Un film di Seijun Suzuki. Con Jô Shishido, Koji Nanbara, Isao Tamagawa Titolo originale Koroshi no rakuin. Hard boiled, Ratings: Kids+13, b/n durata 92 min. – Giappone 1967.MYMONETRO La farfalla sul mirino valutazione media: 3,13 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari
Hanada è sicario di un’organizzazione criminale di cui per le sue capacità è considerato il n. 3, ma, quando fallisce una missione (al momento dello sparo una farfalla gli si è posata sul mirino), deve morire. L’incarico viene affidato prima a sua moglie che non ci riesce, poi alla bella Misako che rinuncia per amore. Recatosi dal suo capo per vendicarsi, lo trova morto e capisce che dovrà regolare i conti con il n. 1. È l’ultimo dei 39 film che Suzuki diresse per la Nikkatsu in undici anni, uno dei più originali per la forte coscienza formale e la stilizzazione straniante con cui manipola una materia narrativa da cinema popolare, impregnato di violenza, erotismo, irrealismo. Qui la stilizzazione arriva a toni parodici (specialmente nella colonna musicale) e a prestiti dai film underground. Il titolo giapponese sta per Il marchio dell’assassino , il tatuaggio che i sicari esibiscono prima di colpire il nemico. È l’unico suo film distribuito sul mercato italiano.
Dopo essere stato investito da un’auto, un impiegato occhialuto (Taguchi), feticista dei metalli, si trasforma a poco a poco in un uomo metallico. Dovrà affrontare un suo simile (Tsukamoto) con il quale entrerà in simbiosi metallica. Autore completo (sceneggiatura, regia, fotografia, scenografia, effetti speciali, montaggio), “Tsukamoto costruisce un incubo surreale i cui contorni non sono mai definiti, celando il flusso di immagini in ambienti la cui unica funzione è quella di essere negata dalla violenza dei conflitti messi in scena” (G.A. Nazzaro). Apologo cyberpunk in cui la tecnica del videoclip è portata fino in fondo. Una tappa notevole nell’immaginario erotico e disumanizzato di fine secolo. Rintracciabile in home video.
Secondo una profezia, Macbeth è destinato a diventare re di Scozia. Sobillato dalla moglie, uccide re Duncan e ne prende il posto; elimina anche Banquo. Sopraffatta dal rimorso, Lady Macbeth si suicida. Il protagonista verrà ucciso a sua volta da Macduff. Il film è noto quale estremo esercizio di cinema in povertà. Una vera scommessa di Welles, grande appassionato di Shakespeare, col sistema hollywoodiano che non lo amava. La Republic prestò gli studi al “genio” che si destreggiò con un budget di soli sessantamila dollari. Tutto povero, appunto: dalla scenografia ai costumi a gran parte dei caratteristi. Giocando su contrasti e luci scure, il regista riuscì, facendo di necessità virtù, a dare la sensazione di un linguaggio buio (per nascondere le magagne) e di grande espressività.
Nella Scozia dell’anno Mille Macbeth prende il posto del sovrano legittimo dopo averlo assassinato. Deve uccidere i testimoni del delitto e poi figli e amici di quanti ha ucciso prima. Con l’aiuto di Kenneth Tynan, Polanski ha avuto due belle intuizioni nella trasposizione di Shakespeare: fare di Macbeth e sua moglie una coppia di giovani mediocri, quasi piccoloborghesi; capire che i re di Scozia erano dei bútteri e vivevano in rustici casolari. C’è la violenza, anche in eccesso, ma non la nera poesia della disperazione del testo. E i due giovani interpreti non sono all’altezza. Fa macchia il McDuff di Bayley. Il dramma fu portato sullo schermo 9 volte all’epoca del muto e 9 volte (comprese le edizioni televisive) nel sonoro.
Il primo film noir del cineasta Jean-Pierre Melville, basato su un soggetto di Auguste Le Breton. Robert Montagné, giocatore incallito e frequentatore assiduo di ritrovi malfamati, soprannominato “Bob il giocatore” proprio per la sua grande passione verso il gioco d’azzardo, trovatosi al verde, progetta con dei conoscenti una rapina al casinò di Deauville. Preso dal gioco, tuttavia, si dimentica profondamente dell’ora.
Michel, giovane intellettuale parigino, diventa borsaiolo per vizio, passione, orgoglio, gusto del rischio, ma si lascia toccare dall’amore di una ragazza madre. Bresson riprende l’espediente del diario di Il diario di un curato di campagna (1950) per fare un film ancor più ascetico, limpido e misterioso, spoglio eppur prezioso, freddo come un diamante, che lascia libero lo spettatore nell’interpretazione, anche del finale. L’azione è frazionata in piccoli blocchi racchiusi in sé stessi che creano un tempo narrativo speciale, aderente al protagonista e alla sua solitudine, ai confini con misticismo o follia. Straordinarie le sequenze sulla tecnica del borseggio. Musiche di J.-P. Lulli. Corse voce che i dialoghi fossero stati scritti o revisionati da J. Cocteau, ma nessuna prova ha confermato la leggenda. Non distribuito in Italia. Il titolo italiano è quello dell’edizione italiana passata in TV nel 1965.
Un greco paranoico, che gestisce un bar nel Texas, ha forti dubbi sulla fedeltà della moglie e ingaggia un detective. La signora, in effetti, se la spassa con uno dei dipendenti del locale e il marito tradito decide di farli uccidere entrambi dall’investigatore. Un giallo ingegnoso e un po’ folle, che preannuncia Arizona Junior, opera seconda dello stesso regista.
Un film di Arthur Hiller. Con Peter Falk, Alan Arkin, Richard Libertini, Nancy Dussault Titolo originale The In-Laws. Commedia, durata 103′ min. – USA 1979. MYMONETRO Una strana coppia di suoceri valutazione media: 3,25 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il matrimonio di Tommy e Barbara rischia di saltare per colpa di uno dei due consuoceri agente della CIA (P. Falk) che coinvolge l’altro (A. Arkin), quieto dentista, in mirabolanti avventure. Tra commedia di carattere e farsa di azione accelerata, garantisce 100 minuti di allegria. I due protagonisti gareggiano in acrobazia comica e A. Arkin vince ai punti. Scritto da Andrew Bergman che 2 anni dopo passò alla regia con Jeans dagli occhi rosa (So fine).
Karl è un portatore di handicap psichico che uccide la madre e il suo amante. Quando esce dalla clinica psichiatrica fa amicizia con un ragazzino orfano che subisce la violenza del convivente della madre. Karl uccide ancora. Billy Bob Thornton, oltre a essere un valido attore e un interessante regista, ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura con questo film, che mette di fronte alla follia senza paraventi e non rinuncia a insinuare qualche domanda importante. Un flop al botteghino da recuperare in video
Gran Bretagna, 1940. È una stagione cupa quella che si annuncia sull’Europa, piegata dall’avanzata nazista e dalle mire espansionistiche e folli di Adolf Hitler. Il Belgio è caduto, la Francia è stremata e l’esercito inglese è intrappolato sulla spiaggia di Dunkirk. Dopo l’invasione della Norvegia e l’evidente spregio della Germania per i patti sottoscritti con le nazioni europee, la camera chiede le dimissioni a gran voce di Neville Chamberlain, Primo Ministro incapace di gestire l’emergenza e di guidare un governo di larghe intese. A succedergli è Winston Churchill, con buona pace di re Giorgio VI e del Partito Conservatore che lo designa per soddisfare i Laburisti.
Avevamo bisogno di un altro film su Winston Churchill? Probabilmente no ma davanti alla performance di Gary Oldman L’ora più buia è la benvenuta. L’Homburg di feltro, il grosso sigaro, il panciotto, la voce grassa, il corpo goffo, il whisky (sempre) alla mano, il mumblingpermanente, lo rendono una sfida irresistibile per qualsiasi attore. Se sei un artista di eminenza e hai raggiunto l’età e la rotondità necessarie allora non puoi sottrarti dall’interpretarlo. Incarnare Winston Churchill per un attore è un rito di passaggio, un privilegio non privo di responsabilità. Richard Burton, Albert Finney, Michael Gambon, Timothy Spall, Viktor Stanitsyn (ben quattro volte), John Lithgow, Brian Cox, per citare soltanto gli esempi più celebri, si sono alzati uno dopo l’altro nella Camera dei Comuni a pronunciare uno dei suoi celebri discorsi, a dettare altrettante celebri lettere, a masticare il tabacco, a ringhiare il proprio disappunto al nemico ai microfoni di Radio Londra.
Reduce da un estemporaneo adulterio, un procuratore legale crede di poter riprendere la sua vita normale con l’amata moglie, ma l’amante lo perseguita ossessivamente. È un film furbo, ben confezionato, odioso e profondamente disonesto: c’è chi sostiene che è un film fascista yuppie, in linea con i tempi. Lyne fa un cinema chic aggiornato all’odierno immaginario pubblicitario.
Regista alla ricerca di un personaggio femminile e di una storia ha due rapporti successivi con due giovani donne, l’aristocratica Mavi e la borghese Ida. Ne esce due volte sconfitto. Più che crisi esistenziale, si hanno qui conflitti di sentimenti che hanno radici concrete: differenze di età, di classe, di educazione. È il più concreto film di Antonioni, quello in cui c’è maggiore spazio alle emozioni, al comportamento, alla fisicità. Il più parlato anche (Gérard Brach in sceneggiatura con l’apporto di Tonino Guerra), il più ironico e il più sereno anche se di una contristata serenità, puntato sui personaggi più che sul loro rapporto con l’ambiente e il paesaggio.
La famiglia Lisbon, composta dai genitori e da cinque ragazze fra i 13 e i 17 anni, vive in una cittadina dell’Oregon. Le cinque sorelle sono tutte molte belle e affascinanti ed esercitano sui ragazzi del vicinato un fascino irresistibile. Tutto cambia quando la più giovane, Cecilia, si suicida buttandosi dalla finestra.
Organizzazione segreta offre, dopo la morte apparente dell’interessato, una nuova vita e una diversa identità. Un industriale insoddisfatto accetta di sottoporsi al trattamento. È, in una certa misura, il patto di Faust aggiornato alla moderna tecnologia. L’idea originale è di un romanzo di David Ely, sapientemente sceneggiato da Lewis John Carlino. Come con la fantapolitica di Va’ e uccidi (1962), Frankenheimer è a suo agio con la fantasociologia; gli dà una mano con un suggestivo bianconero il vecchio James Wong Howe, operatore di merito. Finale allucinante, attaccare le cinture.
Nel 1946 in una Vienna devastata dalla guerra e divisa in quattro zone di occupazione, lo scrittore americano di western Holly Martins (Cotten) assiste ai funerali dell’amico Harry Lime (Welles), ma è veramente morto? Inseguimento finale nelle fogne della città. Scritto da Graham Greene che dalla sceneggiatura trasse un romanzo (1950), è uno di quei film – ormai un classico del cinema britannico – che nascono da uno straordinario concorso di circostanze: un bel copione, un regista quarantenne nella sua stagione di grazia, una tela di fondo – Vienna – di grande suggestione grazie al bianconero di taglio espressionistico di Robert Krasker, il romantico commento musicale su cetra di Anton Karas, interpreti funzionali, un perfetto ingranaggio d’azione in cui la tecnica del giallo si coniuga con una sottile indagine psicologica. Il vero tema del film è la morte, come in La signora di Shangai. E poi Welles: c’è un salto di qualità tra la breve parte che riguarda Harry Lime e il resto. Non sembra dubbio che abbia dato più di un suggerimento a Reed; è certo che collaborò ai dialoghi. Sua è la celebre battuta sull’Italia del Rinascimento e la Svizzera. Per molti anni Lime divenne un sinonimo di Welles che portò il personaggio in una serie radiofonica di 39 puntate: Le avventure di Harry Lime. Palma d’oro a Cannes e Oscar per Krasker. Esiste anche in versione colorizzata. Ridistribuito nel 2000 in edizione originale con sottotitoli italiani.
Calcutta, anni ’30. Squattrinato e senza un lavoro fisso, con ambizioni letterarie ancora insoddisfatte, Apu (Chatterjee) si adatta a un matrimonio di convenienza, sposando la bella Aparna (Tagore), cugina del suo amico Pulu (Mukherjee), promessa sposa di un folle. Dopo qualche mese di felicità, Aparna va a partorire in casa di sua madre, ma muore di parto. Soltanto cinque anni dopo, si decide a far visita al piccolo Kajal (Chakravarty). 5° film di Ray, grande cineasta bengalese, chiude la cosiddetta “trilogia di Apu”, composta da Il lamento sul sentiero e Aparajito ( L’invitto ), tratta dal romanzo Aparajita di Bibhutibhusan Banerjee. In ciascuna delle tre tappe Apu ha perduto o abbandonato le persone più amate: la sua è una saga lirica del dolore e della frustrazione. Influenzato da Jean Renoir, ma anche dai sovietici Dov82 enko e Donskoj (e dalla narrativa russa che è il loro retroterra), Ray sta in bilico tra pessimismo e serenità con una rappresentazione della realtà che è contemplativa, ma attenta ai particolari, al paesaggio e soprattutto agli esseri umani con una maturità che rimanda ai film giapponesi di Ozu e di Mizoguchi.
Monumentale, spettacolare, costosissima saga tratta dal romanzo di Wouk, di una famiglia di ufficiali della Marina americana allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sullo sfondo della storia si dipanano le vicende d’amore, d’avventura, di carriera dei numerosissimi personaggi. Ne è stato prodotto un sequel, sempre tratto da Wouk, intitolato Ricordi di guerra
Durante l’occupazione nazista, l’ufficiale tedesco Werner von Ebbrennac si stanzia nella casa di campagna di un anziano signore che abita con la nipote. Costretti ad ospitarlo, i due non replicano mai alle sue disquisizioni su quella cultura francese di cui è appassionato, nelle sere del rigido inverno del 1941 in cui cerca il conforto del calore del caminetto. Sebbene si renderà conto della follia che regge la barbarie nazista, von Ebbrennac non avrà il coraggio di fare la scelta giusta. Sentito esordio dietro alla macchina da presa di Jean-Pierre Melville, Il silenzio del mare ha aperto una nuova strada nella storia del cinema francese, nonostante le accuse di “monologo interiore illustrato” e di una certa rozzezza a livello squisitamente cinematografico mosse allora. Tratto dall’omonimo romanzo breve pubblicato nella clandestinità da Vercors, pseudonimo di Jean Marcel Adolphe Bruller, il film è un dramma da camera pervaso da rovelli esistenziali e senso della disfatta, solitudine e dolore. Con un budget minimo, pari all’incirca ad un decimo del costo di una produzione media, e una troupe di collaboratori di cui nessuno professionista, il cineasta esordiente ha inaugurato, di fatto, quella scioltezza di linguaggio che sarà recepita, una decina di anni dopo, dagli autori della Nouvelle Vague. Come faranno i registi del venturo movimento, infatti, Melville insegue un’estrema libertà compositiva, definendosi nella maniera più stretta possibile autore primo del testo filmico, lontano dalle strettoie delle produzioni e dalle schiavitù di qualsiasi genere: non a caso, oltre alla regia, curò adattamento, produzione e montaggio. Fuori sistema, austero e angosciante, ma sempre vivo nella sua chiarezza espositiva, si fonda sulla voce off dell’anziano proprietario di casa, spesso immobile o con la pipa tra le mani per scaldarsi, che fronteggia col silenzio il simbolo di un invasore via via vacillante nelle sue stesse convinzioni. Animato da un autentico spirito corsaro, tutto interiorizzato e meditativo, apparirà in netta controtendenza a chi conosce quella riscrittura del noir scattante e “americanizzata” che coincide con la maturità artistica di Melville. Caso isolato e irripetibile, Il silenzio del mare incontrò un grande favore di pubblico e, in parte, anche di critica. Fotografato da Henri Decaë, qui alla sua prima prova e poi abituale collaboratore del regista così come di altri nomi della nascente Nouvelle Vague. Girato nella stessa casa in cui Vercors aveva immaginato il suo racconto
Oscuro e anziano gregario della malavita, con tre figli a carico e una condanna che gli pende sulla testa, è costretto a fare l’informatore della polizia. Uno dei suoi amici è incaricato di metterlo a tacere. Da un romanzo di George V. Higgins. Uno dei migliori polizieschi degli anni ’70 che, per l’atmosfera di malinconica fatalità, rimanda al cinema “nero” degli anni ’40. Per l’uso lento degli inseguimenti d’auto è il contrario di Bullitt . Anche nelle situazioni più trite è originale. Mitchum perfetto.
Durante la Guerra Civile, morto il padre repubblicano in battaglia, il dodicenne Carlos (Tielve) è affidato a un orfanotrofio isolato, dove la zoppa preside Carmen (Paredes) e il gentile professor Casares (Luppi) sperano di proteggere il loro posto dai franchisti in arrivo. Per Carlos i pericoli sono anche all’interno: un compagno prepotente, un ruvido portiere e le voci sulle apparizioni di un ragazzino defunto. Opus n. 3 del messicano Del Toro che l’ha scritto con Antonio Trasorras e David Muñoz, è un ambizioso thriller psicologico che, preternaturale specialmente nell’ultima parte, cerca di diventare metafora politica. Non ci riesce, ma si fa apprezzare per atmosfera, effetti di paura non trucidi e direzione degli attori, fotografia di Guillermo Navarro. Prodotto da Augustin Almodóvar. Distribuito in Italia solo nel 2006.
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