Los Angeles, 1949. Mickey Cohen, pugile ebreo col vizio della vittoria, risale la gerarchia della criminalità a colpi di pistola e crimini efferati. Padrone superbo e incontrastato della città, compra tutto e tutti deciso a superare i confini di Los Angeles e a ‘occupare’ Chicago. Giudici e agenti, corrotti dal suo denaro e dalla sua avidità, sono testimoni passivi e agevolatori attivi. Soltanto John O’Mara, reduce della Seconda Guerra Mondiale e marito di una moglie incinta, resiste al fascino e all’ascesa di Mickey, boicottando le sue attività criminali.
Visto da fuori, è il bio-pic di Mark Zuckerberg (1984) che, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, inventò Facebook. In realtà è la storia di una vendetta e di una solitudine, quella che il 47enne Fincher, regista di primo piano nella Hollywood di oggi, ha scritto con lo sceneggiatore Aaron Sorkin, traendola da un libro di Ben Mezrich. Mark è un esperto hacker. Fa la corte a Erika che, come lui, studia all’università di Harvard. Lei, però, non gli dà retta e lui vuole fargliela pagare. Prende le foto di centinaia di studentesse, accessibili a tutti online, invitando i loro compagni maschi a esprimersi sulla loro popolarità: è la premessa di Facebook. Lo fa sfruttando un’idea precedente dei gemelli Winklevoss e poi truffando Eduardo Saverin, suo socio e suo unico amico. Difficile da seguire per chi non si intende di computer e di informatica, la 1ª parte del film descrive la nascita del social network . Nella 2ª, però, si approfondisce il protagonista “analfabeta di sentimenti, un tardo adolescente geniale ma incapace di uscire da sé stesso” (R. Escobar) e di arrivare al suo prossimo. A Fincher interessano il ritratto di Zuckerberg e il microcosmo maschile e misogino in cui vive, la catatonia morale di giovani che riassumono in loro stessi il cinismo e la cupidigia dei genitori e l’impudenza di un’adolescenza dalla quale non vogliono uscire. 8 candidature e 3 Oscar.
Earl Stone, floricoltore appassionato dell’Illinois, è specializzato nella cultura di un fiore effimero che vive solo un giorno. A quel fiore ha sacrificato la vita e la famiglia, che di lui adesso non vuole più saperne. Nel Midwest, piegato dalla deindustrializzazione, il commercio crolla e Earl è costretto a vendere la casa. Il solo bene che gli resta è il pick-up con cui ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione. La sua attitudine alla guida attira l’attenzione di uno sconosciuto, che gli propone un lavoro redditizio. Un cartello poco convenzionale di narcotrafficanti messicani, comandati da un boss edonista e gourmand, vorrebbe trasportare dal Texas a Chicago grossi carichi di droga. Earl accetta senza fare domande, caricando in un garage e consegnando in un motel. La veneranda età lo rende insospettabile e irrilevabile per la DEA.
Avventuriero bonaccione scopre una vena d’oro mentre scava per seppellire un morto. Nasce una città di baracche che crollerà nelle gallerie scavate dai cercatori. Tratto da un vecchio musical degli anni ’40, ma rinnovato nella vicenda, sfrutta i modi usati per il palcoscenico. Prolisso, faticosamente umoristico, uno dei fiaschi storici degli anni ’60. Pose termine alla carriera di Logan e rovinò la carriera di 2 o 3 alti funzionari della Paramount.
Brooklyn, 1957. Rudolf Abel, pittore di ritratti e di paesaggi, viene arrestato con l’accusa di essere una spia sovietica. La democrazia impone che venga processato, nonostante il regime di guerra fredda ne faccia un nemico certo e terribile. Dovrà essere una processo breve, per ribadire i principi costituzionali americani, e la scelta dell’avvocato cade su James B. Donovan, che fino a quel momento si è occupato di assicurazioni. Mentre Donovan prende sul serio la difesa di Abel, attirandosi l’incomprensione se non il disprezzo di sua moglie, del giudice e dell’opinione pubblica intera, un aereo spia americano viene abbattuto dai sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero in Russia. Si profila la possibilità di uno scambio e la CIA incarica Donovan stesso di gestire il delicatissimo negoziato. L’intro hitchcockiano cede man mano il passo ad uno svolgimento sempre più letterario, dove il racconto è già leggenda e ancora incertissimo presente, come esemplifica l’immagine tombale del muro di Berlino; e dove il Donovan di Tom Hanks sembra rispondere al paradigma dell’everyman, cappotto cappello ombrello, se non fosse che, nel cinema di Spielberg più che mai, l’apparenza in qualche modo inganna. Donovan è infatti qualcuno che incarna il mestiere che fa, lo onora come una “professione”. Non si occupa di giustizia, è un giusto. Se a lui appare incredibile che il suo assistito non si preoccupi visibilmente del suo destino, all’altro appare inizialmente inverosimile che l’avvocato non voglia sapere la verità sulla sua colpevolezza o innocenza. “Servirebbe?” No. Per lui, che ha già fatto il proprio dovere in Normandia (salvando il soldato Ryan), ogni uomo è importante, ogni vita. Donovan non vede Abel innanzitutto come una spia, un russo, un nemico: sceglie di guardarlo come una persona. Man mano che lo conosce, gli darà un colore e una profondità, fors’anche quella dell’amicizia o dell’ammirazione, ma la scelta riguardo allo sguardo da adottare l’ha fatta in partenza. Come il regista. Lo dice bene la prima inquadratura, nella quale Abel sta dipingendo il suo autoritratto, con l’ausilio di uno specchio. L’immagine nello specchio e quella sulla tela sono immagini della stessa persona, ma non sono identiche. La prima riflette una superficiale obiettività, la seconda reca traccia del tempo e dei pensieri intercorsi nelle ore del fare, e soprattutto reca traccia del suo autore. Non conta quello che di te penseranno gli altri, dirà Donovan al soldato Powers, ma “quello che sai tu”. Consegnando all’avvocato il dono del finale, Abel gli sta dunque dicendo: “ti conosco, so chi sei”, ed è questo il riconoscimento che più può soddisfare uno come Donovan; di quello pubblico, teletrasmesso, può fare anche a meno, può dormirci su. In un’epoca come la nostra, di sospetti quotidiani, intercettazioni isteriche, identificazioni affrettate di un uomo col suo credo, il suo abito o la sua provenienza, Il ponte delle spie è un film di bruciante attualità, profondamente consapevole della dignità della professione artistica e della sua funzione sociale
Il film originale è stato concepito da Sean S. Cunningham come il primo di diversi episodi horror-giallo con in comune la data che fa da titolo[senza fonte], ma il successo del primo film ha spinto la serie a incentrarsi sulle altre imprese di Jason Voorhees. La serie è proseguita grazie ad altri registi che hanno mantenuto gli stessi meccanismi narrativi presenti nel primo film. Tutti i film appartengono al genere slasher, quindi caratterizzati da omicidi crudi, possibilmente spettacolari e granguignoleschi.
Inghilterra, 1935. Briony Tallis è un’adolescente appassionata di letteratura e dotata di una fervida immaginazione. La naturale vocazione alla scrittura la porta a osservare la vita che si svolge nella tenuta estiva dei Tallis. Decisa a romanzare l’esistenza annoiata e decadente della famiglia, Briony fraintende e altera consapevolmente la relazione sentimentale della sorella maggiore Cecilia con Robbie Turner, figlio della governante. L’errore commesso nell’estate del ’35 segnerà per sempre la sua vita e quella dei due amanti. Diversi anni dopo, scrittrice affermata colpita da demenza senile, consegnerà al mondo il suo atto riparatorio, il suo ultimo romanzo, espiando la colpa che deriva da un potere terribile: quello di imprimere a una storia un andamento estraneo alla verità. Dopo il gradevole ma impersonale adattamento di Orgoglio e pregiudizio, Joe Wright interpreta sullo schermo le pagine di Ian McEwan, trattando attraverso un impianto tradizionale il tema dell’errore, che colpisce e influenza la vita di chi lo commette e di chi lo subisce. Se la trasposizione della Austen consentiva al regista di affrontare la mai risolta guerra tra i sessi, Espiazione riflette sul pensiero visionario dell’adolescenza, sull’educazione dell’artista e sul processo di purificazione dell’identità. Fedele nella struttura al romanzo omonimo, Wright suddivide il film in tre parti, che coprono l’intera esistenza di Briony cogliendola adolescente colpevole nel ’35, infermiera tardivamente pentita negli anni della guerra, scrittrice apprezzata sul finire della vita e degli anni ’90. Tra il movimento iniziale, in cui si svolge e compie l’azione principale, e l’epilogo “nella prima persona” riservato al talento e all’ambiguità anglosassone di Vanessa Redgrave, il regista introduce il racconto di guerra. Nel 1940 la Francia capitolava sotto l’avanzata inarrestabile dei tedeschi e più di trecentomila soldati inglesi, ripiegando verso la costa, furono ricondotti in patria dalle navi. Mentre Robbie Turner cerca di raggiungere l’Inghilterra e l’amata Cecilia, Briony, infermiera tirocinante al S.Thomas, impatta con la realtà bellica. Se l’incolpevole Robbie aveva sconvolto il suo ordine familiare e “minacciato” la sorella maggiore, la guerra con la sua brutale oggettività compromette per sempre la stagione idilliaca dell’infanzia e l’epopea dell’amore romantico. Ancora una volta a Wright sembra mancare il coraggio di andare fino in fondo, perdendo l’occasione di riflettere e problemizzare sui vizi e le virtù dell’invenzione narrativa cinematografica. Opportunità offerta come un dono dall'”Espiazione” letteraria di McEwan che, moltiplicando i punti di vista e le storie (quella vera e quella falsa, quelle plausibili e quelle illusorie), crea un romanzo che riflette sul romanzo.
Ultimo dei 9 western diretti da Daves, il più eclettico, utopico, psicologico (e “femminista”) dei cinecantori del West. Scritto per la Warner da Wendell Mayes e Halsted Welles, è imperniato sul dottor Frail, uomo dal passato misterioso (ha ucciso la moglie fedifraga), medico filantropico e giocatore di poker, veloce con la pistola e poco socievole anche con chi _ come la svizzera Elisabeth _ gli dà il suo riconoscente affetto. Quando, in un villaggio del Montana, uccide uno dei cercatori d’oro che ha cercato di violentarla, soltanto un atto d’amore della sua ex paziente lo salva dal linciaggio. “Film aspro, spigoloso in cui il Bene e il Male convivono ormai in tutti i personaggi cui viene negato anche il riposo momentaneo nell’elegiaca serenità del paesaggio” (Aldo Viganò). Finale di intensa originalità.
Quattro persone vestite da imbianchini entrano nell’affollata hall del Manhattan Trust, una succursale di un’istituzione finanziaria internazionale a Wall Street. Nel giro di pochi secondi, i rapinatori mascherati mettono la banca sotto un assedio pianificato con chirurgica precisione, e i 50 tra clienti e impiegati diventano involontari ostaggi di un furto inattaccabile. I negoziatori degli ostaggi della Polizia di NY, i Detective Keith Frazier e Bill Mitchell vengono mandati sul luogo con l’ordine di stabilire un contatto con il capo dei rapinatori, Dalton Russell, e di assicurare il rilascio degli ostaggi. Ma le cose non vanno come previsto.
Ha avuto dieci nominations per l’Oscar e ne ha vinti solo due minori (direzione artistica e costumi). Beatty e Keitel, pur non avendo l’Oscar per l’interpretazione sono i migliori sul campo. Infatti la regia di Levinson, brillante ma anche plateale, ha solo qualche vero sprazzo: come un dialogo tra Beatty e la Bening creato con le ombre cinesi. L’immagine poi di questo gangster assassino è troppo ambigua. Troppo simpatico, eppure sanguinario, troppo romantico nel suo sogno di creare Las Vegas ma al tempo stesso pronto a uccidere un grande amico con le lacrime agli occhi. E come le “prime” delle opere di Puccini, l’anteprima della Città del gioco è un fiasco per poi esplodere commercialmente una volta che il creatore è morto. Garbata la musica di Morricone, candidato all’Oscar.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Un giovane delinquente, ricercato dalla polizia, viene accolto in casa da un famoso scienziato e ricambia l’ospitalità continuando a commettere furti e insidiando la moglie del suo benefattore. Quest’ultimo, rendendosi conto che il giovane è vittima di un trauma infantile, continua ad aiutarlo e a trarlo dai guai.
Dal romanzo di Jane Austen. Inghilterra fine Settecento. Muore Henry Dashwood che ha due famiglie. I suoi averi vanno al maschio primogenito. L’altra famiglia si trova praticamente sul lastrico. Madre e tre figlie vivono modestissimamente ma senza perdere la dignità. Le ragazze in età hanno le loro vicende amorose. La romantica Marian spasima per un bellimbusto che la farà molto soffrire. Ripiegherà su un colonnello comprensivo e molto più grande di lei. Elinor, razionale, equilibrata, romantica trattenuta, dopo una lunga attesa, sarà a sua volta finalmente felice. È singolare come un regista di Taiwan sia riuscito a cogliere lo spirito inglese di quella stagione. Conta senz’altro la sceneggiatura scritta dalla Thompson, che le ha valso il premio Oscar. Case stupende, campagna dolce di laghi e di fiumi, la pioggia che fa incontrare gli amanti, i sonetti di Shakespeare, i balli a Londra, l’educazione, i sentimenti formali di quel tempo. Tutto comunque dipende dallo stato sociale, cosa valida soprattutto per le donne. Soltanto fatti eccezionali potranno cambiare le cose. Il testo della grande scrittrice inglese ha certamente facilitato tutto quanto. Il film ha avuto la “nomination” ed è stato battuto da Braveheart, ma il risultato avrebbe anche potuto essere ribaltato e nessuno avrebbe urlato allo scandalo.
Da un romanzo di Paul I. Wellman. Aiutato da un avventuriero, un ranger del Texas si finge trafficante d’armi per incastrare una banda di fuorilegge in combutta con i Comanches. Western di passo svelto, piuttosto violento per l’epoca, che alterna sagaci sequenze spettacolari con momenti opachi, con il grosso J. Wayne ben saldo in sella. Ultimo film di M. Curtiz.
Un film di Delmer Daves. Con Van Heflin, Glenn Ford, Henry Jones, Felicia Farr. Titolo originale 3:10 to Yuma. Western, Ratings: Kids+16, b/n durata 92′ min. – USA 1957. MYMONETRO Quel treno per Yuma valutazione media: 3,14 su 14 recensioni di critica, pubblico e dizionari. I casi della vita obbligano un povero contadino a sostituirsi allo sceriffo per scortare un pericoloso bandito verso il forte di Yuma (Arizona, ai confini con California e Messico). Nonostante i rischi, con intelligenza e tenacia porta a termine la missione. Film a basso costo ma ad alta tensione, in forma di dramma psicologico. Uno dei migliori western degli anni ’50 anche perché implica, tra le righe, una semplice e profonda lezione morale. Scritto da Halsted Welles, da un racconto di Elmore Leonard, fotografia di Charles Lawton Jr., canzone di successo con la voce di Frankie Laine. Non sono pochi i momenti degni di memoria, quelli in cui “l’elegiaco umanesimo di D. Daves riesce a esprimersi nel modo più compiuto e originale” (A. Viganò).
Abbandonata dalla sua astronave in un bosco della California, una piccola creatura galattica è aiutata da un ragazzino che la nasconde nella propria casa. Saranno ritrovati e catturati da un esercito di poliziotti e scienziati. Un’orgia di carineria, una macchina perfetta il cui combustibile è fatto di zucchero e di una miscela calcolatissima di umorismo e melodramma, pathos e invenzioni comiche, buoni sentimenti e critica ai valori costituiti, grande spettacolo tecnologico e coinvolgimento emotivo, rimandi culturali ed effetti speciali oltre a un sottotesto di mito religioso. Scritto da Melissa Mathison. Costato un milione e mezzo di dollari e frutto dell’ingegno di Carlo Rambaldi, il piccolo pupazzo elettronico è la carta vincente di questa favola per bambini di tutte le età, munita anche di un messaggio: bisogna avere gli occhi (il cuore, la fantasia) di un bambino per capire e accettare i “diversi”. Uno dei più grandi successi del cinema mondiale. 3 premi Oscar (musica, sonoro, effetti speciali). Ridistribuito nel 2002 in una nuova edizione rimasterizzata nel suono con l’aggiunta della buffa sequenza della vasca da bagno e di molte inquadrature in apertura e la cancellazione delle pistole in mano ai poliziotti inseguitori. Ritoccato anche il doppiaggio italiano con la voce roca di E.T. affidata a Germana Dominici (quella originale è di Debra Winger).
Due vecchi sposi si ritirano nella tranquillità della loro casa sul lago. Lui sta per compiere ottant’anni e, per festeggiarlo, arriva anche la figlia divorziata, accompagnata dal “fidanzato” e dal figlio di lui, un ragazzino apparentemente intrattabile che viene poi lasciato in compagnia dei “nonni”. I rapporti tra l’adolescente e gli anziani ospiti sono inizialmente difficili, ma l’ostilità si trasforma in una bellissima amicizia. Film delicatissimo, forse, a tratti, troppo zuccheroso che ha fruttato a Henry Fonda l’Oscar poco prima della morte.
The Pacific è una miniserie televisivastatunitense di genere bellico prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, insieme al network HBO e alle case di produzione Seven Network Australia e DreamWorks. The Pacific, anch’esso incentrato su fatti di cronaca realmente accaduti, si differenzia dalla miniserie Band of Brothers – Fratelli al fronte, anch’essa prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, in quanto incentrata sugli avvenimenti della guerra del Pacifico, anziché sullo scenario europeo. Nella versione originale la voce narrante è quella di Tom Hanks (doppiata in italiano da Roberto Chevalier), che apre ogni puntata insieme alle parole di testimonianza di alcuni sopravvissuti e ad immagini di repertorio. Il 7 dicembre 1941 la base navale di Pearl Harbor viene attaccata dalle forze militari nipponiche, causando di conseguenza l’intervento americano nella seconda guerra mondiale. Il tenente colonnello Lewis “Chesty” Puller tiene un discorso ai Marinesdel suo battaglione e annuncia loro che combatteranno la guerra sul fronte del Pacifico, dove l’Impero giapponese sta ottenendo numerose vittorie. La 1ª Divisione Marines, di cui fanno parte tra gli altri i marines John Basilone e Robert Leckie, viene quindi mandata sull’isola diGuadalcanal, un luogo fino a poco tempo prima sconosciuto. Negli Stati Uniti, nel frattempo, Eugene Sledge, che non aveva potuto arruolarsi prima per un soffio al cuore, inizia l’addestramento nel Corpo dei Marines.
Due carcerati, il bianco Johnny Jackson e il nero Noah Colleen, scappano insieme dal furgone blindato della polizia. Sono legati tra loro da una catena, ma litigano e fanno a botte in continuazione.
Roma: età di Tiberio imperatore. Il giovane e nobile Marcello ritrova a un’asta di schiavi la bella Diana, innamorata di lui da quando erano bambini. Marcello acquista lo schiavo Demetrio soffiandolo a Caligola, futuro imperatore. La vendetta non si fa attendere, Marcello è inviato come tribuno in Palestina, cioè nella terra più irrequieta di tutto l’impero. È proprio il momento dei fatti di Pilato e Gesù. Questi è condannato a morire sulla croce e l’incarico della crocefissione viene affidato proprio a Marcello che, bagnatosi col sangue del Cristo, non regge al rimorso e quasi impazzisce. Torna a Roma ricevuto da Tiberio, che dopo aver ascoltato il racconto del tribuno lo rimanda sul luogo a cercare la tunica di questo strano predicatore. Intanto Diana è stata promessa a Caligola, ma ama più che mai Marcello. In Palestina il romano ritrova Demetrio che custodiva la tunica. Marcello si è ormai convertito quando torna a Roma. Nel frattempo Caligola è diventato imperatore e non ha dimenticato. Marcello viene catturato e condannato a morte. Diana sceglie di morire con lui. La Fox aveva scelto questa storia di Lloyd Douglas dagli evidenti accenti mélo per un’importantissima operazione di cinema: La tunica doveva rappresentare la prima, vera, concreta risposta del cinema a quello che stava diventando lo strapotere della televisione. Così il film venne fotografato in cinemascope e il vecchio schermo quadrato venne praticamente moltiplicato per tre. È stata una delle più importanti invenzioni del cinema, la prima di una serie che arriva ai nostri giorni e che continuerà. La Fox era specializzata nella versione di grandi romanzi più o meno popolari (di autori come Hemingway e Fitzgerald, per esempio), realizzando una contaminazione efficace e tutto sommato positiva, anche se venivano privilegiati il sentimento e l’effetto. Anche La tunica, seppur scritto da un autore meno nobile di quelli citati, rientra perfettamente in questi concetti. Il risultato, sul piano squisitamente cinematografico, fu ottimo, il film fece grandi incassi ed ebbe la nomination per l’Oscar. Dunque si può affermare che il 1953 sia l’ultimo anno dell’era non televisiva, l’ultimo anno del cinema puro, senza condizionamenti. Il critico Mario Guidorizzi, forse con un pizzico di paradosso, nel saggio introduttivo del suo Hollywood afferma proprio che il cinema finisce nel 1953. Vale la pena ricordare i cinque titoli finalisti per gli Oscar di quell’anno: Da qui all’eternità (vincitore), Giulio Cesare, Il cavaliere della valle solitaria, Vacanze romane e, appunto, La tunica. Se era la fine di un’epoca, era uno splendido canto del cigno.
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