Commedia in costume per Scola, che si avvale ancora di Massimo Troisi dopo l’esperimento in coppia con Mastroianni del precedente Che ora è?Una compagnia di comici viaggiante sta spostandosi dalla Spagna a Parigi. Con loro c’è il barone di Sigognac, senza una lira, del quale si invaghiscono Serafina e Isabella. Il barone per sostituire Matamoro, che è morto, prenderà il nome d’arte di Capitan Fracassa. Deluso da Isabella, troverà affetto tra le braccia di Serafina e porterà al successo la compagnia.
Durante una serata in terrazza, nella Roma radical-chic, vita pubblica e privata di alcuni personaggi: dallo sceneggiatore in crisi al giornalista, al deputato PCI, all’amico in cerca di lavoro. Commedia all’italiana di esperta fattura nella quale ci si piange un po’ addosso, in modi tipicamente romanocentrici, ma qualche freccia arriva al bersaglio. Non tutto allo stesso livello, ma nell’insieme funziona. Scritto da Scola con Age & Scarpelli. “Sembra e vuole essere una, sia pur sorridente, radiografia della condizione intellettuale e borghese, ma è soltanto un quadretto della condizione pseudointellettuale e sostanzialmente piccoloborghese dell’intellettualità cinematografica” (L. Micchiché).
Uno spocchioso editore romano, accompagnato da un suo mite ragioniere, parte per l’Africa portoghese, allora sconvolta dalla guerriglia, per ritrovare il cognato scomparso nel corso di un viaggio. Dopo numerose avventure che mettono a dura prova l’alto concetto che l’editore ha di sé, i due scoprono l’amico diventato stregone di un villaggio indigeno. Riescono a riportarlo sulla nave in partenza per l’Italia, ma il cognato si butta in mare per raggiungere gli amatissimi indigeni.
Patriarca pugliese immigrato in borgata romana, per far dispetto alla sua tribù, si porta a casa puttanona dal cuore di miele; gli altri cercano di avvelenarlo nella speranza di mettere le mani su un milione che lui ha ottenuto come indennizzo per un occhio perso. Farsa tragicomica antipopulista con ambizioni di libello satirico in cadenze crudelmente grottesche. Un Manfredi in gran forma carognesca e una colorata folla di caratteristi.
6 maggio del 1938, giorno della visita di Hitler a Roma. In un comprensorio popolare, Antonietta, moglie di un usciere e madre di sei figli, prepara la colazione, sveglia la famiglia, aiuta nei preparativi per la parata. Una volta sola, inavvertitamente, apre la gabbietta del merlo che va a posarsi sul davanzale di una appartamento difronte al suo. Bussa alla porta, ad aprirle è Gabriele, ex annunciatore dell’EIAR che sta preparando la valigia in attesa di andare al confino perché omosessuale. Mentre la radio continua a trasmettere la radiocronaca dell’incontro tra Hitler e Mussolini, Antonietta e Gabriele si rispecchieranno l’una nell’altro. Dramma psicologico di finissima fattura e eccezionale presa emotiva, Una giornata particolare è una delle vette dell’opera di Ettore Scola, autore anche della sceneggiatura scritta con Ruggero Maccari e la collaborazione di Maurizio Costanzo. Aperto da sei minuti di cinegiornali a contestualizzare il momento storico, questo indiscutibile capolavoro del cinema italiano degli anni Settanta avvolge con i movimenti di una macchina da presa mobilissima, con la fotografia color seppia di Pasqualino De Santis, con un’atmosfera ovattata che, meglio di qualunque altra, comunica una dolorosa sensazione d’attesa. Pur muovendosi soltanto tra due appartamenti, una rampa di scale e una terrazza, il regista riesce a svelare la complessità della congiuntura storico-sociale e quindi di un mondo intero, fatto di rinunce e infelicità, asciugando l’enfasi, ma senza respingere, tuttavia, un continuo e quasi incombente stato di commozione. O meglio di compartecipazione. I punti di vista di Antonietta e Gabriele sembrano, inizialmente, inconciliabili, ma finiscono con l’avvicinarsi. Alla fine della giornata addirittura coincidono perché c’è una sola e giusta direzione di sguardo, un’equivalenza di solitudine capace di colmare le differenze tra due diverse eppure uguali vittime del regime mussoliniano, la prima incosciente e la seconda fin troppo consapevole: «Io non credo che l’inquilino del sesto piano sia antifascista. Se mai il fascismo è anti-inquilino del sesto piano» dirà Gabriele, riassumendo l’orrore della dittatura. Come ogni grande film, è anche una potente riflessione sul tempo, inteso in senso strettamente filmico quanto filosofico, la narrazione si chiude del resto con Antonietta che spegne l’abat-jour dopo il risveglio della propria coscienza: «Una giornata, nulla di più. Di quelle che cambiano la vita. Una manciata di ore che arriva dentro un’esistenza cambiandola. Dopo, tutto sembra diverso. Tutto quello che era accettabile non lo è più, tutto quello che appariva normale non lo è più» (Walter Veltroni, Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1988). Una curiosità: diciotto anni dopo, Ettore Scola girerà nello stesso stabile romano di Via XXI Aprile Romanzo di un giovane povero. Fu candidato all’Oscar nelle categorie Miglior film straniero e Miglior attore, ma l’Academy preferì premiare La vita davanti a sé di Moshé Mizrahi e il Richard Dreyfuss di Goodbye amore mio!. Maiuscola la prova di Marcello Mastroianni e Sophia Loren, per la dodicesima volta insieme.
Identificare un artista attraverso il suo lavoro più iconico è un privilegio riservato ai grandi autori. Chi è più riconoscibile e popolare di Van Gogh nella pittura? Un Leonardo, un Michelangelo, forse no: i girasoli dell’artista olandese di fine ottocento sono elementi ormai nell’immaginario e nel background storico e culturale di tantissimi, di generazioni e persone tra le più diverse. Il film di David Bickerstaff racconta in particolare l’attenzione che Vincent Van Gogh riponeva nella natura morta, nell’osservazione dei fiori, soprattutto quelli più semplici, quelli da campo, fruibili da tutti, e dall’esplorazione ampia dell’utilizzo di una palette di colori in continuo cambiamento.
È di sole che ha bisogno la salute e l’arte di Vincent van Gogh, insofferente a Parigi e ai suoi grigi. Confortato dall’affetto e sostenuto dai fondi del fratello Theo, Vincent si trasferisce ad Arles, nel sud della Francia e a contatto con la forza misteriosa della natura. Ma la permanenza è turbata dalle nevrosi incalzanti e dall’ostilità dei locali, che biasimano la sua arte e la sua passione febbrile. Bandito dalla ‘casa gialla’ e ricoverato in un ospedale psichiatrico, lo confortano le lettere di Gauguin e le visite del fratello. A colpi di pennellate corte e nervose, arriverà bruscamente alla fine dei suoi giorni.
Quando il cinema incontra l’arte l’esito non è mai banale ed è sempre un arricchimento. Soprattutto se, come accade in Loving Vincent, ogni singolo fotogramma del film è realizzato a mano.
Dorota Kobiela, pittrice polacca, e il regista inglese Hugh Welchman, hanno intrapreso questa avventura sei anni fa per raccontare, attraverso uno stile da cinema noir, le ultime settimane di vita del pittore olandese trasferitosi ad Arles, in Francia, nel 1888.
Vincent Van Gogh, l’artista più noto al mondo, pioniere dell’arte contemporanea e personaggio tormentato, nel luglio 1890 si spara in un campo di grano nei pressi di Arles. Il giovane Armand Roulin, figlio del postino Roulin, unico amico di Van Gogh -, non convinto del suicidio dell’artista, ripercorre le sue ultime settimane di vita incontrando le persone che, anche nei momenti più drammatici, gli sono state vicine.
Da Adeline, la padrona di casa del pittore, a pére Tanguy, fino al pescatore o il dottore Paul Gachet e la figlia tutti rigorosamente ritratti a olio, restituendo vita all’immediato e riconoscibile stile di Van Gogh. La casa gialla, il campo di grano e i fiori azzurri, la stanza con la sedia… realizzati con pennellate vivide, colori visionari e brillanti, e quel movimento fluido tipico del tocco “vangogghiano”, si alternano al bianco e nero delle parti narrative.
Un film prodotto con tenace e minuzioso lavorìo in cui più di 100 artisti, con la tecnica del Painting Animation Work Station hanno animato un thriller interamente costituito da pittura che coinvolge totalmente lo spettatore.
Durante la rivolta dei Boxer nel 1900 e il lungo assedio del quartiere diplomatico dove convivono i rappresentanti di otto delegazioni straniere, maggiore americano ha un grande e breve amore con bella baronessa. Realizzato dal produttore Samuel Bronston, fu girato in Spagna con 2 obiettivi principali: lo sfarzo della messinscena e il richiamo divistico dei suoi interpreti. È il film meno personale di N. Ray che, colpito da un infarto, lo lasciò dopo 2 mesi di riprese ai suoi assistenti. È uno di quei colossi nei quali il massimo sforzo produce il minimo risultato.
Constance Peterson (Ingrid Bergman) è una giovane dottoressa che lavora presso una clinica psichiatrica e che non presta alcuna attenzione ai suoi pur tanti ammiratori. Almeno fino a quando nella clinica arriva il dottor Edwards (Gregory Peck), destinato a prendere il posto del vecchio direttore, il dottor Murchison (Leo G. Carroll), che deve andare in pensione per raggiunti limiti di età. Tra i due scoppia improvviso l’amore, tanto che la riservata dottoressa dedita solo al lavoro si trasforma in una donna follemente innamorata. Ma Edwards ha comportamenti alquanto strani – ad esempio non sopporta la visione della neve e delle righe – che porteranno Constance a scoprire che l’uomo non è il dottor Edwards, ma un misterioso John Ballantine che ha perso la memoria e crede di aver ucciso il vero dottor Edwards per prenderne il posto. Ben presto i sospetti trapelano anche nella clinica e i due sono costretti a fuggire e a rifugiarsi in casa del dottor Brulov (Michael Chekhov), di cui Constance era stata in passato la giovane assistente, che dopo gli iniziali dubbi aiuterà l’uomo a recuperare finalmente la memoria. Definito dallo stesso autore come una “caccia all’uomo in un involucro di pseudo-psicoanalisi”, Io ti salverò costituisce uno dei più celebri e complessi thriller di Hitchcock, impreziosito dalle immagini oniriche realizzate appositamente da Salvator Dalì e sorretto dalla coppia Ingrid Bergman-Gregory Peck.
America, anni Venti: un pilota che si guadagna da vivere in un circo rimane affascinato dal racconto di uno spettacolare duello aereo di un connazionale con un tedesco. Tempo dopo, dovendo girare una scena cinematografica, si troverà di fronte proprio il tedesco. Finalmente, potrà vivere in prima persona quella storia.
Sposato da poco con Louise, Jimmy si mette in società con Jeff, ex campione di rodeo. Ben presto i facili guadagni danno alla testa a Jimmy e Jeff s’innamora della donna. Su una bella sceneggiatura di Horace McCoy (e David Dortort, un vecchio cowboy) Ray descrive con efficacia quasi documentaristica il mondo del rodeo, ma il nucleo del racconto è nel rapporto tra i tre personaggi principali e soprattutto nel ritratto di Jeff McCloud (un ottimo Mitchum), tipico eroe crepuscolare, desolato ma non disperato, che il regista descrive con occhio fraterno e lucido.
Protagonista è Inuk, un esquimese. Si sposa, ha un figlio e un giorno uccide un bianco che ha rifiutato l’offerta della moglie da parte sua, secondo un’usanza degli esquimesi. Dovrebbe essere arrestato e due poliziotti lo trovano. Uno muore di freddo, l’altro viene salvato da Inuk. Il poliziotto dirà che l’assassino è morto e l’esquimese potrà continuare a vivere la sua difficile esistenza, sempre in lotta con la natura.
In Arizona, dopo la guerra civile, Vienna, proprietaria di un saloon-casa da gioco, è malvista dai notabili della zona perché dà ospitalità a una banda di fuorilegge. Si fa aiutare da Johnny, pistolero-chitarrista già suo amante. Incendio e duello finale tra due donne. Giudicato troppo eccentrico ed eccessivo quando uscì, è tenuto oggi per un capolavoro di lirismo barocco e di graffiante parodia sul maccartismo, la “caccia alle streghe” comuniste, e sul puritanesimo repressivo. Il fascino del film, scritto da Philip Yordan, scaturisce dalla sua esaltazione poetica della libertà e dell’amore, dalla dialettica opposizione delle forze in campo, dal suo cifrato simbolismo sessuale. Tutto è eccessivo nel film, anche il Trucolor di Harry Stradling. Caratteristi in folla: Ernest Borgnine, John Carradine, Royal Dano, Ben Cooper.
Dal romanzo Thieves Like Us di Edward Anderson. Evaso dal carcere con due criminali e costretto a partecipare alle loro imprese, il giovane Bowie s’innamora di Keechie, nipote di uno dei due, e la sposa. Fuggono insieme, ma Bowie è ucciso dalla polizia. Nell’ultima scena, Keechie incinta legge una lettera del marito, si volta verso la cinepresa e dice: “I love you”. 1° film di Ray, prodotto da John Houseman per la RKO. Un noir di acceso romanticismo e di lirica tenerezza sullo sfondo di un mondo notturno, violento e ostile. Il regista trascura le scene d’azione per concentrarsi sulle figure dei due giovani “innocenti” e sulla loro estraneità all’ambiente. Rifatto da Altman con Gang (1974).
Un film di Nicholas Ray. Con James Mason, Barbara Rush Titolo originale Bigger than Life. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 95′ min. – USA 1956. MYMONETRO Dietro lo specchio valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Insegnante in una scuola di una cittadina di provincia usa il cortisone per curarsi l’artrite. Ma abusa del farmaco attraversando stati di euforia megalomaniacale. Ispirato a un fatto di cronaca, è un tipico melodramma degli anni ’50, ma condito da un’ironia e da soprassalti irrealistici che hanno la firma del regista, acuto nel fare del suo eroe piccoloborghese con manie di grandezza un Napoleone in sella a un cavallo a dondolo. Prodotto da J. Mason.
Storia d’amore sullo sfondo brutale del gangsterismo nella Chicago del 1933: un boss della malavita e il suo avvocato (zoppo) si contendono una ballerina. Insolito per la sua mistura tra l’universo figurativo del gangster movie e quello del musical (con 2 suggestivi numeri di danza). Sequenze da ricordare: la strage della banda rivale, la carneficina finale, la scena in cui Cobb spara contro la fotografia di Jean Harlow. E una Charisse più fulgida che mai.
Un film di Nicholas Ray. Con Cornel Wilde, Jane Russell Titolo originale Hot Blood. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 85′ min. – USA 1955. MYMONETRO La donna venduta valutazione media: 2,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Mike Torino (Adler), capo _ e malato terminale _ di una tribù di tzigani che hanno messo radici in una cittadina USA ai confini col Messico, combina il matrimonio di Stephen (Wilde), suo fratello minore destinato a succedergli, con la bella Annie Caldash (Russell) che, in realtà, è un’imbrogliona, ma s’innamora dello sposo riluttante. Più che la storia, scritta da Jesse Lasky Jr. per Columbia, contano il contesto, improbabile ma insolito e picaresco, e la mise en scène di N. Ray, il suo interesse per il folclore, l’etnologia e il musical. Lo mostrano il ballo in strada dell’opaco C. Wilde (probabilmente con controfigura) e la danza di fruste tra Wilde e J. Russell che conferma di essere, se ben guidata e convinta del personaggio, una brava attrice. Cinemascope di Ray June e musiche di Les Baxter. Restaurato.
Eve Gill (Wyman), studentessa della Royal Academy Dramatic Arts, cerca di scagionare l’amico Jonathan (Todd) che pretende di essere ingiustamente sospettato di avere ucciso il marito della sua amante Charlotte (Dietrich), diva del music-hall. Oltre a innamorarsi dell’ispettore (Wilding) che indaga sul caso, scopre alla fine chi è il vero colpevole. Noto per un lungo flashback menzognero che gli fu rimproverato come una sleale trasgressione alle regole del poliziesco, è uno dei 2 film americani di A. Hitchcock girati a Londra. Tratto da 2 racconti di Selwyn Jepson (Man Running, Outrun the Constable), sceneggiato da Whitfield Cook, è un poliziesco di routine, ma vale più della sua fama. Ha il torto di raccontare una storia in cui sono i cattivi che hanno paura e di avere in J. Wyman un’attrice fuori parte, ma l’ambientazione londinese e teatrale è deliziosa; la prima mezz’ora (con la festa di beneficienza in giardino) e il finale sono notevoli e, in bilico tra ambiguità e volgarità, M. Dietrich lascia il segno.
Alla vigilia della 2ª guerra mondiale, un giovanotto che lavora in una fabbrica di munizioni del Nevada è accusato ingiustamente di sabotaggio. Si nasconde, incontra una ragazza che l’aiuta a smascherare i veri sabotatori. Coinvolgente thriller bellico girato con molti mezzi che si conclude con la famosa sequenza mozzafiato sulla statua della Libertà. C’è un uso ripetuto del teleobiettivo. Alla sceneggiatura collaborò la squisita Dorothy Parker.
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