Un avvocato mette in guardia un cliente raccontandogli la storia di due coniugi che, all’inizio, sembrano i più felici di questo mondo, ma finiscono con l’odiarsi e desiderare la morte dell’altro. Danny De Vito, che ha sempre raggiunto appena la sufficienza come attore, dimostra con questo film che si può fare di una commedia un capolavoro, Allendocet. Già il titolo originale occhieggia ironicamente alla guerra delle due rose e di conflitto sanguinario si tratta veramente. Fino al termine della prima parte si crede di essere nel bel mezzo di una commedia hollywoodiana, anche se le carte in tavola sono già un po’ mischiate, ma ci si accorge ben presto che i due si odiano davvero e il finale non è per nulla consolatorio. Le migliori interpretazioni della carriera di Douglas e della Turner. Non adatto a chi crede nella famiglia e al lieto fine.
Trasposizione cinematografica di quattro racconti di Luigi Pirandello tratti da Novelle per un anno: L’altro figlio, Mal di luna, La giara e Epilogo, nel quale compare Pirandello stesso (interpretato da Omero Antonutti). I fratelli Taviani si confermano grandi autori del cinema italiano, firmando questa eccellente e rispettosa rilettura delle tematiche e delle atmosfere più care al grande drammaturgo siciliano. Splendidamente recitato, costruito con attenzione nei dettagli e girato nel suo insieme con mano maestra, Kaos si colloca tra i migliori prodotti del nostro cinema degli anni Ottanta. Nella versione televisiva del film è previsto un quinto capitolo: Requiem.
Il boss Anjo viene ammazzato da un misterioso killer in maniera estremamente truculenta, ma nessuna traccia viene lasciata. Per ritrovare Anjo, convinto che sia ancora vivo, il folle e sadico Kakihara, suo vice, accetta il consiglio dell’enigmatico informatore Jijii e per questo rapisce e tortura Suzuki, capo di un banda rivale, che si dimostra però estraneo all’accaduto. Per punizione Kakihara e il suo clan vengono estradati dal sindacato della yakuza di Shinjuku. La caccia non finisce.
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Un fantasma vaga per campi e strade fino ad arrivare ad una casa di periferia: è qui che, in vita, abitava l’anima sotto a quel telo candido, insieme alla moglie. Una vita ordinaria, piena di tenerezza, consumata quotidianamente all’interno di quell’abitazione a cui lui era molto affezionato ma che lei, inutilmente, voleva cambiare. Fino alla morte, improvvisa, del marito proprio nella strada che costeggia la stessa casa: da quel momento in poi il suo spirito sarà destinato a vagare per sempre (o forse no?) all’interno di quelle mura: nella teoria di un universo ciclico che nasce, muore e rinasce dovrà fare i conti con il suo futuro che sarà, contemporaneamente, anche il suo passato.
Tornano i maghi dell’harrypotteriana penna di J.K. Rowling, che qui esordisce alla sceneggiatura mettendo mano al suo libro (2001, profitti in beneficenza) sulla storia di un testo scolastico adottato nella scuola di magia di Hogwarts, scritto da Newt Scamander, allievo di Albus Silente. Dove sono questi meravigliosi, buffi e assurdi animali fantastici? Molti sono nascosti nella valigia di Newt, “magizoologo” inglese che, dopo un viaggio intorno al globo, approda nella New York del 1926. Ma in America l’atmosfera è tesa, si stanno verificando oscuri episodi e le cose vanno male per i maghi, non accettati dalle autorità No-Mag (nome USA dei babbani). I maghi sono soggetti al severo controllo del MACUSA, l’organo di governo americano del mondo dei maghi, che si assicura che i 2 mondi non collidano mai. Ma la guerra sembra inevitabile. Dopo la regia di 4 storie di Harry Potter, Yates dirige il 1° giocoso film della nuova saga (che a quanto pare sarà di 5 capitoli). Personaggi sfavillanti, sceneggiatura immaginosa, trovate visive deliziose, spiritose e surreali, trucco e parrucche, costumi (premiati con l’Oscar), scenografie, musiche, effetti speciali: tutto è al massimo livello. 3D (una volta tanto) clamoroso e coinvolgente.
Mildred Hayes non si dà pace. Madre di Angela, una ragazzina violentata e uccisa nella provincia profonda del Missouri, Mildred ha deciso di sollecitare la polizia locale a indagare sul delitto e a consegnarle il colpevole. Dando fondo ai risparmi, commissiona tre manifesti con tre messaggi precisi diretti a Bill Willoughby, sceriffo di Ebbing. Affissi in bella mostra alle porte del paese, provocheranno reazioni disparate e disperate, ‘riaprendo’ il caso e rivelando il meglio e il peggio della comunità. La speculazione sale e progredisce, affondata nel Missouri, situato al centro degli States e rivelatore della crisi che scuote il Paese. Nello stato che non ha mai completato il percorso dallo schiavismo e genocidio delle origini al garantismo costituzionale e all’ideale pluralista multiculturale, l’autore svolge la storia di una madre che vuole giustizia. La pretende da poliziotti distratti, affaccendati a escludere gli omosessuali dalla protezione del “Civil Rights Act”, approvato nel 1965, o a “torturare persone di colore”, la sceneggiatura di McDonagh sottolinea lo slittamento semantico per bocca dell’agente di Sam Rockwell. Richiamati al loro dovere dai manifesti del titolo e dall’inconsolabile dolore di una madre, i cops adottano misure repressive, criminalizzando chi vuole soltanto giustizia. Ma è a questo punto della vicenda che il drammaturgo irlandese, cresciuto a Londra ma all’ombra di Samuel Beckett, scarta e rilancia realizzando il desiderio di Marty (7 psicopatici), lo sceneggiatore alcolizzato di Colin Farrell che provava a fuggire l’apologia della brutalità, la mitologia del crimine caustico, la verbosità prolissa e i motherfucker interposti. Lo scarto è incarnato dallo sceriffo di Woody Harrelson, magnificamente contre-emploi. Attore nato per uccidere, che misura sovente la propria performance in situazioni estreme, Harrelson è il cuore morbido di questa ‘commedia profonda’ che cerca e trova l’anima dell’America sotto l’intolleranza acuta e la mentalità settaria. È il suo gesto, ‘inoltrato’ con tre lettere, a impegnare gli altri personaggi.
Una villa isolata nella campagna francese. Una famiglia si riunisce per le vacanze, ma non si tratterà di un’occasione lieta. Il capofamiglia, come si scoprirà in breve tempo, è stato assassinato. L’omicidio puo’essere stato compiuto solo da una delle 8 donne presenti nella casa (compresa la sorella giunta in modo inaspettato). Se le donne rispondono al nome di Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Beart, Virginie Ledoyen ecc… si può facilmente immaginare quanto il gioco di rivalità (tra i personaggi ma anche tra le personalià attoriali) sia ad alto voltaggio. Anche di comicità perché il testo utilizzato ha un’origine teatrale che dosa con grande abilità commedia, satira e giallo. Ozon, dopo l’intimista e funebre Sotto la sabbia, spiazza tutti divertendosi a tenere a bada 8 caratterini non facili. Ci riesce con apparente nonchalance. Ma non tutto deve essere stato facile come appare. Per i posteri va ricordato il bacio lesbico tra la Deneuve e la Ardant (Buñuel e Truffaut sorridono sornioni dall’aldilà).
Lucenzio ama Bianca, ma il matrimonio non si può celebrare finché non si trova un marito alla terribile sorella di lei, Caterina. Allettato dalla dote, Petruccio la impalma, ma dovrà ricorrere alle maniere forti per trasformarla in una buona moglie. 2° film di Zeffirelli e uno dei suoi due o tre potabili. Grazie a un sapiente adattamento della commedia scespiriana, celebre per il suo forsennato dinamismo, firmato da Suso Cecchi D’Amico e Paul Dehn, e a collaboratori di prim’ordine, il film funziona. La coppia Burton-Taylor mette nella finzione una parte della loro vita privata.
Verso il 1300 a.C. il medico egiziano Sinuhe si trova coinvolto in intrighi politici, mentre il faraone Akenaton tenta di realizzare una riforma religiosa.
Nell’attesa di trovare un lavoro che gli dia la possibilità di emergere, Lou si guadagna da vivere rubando. Quando vede dei reporter free-lance in azione sul luogo di un incidente decide di intraprendere quella carriera e iniziare così la sua scalata verso il successo al soldo di una produttrice che intuisce il suo potenziale e gli chiede sempre di più. Se fatti cruenti e sanguinosi non accadono, basta farli accadere. Ottimo esordio per Gilroy, che sceglie di mostrarci il lato più cinico e meschino del mito americano in chiave moderna, ponendo al centro della vicenda un ragazzo venuto dal nulla (strepitoso Gyllenhaal), con un passato di disprezzi e umiliazioni, che si accultura su internet e impara tutto e in fretta. Non c’è analisi del passato, delle cause, Lou sembra essere semplicemente figlio della società odierna: ingannevole, amorale, cinica. Eccellente fotografia di Robert Elswit. Ottima anche la colonna sonora di James Newton Howard.
C’era stato un tempo in cui il western era uno dei generi più popolari di Hollywood. Che si trattasse di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco o Burt Lancaster e Kirk Douglas in Sfida all’OK Corral o Clint Eastwood nella trilogia di Sergio Leone, il vecchio West era un modo sicuro per stare in testa al box office fino agli anni ’70 quando scomparve repentinamente quasi del tutto. Ma Kevin Costner nel 1990 riaprì al meglio la stagione del western e nel giro di tre anni ben due film del genere (per l’appunto Balla coi lupi e “Gli spietati”) riuscirono ad aggiudicarsi l’ambita statuetta di miglior film agli Oscar. E per la prima volta Hollywood “premiò gli Indiani” (e lo fece nella persona di Costner, un diretto discendente della tribù Cherokee) anche se non era certo il primo western della parte dei nativi americani. La pellicola si guadagna un indiscusso posto d’onore nella storia del cinema, non sfigurando di fronte ad un inevitabile confronto con i maestri di sempre. Ed è certo il solo film di questi ultimi vent’anni ad affrontare il mito del West, oggetto di tanto revisionismo annunciato, con una passione e un realismo che vanno in direzione della leggenda anziché della demistificazione. Diretto e coprodotto oltre che interpretato dallo stesso Kevin Costner è un debutto impressionante. Ne sono state più volte sottolineate le debolezze che sfiorano il manicheismo e il culto dello spettacolo, non considerando invece come riesca a coniugare i canoni propri del genere a vantaggio di una narrazione epica che conferisce un raro stato di grazia e di sentito a questo racconto elegiaco interessato più che alla fedeltà storica a una verità morale e antropologica. Ma gli intenti di Costner non rifuggono spesso dall’utopia. Balla coi lupi ha la forza e i difetti della sua semplicità e della sua programmatica generosità, conservando una qualità indiscutibilmente emozionante: quella di contribuire a trasmettere l’invito a conoscere l’altro prima di decidere di combatterlo o sterminarlo.
Ricca vedova s’innamora, ricambiata, del figlio del suo giardiniere, più giovane di lei, suscitando l’ostilità dei due figli e degli amici. Il turgore sentimentale delle situazioni e l’improbabilità melodrammatica dei loro sviluppi sono riscattati dall’eleganza della messinscena (con una straordinaria fotografia a colori di Russel Metty), la cura del particolare psicologico, la precisione sociologica nella descrizione del contesto, l’attendibilità degli interpreti. Grande ammiratore di D. Sirk, R.W. Fassbinder lo rifece con La paura mangia l’anima.
Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l’ingresso di un ‘estraneo’. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l’amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore. I titoli italiani in più di un’occasione hanno tradito l’originale. Questa volta più che mai. Il destino non c’entra nulla con il titolo (Breaking the Waves= Infrangere le onde) e tantomeno con il film. Le onde che Lars Von Trier ha fatto diventare cinema in questa prima opera della sua trilogia al femminile sono (in positivo) quelle prodotte dalle vibrazioni del cuore e del cervello e in negativo quelle di chi è incapace di comprendere cosa sia la bontà e in cosa consista l’amore. Vedendo questo film in cui la macchina da presa diventa essa stessa oggetto di vibrazioni, di sussulti, di trasalimenti, di piacere e di dolore, lo spettatore che sappia staccarsi dalla rassicurante ripetitività di tanto cinema potrà comprendere perché la Giuria di Cannes ’95 gli abbia assegnato il Gran Premio.
Un povero clown deforme viene maltrattato e umiliato costantemente nel circo in cui è costretto a lavorare e di cui non ha mai superato i confini. Un giorno però, in seguito a un incidente di cui è vittima la trapezista di cui è segretamente innamorato, ha modo di incontrare uno studente di medicina, Victor Frankenstein. Costui comprende immediatamente la passione nascosta che il clown coltiva da sempre per l’anatomia umana e lo fa fuggire dal lavoro-prigione. Da quel momento diventerà il suo assistente con il nome di Igor.
Rifacimento del celebre Frankenstein di James Whale del 1932: il barone Frankenstein compie tremendi esperimenti su cadaveri, finché il gioco gli sfugge di mano.
Il barone Frankenstein (Cotten) sta tentando di infondere vita ad un corpo artificiale ricostruito in laboratorio. Ad aiutarlo nell’impresa ci sono la figlia Tania (Rosalba Neri), da poco tornata al castello dopo essersi laureata a pieni voti in medicina, e l’assistente Charles Marshall (Muller). L’operazione ha successo ma la creatura, alla quale è stato trapiantato un cervello anormale, si ribella allo scienziato.
Tre loschi individui uccidono un taverniere e lasciano che venga giustiziato al loro posto un innocente. La fanciulla che lo amava si uccide; interviene il dottor Frankenstein che ricostruisce il corpo della ragazza nel quale trapianta il cervello dell’amato
Il nipote del famigerato barone Frankenstein, neurochirurgo americano, va in Transilvania e decide di ripetere l’esperimento dell’avo. Crea un mostro di incommensurabile bontà. Più che una parodia è una reinvenzione critica della nota storia (1818) di Mary Shelley, carica di comicità che diventa qua e là poesia. Un bianconero di alta suggestione. Attori bravissimi. Scritto dal regista con Wilder.
Un reporter scopre che un rappresentante del movimento pacifista inglese non è morto assassinato come qualcuno tenta di far credere, ma è prigioniero di una nazione che vuole carpigli preziosi segreti. Il capo dei rapitori è un importante personaggio britannico, della cui figlia il nostro eroe è innamorato. Allo scoppio della guerra, il traditore muore durante un incendio aereo che coinvolge anche la figlia e il giornalista. I due giovani, però, si salvano.
Mississippi, 1964. In una piccola cittadina a dieci miglia da Memphis (Jessub), tre attivisti per i diritti sociali dei neri vengono brutalmente uccisi. Gli agenti dell’Fbi Anderson e Ward decidono di investigare sulla loro scomparsa. Nel corso delle indagini, tuttavia, devono fare i conti con la polizia locale, responsabile dell’accaduto e legata segretamente al Ku Klux Klan. Malgrado gli sforzi per ottenere giustizia, i due assistono a un crescendo di odio e violenza nei confronti della comunità di colore del posto.
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