il jazz e sogna di aprire un locale tutto suo. Si amano e poi si lasciano. Ognuno per la sua strada. E realizzano i loro sogni. Musical eccentrico, originale e classico, romantico con una vena malinconica, mai triste. La Stone, che si aggiudica a Venezia la Coppa Volpi e l’Oscar come miglior attrice, e Gosling non sono ballerini, ma compensano con l’interpretazione, e si “inventano” ballerini: lui, con la mano in tasca, è strepitoso. La storia – come in un musical d’altri tempi che si rispetti – è esilina, ma le musiche (Justin Hurwitz), l’ambientazione (scenografie di David Wasco), i costumi (Mary Zophres), le coreografie, la versione musicale del “sognoamericano” senza lieta fine sentimentale (forse), e le numerose citazioni valgono la pena. Chi non ama i musical stia a casa. Oscar anche alla regia, alle scenografie, alla colonna sonora e alla canzone (su 14 candidature), 7 Golden Globe (su 7 candidature).
Terrorista dell’IRA, tormentato dal rimorso per la morte di un soldato di colore inglese che teneva in ostaggio, rinuncia alla lotta e va a cercare la donna del defunto. Sorpresa. Praticamente il film è diviso in due parti e la seconda è quella che intriga, spiazza, sorprende, seduce. In sapiente equilibrio tra cinema d’azione e racconto psicologico, affidato alla rara arte di saper fare attendere lo spettatore, recitato benissimo, il film è un’originale esplorazione dell’Eros e una riflessione non scontata sulla violenza e il fanatismo nella lotta politica. Oscar a Jordan per la sceneggiatura e altre 5 candidature.
Grga e Zarije sono amici da almeno trent’anni. Matko, il figlio di Zarije, progetta di rubare un carico di carburante per contrabbandarlo. S’affida allora a Grga e ,con la scusa che suo padre, Zarije è morto, gli prende dei soldi, con i quali può portare a termine l’operazione. Nell’affare si mette in mezzo anche il criminale cocainomane Dadan; al momento del furto al convoglio, però, Dadan addormenta Matko e prende per sé il carico. Che al suo risveglio apprende da Dadan che il colpo è fallito; non potendo però restituire i soldi prestati al bandito è costretto ad accettare come condizione di dover far sposare il suo amatissimo figlio Zare con sua sorella Afrodita, detta Bubamara (ovvero coccinella) per la sua bassezza.
Dai libri Lay This Laurel di Lincoln Kirstein, One Gallant Rush di Peter Burchard e dalle lettere di Robert Gould Shaw. È la storia – una di quelle che i libri di storia e Hollywood non avevano mai raccontato – del giovane colonnello Robert Gould Shaw e del 54° reggimento di fanteria, costituito esclusivamente – ufficiali a parte – da soldati di colore, in gran parte ex schiavi fuggiti dal Sud, che nel 1863 fu mandato a un inutile assalto al Fort Wagner sull’isola Morris (South Carolina). Vi persero la vita più di mille giubbe blu nere. Pochi altri film hanno messo in immagini con altrettanta efficacia la locuzione metaforica “carne da cannone”, ma al di là degli accenti epici, dei conflitti psicologici e dei rimandi all’attualità sociale, questo 2° film di Zwick, sceneggiato da Kevin Jarre, ha un’intensa dimensione religiosa. 3 Oscar: miglior attore non protagonista (Washington), fotografia (Freddie Francis) e suono.
Ayub Khan-Din sceneggia una sua commedia di successo sul multietnismo nelle periferie britanniche e O’Donnell dirige un film eccezionale, ironico, trascinante: un vero fenomeno. Om Puri è il padre anglicizzato ma non fino al punto da non pretendere dai suoi figli un matrimonio tradizionale. Basset è la moglie british che si scontra con lui. I figli sono più inglesi di un nativo. Il melting pot produce un vero capolavoro cinematografico.
Ballin Mundson, proprietario di un losco casinò di Buenos Aires, sposa un’ex ballerina, già amata da Johnny, il suo fedele collaboratore. Il triangolo che si regge su un complesso rapporto di amore-odio non si spezza nemmeno con la morte (apparente) di uno dei tre. Film di culto per i fan di Rita, corpo d’amore ribelle al suo ruolo di oggetto, che canta meravigliosamente “Put the Blame on Mame” e danza splendidamente “Amado mio”. L’assurdità dell’intrigo diventa un difetto secondario in questa miscela di noir e melodramma passionale in cui i dialoghi di Marion Parsonnet sono di un Kitsch che sfiora il sublime. La latente carica omosessuale di questa pietra miliare nella storia del divismo fu scoperta soltanto dalla critica europea.
Un film a cartoni animati particolarmente originale e pieno di fantasia. I cattivi Biechi Blu, che odiano la bellezza, i fiori e la musica, attaccano Pepelandia, un paese felice, e pietrificano i suoi abitanti. Solo un marinaio riesce a salvarsi imbarcandosi su un sottomarino giallo sul quale fa salire i quattro Beatles che, dopo una serie di avventure, grazie alla loro musica, riporteranno la vita a Pepelandia.
Sfuggita all’inseguimento di due killer, la bella Grace arriva nella sperduta cittadina di Dogville. Grazie all’aiuto di Tom, portavoce della comunità, Grace riesce ad ottenere protezione a patto che sia disposta a lavorare per la comunità. Ma quando si viene a sapere che la donna è una grossa ricercata, gli abitanti di Dogville avanzano nei confronti di Grace sempre maggiori pretese. Ma Grace nasconde un segreto che farà pentire tutta Dogville di aver mostrato i denti contro di lei… Lars Von Trier ha ripulito il proprio cinema da quel sospetto di manierismo autoreferenziale che lo rendeva inviso a molti. Il Dogma e’ alle spalle. Resta solo un ‘Dog’ nel titolo del film ma il regista danese, con l’avvio di questa trilogia rompe col passato confermando paradossalmente la continuita’. Niente piu’ camera a mano o sfocature estemporanee ma un’assenza quasi totale di scenografia in favore della parola e dei gesti. L’influenza di Brecht e’ dichiarata ma non si tratta di un omaggio retro. Siamo invece di fronte a una storia narrata per capitoli in cui si concretizza il bisogno di una moarle che non rinvii la punizione e che, soprattutto, non risolva tutto con un perdono generalizzato. Le colpe vanno punite. Le protagoniste ‘cuordoro’ della trilogia precedente trovano in Grace un personaggio femminile pronto a subire fino in fondo ma che alla fine sapra’ come non soccombere. Von Trier ha forse superato una volta per tutte il piacere sottile di cercarsi dei detrattori con la dimostrazione della capacita’ di valorizzare un cinema purificato dall’esibizione stilistica e capace di mettersi al servizio degli attori. Prima fra tutti una straordinaria Nicole Kidman ma senza dimenticare l’apporto di attori del calibro di Ben Gazzara o James Caan. Lauren Bacall non fa il cameo role ma e’ li’ a ricordarci che il cinema ‘classico’ non puo’ morire. Non pero’ conservarlo in una cineteca della memoria. Bisogna sapersi rimettere in gioco. Sempre. Lei lo fa da maestra.
Sean Penn, al suo terzo lungometraggio, dimostra la stoffa dell’abile confezionatore di film di buon livello capaci (ed è già molto) di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Il film si ispira al romanzo omonimo dello scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt, anche se ben poco resta dello spirito tipicamente centroeuropeo di un autore che affermava la prevalenza del ‘gioco’ sul ‘messaggio’. L’ispettore di polizia Jerry Black è giunto al giorno della pensione. Arriva però la notizia del ritrovamento del cadavere straziato di una bambina e Black si offre per l’avvio delle indagini. Queste hanno breve durata perché il presunto colpevole viene catturato e sembra ‘firmare’ la propria confessione sottraendo una pistola a un poliziotto e sparandosi in bocca. Il caso è chiuso ma Black non è convinto: ha promesso solennemente alla madre di prendere l’assassino. Riesce così a scoprire un’area in cui il killer di bambine (tutte con le stesse caratteristiche) ha agito negli ultimi anni. Vi si installa rilevando un piccolo negozio di articoli vari e ottenendo la fiducia della barista locale che ha una figlia che per età e caratteristiche fisiche assomiglia alle uccise. Jerry è fermamente deciso a tutelare la piccola ma anche a prendere il killer. Penn gira con grande tatto anche se manca quel salto di qualità che è proprio dei grandi registi.
Ucciso un rivale in amore, l’operaio François si barrica nella propria stanza, assediato dalla polizia e rivive la sua storia. Una delle vette del realismo poetico francese prebellico. Determinante l’apporto dei dialoghi di J. Prévert alla sceneggiatura di Jacques Viot in questo film assai concreto, eppur ricco di echi simbolici che non contraddicono l’impianto realistico dell’azione.” ci ha sorpreso come una voce amica nel deserto” (E. Flaiano, 1940). Tutto concorre alla felicità creativa del risultato complessivo: il bianconero di Curt Courant, le scenografie di A. Trauner, la recitazione. Ma è straordinario l’uso del materiale plastico: le sigarette, l’orsacchiotto, la rivoltella, la sveglia, fotografie, cappelli, cartoline, mobili, fiori, ecc. Influenzò il cinema “nero” americano degli anni ’40. Rifatto a Hollywood nel 1947: La disperata notte.
Sostituita versione dvdrip con bdrip 720p.
I subita li ho tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Una ragazza polacca, Weronica, e una francese, Vèronique, pur non avendo nessun legame, sono uguali come gocce d’acqua, hanno lo stesso amore per la musica e la stessa malformazione al cuore. Per una misteriosa corrispondenza, la francese farà tesoro della tragica esperienza dell’altra.
Dal romanzo (1920) di Edith Wharton. New York, 1870: un giovane avvocato di successo s’innamora di una contessa, donna libera ed eccentrica da poco tornata dall’Europa dove ha abbandonato il marito, ma, fidanzato con una ragazza della buona società, deve rinunciare al grande amore. L’hanno paragonato a un film di Ivory (ma senza il suo viscontismo estenuato) per la cura maniacale del décor (arredi, abiti, cibi, gioielli, ecc.). La continuità con i film precedenti è evidente: il bel mondo ottocentesco è governato dalle stesse ferree leggi e liturgie tribali di Quei bravi ragazzi . Più che innocente, il protagonista è un idiota conformista come, benché camuffati, lo sono molti personaggi scorsesiani. Interpreti funzionali e ottimi contributi tecnici: fotografia di Michael Ballhouse, scene di Dante Ferretti, costumi di Gabriella Pescucci (premio Oscar), titoli di testa di Elaine e Saul Bass che collaborarono anche per Quei bravi ragazzi , Cape Fear e Casinò . Il romanzo era già stato filmato nel 1924 e nel 1934 (con Irene Dunne e John Boles).
Un film di Bob Fosse. Con Roy Scheider, Jessica Lange, Leland Palmer, Ann Reinking, Cliff Gorman. Titolo originale All that Jazz. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 123′ min. – USA 1979. MYMONETRO All that Jazz – Lo spettacolo continua valutazione media: 3,63 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. È il ritratto di un regista-coreografo che lavora con un piede nel teatro e l’altro nel cinema. Il suo rapporto con le donne, con il lavoro, con la morte. Fatta la tara al narcisismo magniloquente e all’ambizione autoindulgente, il film offre 2 ore di spettacolo superbo, di ritmo scattante, di energia. 4 Oscar meritati e Palma d’oro a Cannes ex aequo con Kagemusha di Kurosawa.
Momenti nelle vite dei componenti di un piccolo gruppo di gangster di New York distribuiti su circa 40 anni. La storia, narrata con frequente uso di flashback e flash forward, è incentrata su David “Noodles” Aronson e i suoi compagni di sempre (sono cresciuti insieme nel Lower East Side): Cockeye, Patsy e Max. Si va dagli Anni Venti al tramonto del Proibizionismo per finire agli Anni Sessanta quando Noodles, ormai anziano, torna a New York. Tutto ciò non necessariamente in quest’ordine. “C’era una volta in America non è un film sui gangster. È un film sulla nostalgia di un determinato periodo, di un determinato tipo di cinema, di una determinata letteratura. Sono certo di aver fatto “C’era una volta il mio cinema” più che C’era una volta in America“. Così Sergio Leone su uno dei capolavori più maltrattati della storia del cinema. Il regista non aveva il diritto di final cut e la distribuzione americana rimaneggiò il film in più modi fino allo scempio di risistemare la narrazione in ordine cronologico. Se c’è un film in cui il flusso temporale legato ai ricordi, ma al contempo annebbiato da un presente che si disperde nelle volute di fumo dell’oppio, è fondamentale, quel film è C’era una volta in America . Il capolavoro di Leone ha trovato una versione definitiva in cui vengono reinseriti ben 26 minuti reintegrandoli nella giusta collocazione e portando così il film alla sua vera durata. La violenza che il film non ci risparmia si conferma come elemento costitutivo di Noodles, un uomo ‘inadatto’ al presente dal quale vorrebbe sottrarsi per restare ancorato a dei ‘valori’ che ha visto scomparire un po’ alla volta. Ispirato all’autobiografia “Mano armata” di David Aaronson pubblicata da Longanesi nel 1966, il film (e di, va ricordato, sceneggiatori come Leo Benevenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco “Kim” Arcalli, Franco Ferrini e lo stesso Leone) scardina ogni linearità narrativa per entrare nello sguardo e nella memoria di un uomo a cui il ricordo porta al contempo sollievo e sofferenza. È un film proustiano nel senso più pieno del termine C’era una volta in America. Proustiano nel suo ‘farsi’ ma anche nel suo riproporsi. Offrendoci un’opportunità per ripensare, a 28 anni di distanza, non solo al cinema che, secondo Leone, non c’era più ma anche al ‘suo’ cinema. Che non c’è più. Senza facili nostalgie ma con un po’ di rimpianto.
Il film racconta la storia di una squadra di sei astronauti provenienti da varie nazioni che s’imbarcano per la prima missione spaziale verso Europa, la quarta luna di Giove.
E’ l’autunno del 1957, ad Hartford, Connecticut. La famiglia Whitaker è una delle più in vista delle città: il marito Frank è il capo di un’azienda che fabbrica televisori, la moglie Cathy è una perfetta casalinga, i due figli sono dei simpatici bambini pestiferi. Ma la situazione non è così esemplare come sembra: Frank è in realtà bisessuale, e tradisce la moglie con uomini scovati in bar equivoci; Cathy, dal canto suo, sconvolta per aver scoperto le tresche del marito, si lega in affettuosa amicizia con il suo giardiniere di colore, subendo l’ostracismo della comunità: è costretta a fare una scelta, comunque dolorosa. Prendendo spunto dalle commedie romantiche di Sirk quali “Lo specchio della vita” o “Come le foglie al vento”, Haynes, che può permettersi di mostrare ciò che cinquant’anni fa non era lecito neppure immaginare, costruisce un melodramma di rara bellezza, puntiglioso nella riproposizione, anche visiva, degli stili dell’epoca e commovente nella sorprendente modernità dei suoi personaggi, ciascuno a suo modo inadeguato al tempo in cui vive. E il disagio sottile che si prova nella visione della pellicola è forse l’indizio che la finta innocenza degli anni ’50 non è così diversa dalla compiacente stabilità odierna. Fantastica l’interpretazione della Moore (giustamente premiata a Venezia), più che meritevole anche Quaid, attore ingiustamente sottovalutato.
Giapponese di mezza età, mitomane, truffatore e cattolico che ha perso la fede, è ricercato dalla polizia per una serie di omicidi. Regista dallo sguardo freddo di entomologo, Imamura traccia qui lo straordinario ritratto di un criminale attraverso il quale scandaglia l’anima miserabile dell’uomo moderno.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.