Stanco della moglie e invaghito di una cugina sedicenne, barone siculo induce la consorte al tradimento e poi la uccide. È condannato a una pena minima per “delitto d’onore” e può sposare la cugina. Si può fare una commedia intelligente, lesta, graffiante anche illustrando un articolo (il 587) del Codice Penale. Se c’è un’arte che nasce dall’indignazione, questo film le appartiene. Oscar per la sceneggiatura a Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Germi e il premio della migliore commedia a Cannes. Rita Savagnone ha dato la voce sia a D. Rocca sia a S. Sandrelli.
Nel 1972 Gilles e Christine, entrambi figli di genitori divorziati, vivono diversamente i loro problemi. Dopo un furto in comune di dischi in un supermercato, lei è spedita dal padre in un istituto psichiatrico da dove fugge. Fugge da tutto, ma insieme con Gilles, verso una maturità impossibile. Versione lunga di un film TV di un’ora (La Page blanche) della bellissima serie “Tous les garçons et les filles de leur âge”, 9 film, 3 per decennio, sull’adolescenza dagli anni ’60 a oggi. Ricco di emozioni forti, momenti teneri, rabbia e disperazione, è un bellissimo e struggente film che meriterebbe come epigrafe un famoso incipit di Paul Nizan: “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. C’è anche una coinvolgente colonna sonora, formata da canzoni e motivi del 1972: “Knockin’ On Heaven’s Door” di Bob Dylan, “Janitor of Lunacy” di Nico, “School ‘s Out” di Alice Cooper, “Me & Bobby McGee” con la voce di Janis Joplin.
Jack è un ex poliziotto diventato tecnico del suono. Compiendo esperimenti per la colonna sonora di un nuovo film, capta casualmente il rumore di un’auto che cade in un torrente. Precipitatosi sul luogo dell’incidente, riesce a salvare una bella ragazza che era a bordo di una macchina, ma non il conducente, governatore dello Stato e candidato alle elezioni presidenziali. Riascoltando i suoi nastri, Jack sente il rumore di uno sparo e capisce che l’incidente è stato in realtà un delitto, dietro il quale si cela un’oscura macchinazione politica.
Dal racconto La settima vittima (1954) di Robert Sheckley: nel Duemila s’è costituito su scala mondiale un club privato i cui iscritti, accoppiati da un computer, si impegnano in una caccia mortale, alternativamente come cacciatori o vittime. A Roma una maliarda superorganizzata bracca la sua decima vittima. Tolto il debole finale, imposto dal produttore Carlo Ponti, Petri ha vinto la rischiosa scommessa, grazie anche all’apporto di Ennio Flaiano in sceneggiatura, con un curioso e affascinante film dove la SF si mescola al western, al cinema di spionaggio, alla commedia romanesca.
In una public school inglese (che, come si sa, sono scuole private assai costose), uno degli allievi, Mick Travis (McDowell) e due suoi compagni (Wood e Warwick) si ribellano ai riti e alle ingiustizie e, nel giorno della cerimonia di fine anno, sparano su professori e compagni. Diviso in 8 capitoli, pieno di cartelli, di scritte e di immagini simboliche, costruito con la libertà di fantasiose associazioni che era tipica degli anni ’60 e nella quale il colore s’alterna con la monocromia, l’opus n. 2 di L. Anderson – Palma d’oro a Cannes – è un film sull’Inghilterra, concentrata nel microcosmo del college, una ricca, confusa e ribollente metafora sul malessere del nostro tempo e sul desiderio di rivolta della gioventù, pervasa da una struggente nostalgia per un mondo diverso. Dopo un avvio descrittivo, tutto il film è, con calcolata progressione, un’alternanza della dimensione realistica con quella fantastica e onirica che concerne anche il tema del sesso e il viluppo inestricabile tra omosessualità e sadismo, descritto con una lucidità che non esclude la tenerezza. Scritto da David Sherwin.
Tre ragazzini ebrei, clandestinamente ospitati in un collegio cattolico, sono prelevati, in seguito a una spiata, dagli sgherri della Gestapo. Leone d’oro a Venezia ’87. Nella carriera di Malle è, dopo Il soffio al cuore , il 2° film esplicitamente autobiografico, il più vicino a Truffaut e non soltanto per l’argomento. Meno originale, forse, ma emotivamente più coinvolgente (con qualche concessione agli stereotipi) di Lacombe Lucien , anch’esso ambientato nella Francia di Pétain, conta per la cura dei particolari e dell’ambientazione, la ricchezza delle invenzioni, una pagina di alta retorica didattica (l’omelia del padre direttore), un epilogo straziante.
Nel 1929 Célestine, cameriera parigina, è assunta in casa di un ricco borghese di provincia: il padrone è feticista, la padrona frigida e avara e i servi non valgono più di loro. Dal romanzo (1900) di Octave Mirbeau, già filmato da Renoir nel ’46 a Hollywood. Su sceneggiatura di J.-C. Carrière, un livido e caustico film antiborghese e antifascista sulla provincia francese torbida e arida, ammirevole per l’avaro rigore della sua drammaturgia. Premio a J. Moreau al Festival di Karlovy Vary.
Un disc-jockey disoccupato alla deriva e un ruffiano meno duro di quel che pretende di essere finiscono in prigione. Nella stessa cella capita un improbabile e stralunato turista italiano dall’inglese maccheronico e patafisico. Esistono tre personaggi e una serie di luoghi, più che una storia. Partendo da una sceneggiatura con un largo margine di improvvisazione, Jarmusch mescola i generi, gli stili, i toni, ma soprattutto lascia liberi i tre attori in un gioco dove l’ironia si alterna con la buffoneria. Se si accettano le regole, è un film di una simpatia cui è difficile resistere.
Three Outlaw Samurai (三匹の侍, Sanbiki no Samurai) is a 1964 Japanese chambara film by director Hideo Gosha.
Inizia con la stessa inquadratura de L’Armata delle Tenebre (per chi seguisse la continua caccia involontaria del sottoscritto a film cino-giapponesi che posseggono elementi poi apparsi magicamente nell’opera omnia di Sam Raimi) e si ritrova ad influenzare sensibilmente l’opera del nostro Sergio Leone in primis e il cinema di spada nipponico, hongkonghese e di tutta l’Asia (esiste anche una sorta di remake hongkonghese ad opera di Chang Cheh (The Magnificent Trio, 1966)) poi. E’ l’esordio alla regia –dopo una significativa gavetta televisiva- di Gosha Hideo, maestro riconosciuto di rara caratura ma lontano, anzi lontanissimo, dalla posizione che gli spetterebbe all’interno dei libri di storia del cinema. Perché il suo è grande cinema, cristallino, perfetto, capace di produrre movimenti e inquadrature gonfie di senso e trasudanti emotività. La soglia tra bravo regista e “genio” è senza dubbio superata e Gosha andrebbe annoverato tra i grandi. Invece duole notare come il suo nome non trovi adeguato spazio nemmeno in libri specializzati (due su tutti, lo Yakuza Movie Book di Schilling e il Outlaw Masters of Japanese Film di Chris D.). Poco spazio dedicato anche in Italia (una paginetta nel bel Storia del Cinema Giapponese), mentre bisogna di nuovo guardare ai fratelli d’oltralpe per accorgersi ed avere l’ennesima conferma del fatto che in quanto a critica cinematografica i francesi sono stati sempre abbastanza ricettivi e lungimiranti. A metà dei ’60, film come questo, i successivi di Gosha e di un pugno di rivoluzionari della settima arte andavano riportando in auge il genere, riscrivendone stilemi, tematiche, stili ed estetica e creando quel lungo filo mutevole nei decenni e riflesso dei sommovimenti politici e sociali, riferito ad un senso dell’onore (dal ferreo allo sfuggevole) passando per la dicotomia giri/ninjo, fino alla distruzione senza “honour and humanity” ed oltre. Lo stile aggressivo e sperimentale del regista regala un continuo profluvio di invenzioni, di sezioni del quadro tagliate di netto come dalle lame degli stessi samurai, carrelli arditi, primi piani fasciati da una fotografia in bianco e nero di rara intensità, giochi prospettici e formali tra i vari piani della profondità di campo, un continuo allenamento percettivo per il cervello. Non di sterile estetica stiamo parlando, ovviamente, ma di una consapevole proposizione di immagini “forti” incisive, perpetuamente capaci di donare senso ed emotività, mai svincolate dall’apparato narrativo.
Shiba (Tanba Tetsuro), Kikyo Einosuke (Hira Mikijiro) e Sakura (Nagato Isamu) sono i tre samurai del titolo, ronin vaganti pregni di un ferreo senso dell’onore capace di veicolare ogni propria scelta. Che siano con o senza padrone saranno sempre disposti a tradirlo quando questo si riveli nel torto. In questo caso la vita di tre contadini che cercano di rivendicare i propri diritti, contro le angherie di un magistrato, rapendogli la figlia. Quest’ultimo scaglierà contro i tre un piccolo esercito. E’ allora che, placidi, i tre ronin uniranno le forze per quello che per loro è ninjo, il bene comune, disposti a spezzare il giri se l’appartenenza al clan si riveli macchiata di sangue innocente.
Una visione morale monolitica ma spensierata, simile a quella dei successivi film di Chang Cheh e John Woo in parte, vicina negli angoli smussati a certo western occidentale, con i tre ronin privi di origini e di destinazione che lasciano al potere del destino la scelta della strada da intraprendere. Non sono quindi tre samurai oltre o senza legge, tutt’altro, sono tre ronin pregni di una propria legge morale, indissolubile, più forte dell’amore “virile” (come si vedrà nel film) o di ogni incatenamento sociale vincolato dal lusso (idem). Una straordinaria fetta di cinema vicina alla statura del maestro Kurosawa, un esordio di inconcepibile fulgore.
I subita li ho tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un’esperienza. Inland Empire di David Lynch non è un film organico, lineare, comprensibile, con un inizio e una fine definibili tali, ma è innanzitutto un’esperienza sensoriale. Un flusso di pensiero libero di un artista, che non richiede spiegazioni, ma solamente intuizioni, emozioni personali, positive o negative che siano. Si potrebbe parlare di mondi paralleli, di realtà e finzione che si fondono, si incontrano, si abbandonano, di cinema e televisione (e di pellicola e digitale), del concetto del Tempo, non sequenziale, “random” e assoluto. Si potrebbe anche analizzare il film nei dettagli dei frammenti che compongono la storia. Si potrebbe anche non giudicare, e semplicemente sentire, subirne il suo effetto. Inland Empire, infatti, per la lunga durata (172 minuti di Lynch, in ogni caso, mettono a prova anche i suoi fan), è uno straordinario bombardamento di immagini e suoni, ai quali lo spettatore non può non reagire. La perdita dell’orientamento che ne consegue provoca una totale apertura verso ciò che è sullo schermo, generando le emozioni a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Lo si può amare, odiare, rifiutare, non giustificare. Paradossalmente, in riferimento al giudizio di valutazione potrebbe valere una stella, tre stelle, cinque stelle. Il sospetto che un’opera simile sia un divertissement di Lynch stesso, non va tralasciato. Anche se fosse, comunque, il risultato sarebbe il medesimo, perché di questi tempi uscire con una sensazione violenta, da una sala è sempre più raro. Inland Empire è un’esplorazione, un esperimento, un varcare i confini noti e verificarne la possibilità e i limiti. Fra dieci anni, chissà, sarà considerato un capolavoro.
Un sogno/incubo ad occhi aperti, la follia su pellicola, nessuna logica. Non tutti arriveranno alla fine.
Dal romanzo (1934) di James Cain, filmato anche da P. Chenal (1939), L. Visconti (1943), B. Rafelson (1981): sensualmente intrappolato dalla moglie del padrone dell’autogrill dove lavora, un giovanotto uccide il principale. Il destino aspetta dietro l’angolo. Per ragioni di censura il legame tra sesso e violenza, così esplicito in Cain, è suggerito da Garnett con un clima claustrofobico e segnali indiretti che fanno degnamente appartenere il film al genere noir. Conta soprattutto per la presenza di L. Turner e di J. Garfield, ma anche i personaggi di contorno sono ben disegnati.
4ª trasposizione del romanzo (1934) di James Cain, la 1ª che mette in immagini esplicite la rude e aggressiva sensualità che, per ragioni di censura, i registi precedenti avevano dovuto comprimere o elidere. Di questa storia di un amore che, nato da una violenta attrazione fisica, si trasforma in un rapporto più profondo e complesso, Rafelson fa un altro film sul “sogno americano”, la sua trasformazione in incubo, descrivendone _ col contributo notevole della fotografia di Sven Nykvist _ il contesto sociopolitico. Più che J. Nicholson, un po’ troppo vecchio per la parte e talvolta sopra le righe, è ammirevole J. Lange, migliore delle 3 attrici che l’hanno preceduta: Corinne Luchaire, Clara Calamai e Lana Turner
Killer psicopatico si traveste da donna per compiere efferati delitti. Il figlio della vittima e squillo di lusso si mettono sulle sue tracce. Grande ammiratore e studioso di Hitchcock, De Palma lo echeggia nello stile ( Psyco , La donna che visse due volte ) ma dal maestro non ha appreso la logica dell’intrigo, l’onestà verso lo spettatore e la credibilità umana dei personaggi. Entra di diritto, comunque, nell’antologia dell’erotismo. Colonna sonora assai efficace di Pino Donaggio.
Tre giovani amici – il giornalista Alex, il commercialista David e la dottoressa Juliet – cercano un coinquilino con cui condividere le spese del grande appartamento in cui vivono. Finalmente un giorno trovano la persona giusta, ma, dopo la prima notte trascorsa nella casa, il nuovo inquilino viene trovato cadavere. Sembrerebbe un suicidio. I tre stanno per chiamare la polizia, quando si accorgono che l’uomo aveva con sé una valigia piena zeppa di soldi. La tentazione è troppo forte. Alex e Juliet, i più spregiudicati, convincono il più prudente e restio David a sbarazzarsi del cadavere per dividersi quella montagna di denaro. Un esordio che lascia il segno. Quello dell’inglese Danny Boyle dietro la macchina da presa, usata deliziosamente per dirigere un piccolo gioiello della black comedy.
A partire da una folgorante prima sequenza, dove l’accesissimo rosso dei titoli di testa lascia intendere i retroscena macabri di cui sarà costellato l’intero film. Così come la surreale enunciazione di un biondino pallido sull’importanza di amicizia e fiducia, con hitchcockiano movimento di macchina a spirale sul suo volto. Subito dopo, il movimento di macchina si fa frenetico, convulso, vertiginoso, all’inseguimento di un’auto che corre per le vie di una città elegante ma anonima. In questa prima sequenza è condensato il manifesto stilistico del film, così come dell’intera poetica di Boyle, regista che in seguito ci abituerà a piacevoli sorprese, soprattutto con il vertice di Trainspotting, che avrebbe consacrato il talento dell’attore Ewan McGregor, qui promettente sconosciuto. Manifesto stilistico, quindi, ma non mero esercizio di stile. Perché, oltre a un senso estetico di plastica bellezza – accentuata da un’esaltazione pop dei colori e da inquadrature vertiginose e a spirale che citano e omaggiano il maestro del brivido Hitchcock – questo primo lavoro di Boyle regala momenti di autentico spasso amorale e visionarietà. Come la folle e divertentissima presentazione iniziale dei tre protagonisti, che mettono in moto un cast, con tanto di domande matte e spiazzanti, per scegliere il coinquilino giusto, quello in grado di reggere i loro cinici giochi di ruolo. O la conturbante scena del ballo tra Alex e Juliet e quella, più surreale, in cui lui è vestito da donna e guarda con lei un filmino, al massimo della complicità. Dal grottesco umorismo nero, che esalta l’amoralità dei due protagonisti, si passa al raccapricciante e visionario incubo allucinatorio del terzo personaggio, destinato, dai giochi crudeli dei due amici, a passare improvvisamente dal ruolo di vittima a carnefice. In questa seconda parte, il regista perde un po’ la presa, soprattutto per alcune forzature di sceneggiatura e per il sottotesto moralistico che suggerisce come l’avarizia possa scatenare i peggiori istinti dell’uomo e rovinare solide amicizie. Che, in realtà, non erano poi così solide, dato che sottilmente logorate da una latente gelosia, in un triangolo dominato – come in ogni noir che si rispetti – dalla classica femme fatale infida e manipolatrice. Interessanti suggestioni psicologiche, che alla fine chiudono il cerchio, ritornando là dove tutto era iniziato.
Il corpo di una donna viene recuperato da un misterioso motociclista fuori strada e trascinato su un camion, dove un’aliena, con le medesime sembianze della malcapitata, ne indossa letteralmente le vesti. L’aliena intraprende quindi un viaggio attraverso la Scozia, sfruttando il proprio fisico seducente per adescare uomini soli e non restituirli mai più alle loro vite. Glazer va dritto al centro del romanzo di Michel Faber, rinunciando ad ogni conoscenza o informazione preparatoria per occuparsi solo e soltanto del viaggio della protagonista e costruire così un on the road visionario, teso ad immaginare barlumi di altre dimensioni ma anche e soprattutto a guardare il nostro mondo con un occhio altro. Tre versioni del copione e un periodo di fermo potevano insospettire e ora appare evidente che l’incertezza era e resta legittima. Spogliato del contesto fantascientifico e ridotto quasi al silenzio, il film non guadagna a sufficienza in atmosfera da compensare le perdite in materia di psicologia e possibilità di identificarsi con il personaggio. Quest’ultima, poi, è una scomparsa non da poco, perché è proprio sull’ambiguità del discorso identitario che si gioca la partita: chi sia la vittima e chi il carnefice, è la domanda più che esplicita che il regista gira allo spettatore. Tornano, dunque, le sovrapposizioni e i doppi ingannatori di Birth, ma sparisce completamente il sentimento che ci avvicinava e turbava in quell’occasione. Là, infatti, dove Nicole Kidman ci straziava silenziosamente nel suo esser pronta ad apparire un’aliena e ad affrontare la solitudine pur di credere all’amore, con un ribaltamento narrativo che trascina però con sé anche un senso più profondo, Scarlett Johansson è qui inizialmente insensibile al dolore così come al piacere per poi sperimentare l’emergenza di una sorta di curiosità, di desiderio di un contatto, di saggiare un gusto, che la conduce rapidamente (e ideologicamente) alla rovina. Il confronto insistito sullo spazio visionario ed estetizzante ma in verità crudele e annientatore proprio della dimensione aliena e quello più aspro, squallido e violento delle Highlands e, per estensione, dell’umanità (abitato però dalla comicità televisiva e riscaldato qualche volta dal rifugio domestico) è tutto quello che Glazer decide di dire e mostrare, ma la sensazione è che sia un discorso povero e riduttivo, che ci lascia insensibili e alieni al destino della protagonista.
In viaggio da Amsterdam a Flessinga, nell’Olanda meridionale, tra incubi premonitori e fantasticherie aggressive a occhi aperti, uno scrittore gay, cattolico e alcolista incontra una rapace estetista che se lo porta a letto (ha già fatto morire tre amanti, lui potrebbe essere il quarto) e un muscoloso idraulico di cui s’invaghisce. Miscela di sesso e religione, affollato catalogo di citazioni funerarie e surrealistiche, truculenti slanci erotici, invenzioni oniriche, il film – tratto da un romanzo di Gerard Reve – è diretto da un regista che, pur con esiti assai diseguali, è coerente nel suo aggressivo pessimismo sulla natura umana e sulla sua animalesca e ineliminabile bassezza, nella sua concezione del corpo come ammasso di rifiuti e di secrezioni. Scritto da Gerard Speteman. La sgargiante fotografia è di Jan de Bont, futuro regista di Speed . Premiato in vari festival (Avoriaz, Oxford, Sorrento). Edizione italiana tagliata per 6 minuti.
Divisa in 5 capitoli (1. il Natale; 2. il fantasma; 3. il commiato; 4. i fatti dell’estate; 5. i demoni), un breve prologo e un lungo epilogo, è la storia della famiglia Ekdahl di Uppsala tra il Natale del 1907 e la primavera del 1909 con una sessantina di personaggi, divisi in quattro gruppi, che passa per tre case e mette a fuoco tre temi centrali: l’arte (il teatro), la religione e la magia. Congedo e testamento di Bergman, uomo di cinema, è una dichiarazione d’amore alla vita e, come la vita, ha molte facce: commedia, dramma, pochade, tragedia, alternando riti familiari (lo splendido capitolo iniziale), strazianti liti coniugali alla Strindberg, cupi conflitti ditetraggine luterana che rimandano a Dreyer, colpi di scena da romanzo d’appendice, quadretti idillici, interm ezzi di allegra sensualità, impennate fantastiche, magie, trucchi, morti che ritornano. Un film “dove tutto può accadere”. Compendio di trent’anni di cinema all’insegna di un alto magistero narrativo. Ebbe 4 Oscar (miglior film straniero, fotografia di Sven Nykvist, scenografia, costumi): un primato per un film di lingua non inglese. Girato in doppia versione, per cinema e TV.
Un vecchio medico parte in auto con la nuora, carica vari autostoppisti, va a trovare la vecchissima madre, arriva all’università di Lund dove si festeggia il suo giubileo, il 50° anniversario della sua attività professionale. Alle vicende del viaggio si alternano sogni, incubi, ricordi che si fanno parabola sulla morte nascosta dietro le apparenze della vita. “Non avevo capito che V. Sjöström si era preso il mio testo, l’aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze… Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato” (I. Bergman). È, forse, il più alto risultato di Bergman negli anni ’50. Orso d’oro al Festival di Berlino 1958 e molti altri premi. Il grande regista e attore Sjöström (1879-1960) morì 3 anni dopo le riprese.
Mentre sta portando a termine la ricostruzione dello scheletro di un dinosauro, un goffo paleontologo s’imbatte in Susan, ricca ed eccentrica signorina che, invaghitasi di lui, gli combina un sacco di guai. Di questo capolavoro della screwball comedy degli anni ’30 Hawks, produttore-regista per la RKO, diceva che ha un grave difetto: tutti i personaggi sono picchiatelli sebbene, nonostante le apparenze, il più “normale” sia proprio Susan.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.