A Savannah il 2 maggio 1981 Jim Williams, ricco antiquario, uccide a colpi di pistola Billy Hanson, suo giovane amante e mantenuto. Dopo complicate vicende giudiziarie, il processo si conclude con una assoluzione per legittima difesa. Allo spettatore sono proposte 3 versioni del processo. Libero di scegliere. La sceneggiatura è desunta da un libro inchiesta di John Berendt, sceneggiato da John Lee Hancock, ed è una storia sotto il segno dell’ambiguità. Tolto l’omicidio, non succede niente. Sapiente e sottile il camaleontico Spacey attorniato da eccentrici personaggi di secondo piano sui quali il racconto indugia. Tra questi la straordinaria Lady Chablis, transessuale che ruba ogni scena in cui appare. Divertente la gag dell’ex cameriere nero di impeccabile distinzione che ogni giorno porta a passeggio un cane che non c’è.
Frankie e Tommy sono amici fraterni, che si arrangiano con qualche lavoretto illegale per il boss Gyp De Carlo. Ma Frankie è dotato di una voce straordinaria, tale da convincere persino il boss sul suo talento unico: nel giro di breve tempo, insieme a Bob e Nick, i due formeranno i Four Seasons, destinati a sbancare nel mondo del pop anni Sessanta. Il rapporto privilegiato tra Clint Eastwood e la musica non è una novità: autore di diverse colonne sonore e di racconti di vita e suono come “Bird” o “Honkytonk Man”, innamorato di ogni genere alla base della cultura americana. Come tale, anche del rock anni ’50 misto al doo-wop – quello che Frank Zappa chiamava vaseline rock e scimmiottava con la finta band Ruben And The Jets -, che deve aver esercitato sull’ottantaquattrenne regista un fascino tale da convincerlo ad accettare la scommessa (l’ennesima di una carriera inarrestabile) di trasporre su grande schermo il successo di Broadway Jersey Boys. Storia tutta italo-americana di gang, furtarelli e ragazzi che diventano uomini, quella che idealmente sembrerebbe destinata a finire tra le mani di Martin Scorsese, anziché in quelle da cowboy urbano di Eastwood. Clint, invece, mostra rispetto per la materia e non tradisce lo spirito dello show, mantenendo anche l’espediente dei personaggi che si rivolgono alla macchina da presa. Una timidezza inconsueta, quella di Eastwood nei confronti dello script di John Logan e Rick Elice, che rende Jersey Boys una creatura a più teste, divisa tra momenti in cui ambire a qualcosa di più (quel sinistro alone di morte al lavoro che Clint sfiora, senza riuscire ad afferrarlo come in Space Cowboys) ed altri in cui hanno la meglio le esigenze di script, di pubblico o della produzione (tra i produttori esecutivi lo stesso Frankie Valli). Varie anime collidono senza mai riuscire ad amalgamarsi in maniera compiuta: il biopic musicale, la tentazione di un Glee ambientato negli anni della brillantina e il romanzo scorsesiano in chiave duplice, sul New Jersey e il difficile background italo-americano da un lato (Mean Streets) e l’epopea del Brill Building dall’altro (Grace of My Heart). Proprio l’ingresso in scena del Brill Building, tempio del pop e luogo in cui la storia della musica cambierà irreversibilmente, è ripreso con un sontuoso carrello verticale, che ad ogni nuovo piano del palazzo scopre un genere nascente di pop music. Seppur geniale, uno sprazzo isolato, che fa il paio con ben calibrati momenti di bromance tra i membri della band, prima che a prevalere definitivamente sia un copione sovraccarico di avvenimenti, con sequenze come quella della fuga di Francine, figlia di Frankie, di un’ordinarietà difficile da ascrivere a un regista come Eastwood. Un episodio inevitabilmente minore nella filmografia di Clint, ma sintomatico di uno spirito incapace di sedersi sugli allori senza assumersi dei rischi.
Uscito in Francia col titolo Fatale , è tratto dal romanzo di Josephine Hart, sceneggiato da David Hare. Politico inglese, leader del partito conservatore, incontra casualmente Anna, la ragazza di suo figlio, e sale sul treno rapido della passione che porta alla distruzione di una famiglia. Film sulla forza del desiderio, sulla caduta, sull’uccisione del figlio, sulla ricca società borghese, è l’opera più loseyana di Malle (1932-95). Grazie al copione sapientemente ellittico di Hare, ha armato l’eleganza fluida del suo linguaggio di un puntiglio intransigente che dà la stessa importanza agli oggetti e all’arredo come ai personaggi e che carica le sequenze erotiche di una furibonda necessità. In inglese e in italiano il titolo allude al trauma incestuoso subito in gioventù da Anna che la Binoche, orchidea nera, impersona con imperscrutabile intensità. Quello francese sottolinea, invece, la sua natura di strumento del destino. Musica di Zbigniew Preisner, assiduo collaboratore di Kieslowski.
Il cacciatore di taglie Jonathan Corbett (L. Van Cleef) ha l’incarico di catturare Cuchillo (T. Milian), giovane messicano accusato di omicidio con stupro. Durante la lunga caccia viene a sapere che il vero colpevole è il figlio del ricco che l’ha assunto. Scritto da Franco Solinas, è uno dei non pochi “spaghetti-western” politicizzati di ambiente messicano. Qua e là qualche traccia di Sergio Leone. Musiche di Ennio Morricone che trascrive per chitarra Per Elisa di Beethoven. Titolo spagnolo: El halcón y la presa .
Nell’Iowa del 1965, un fotografo in cerca di ponti coperti da fotografare per il National Geographic incontra Francesca, casalinga di origine italiana non più giovane che si gode qualche giorno di libertà, avendo marito e figli lontani. Tra i due scocca la scintilla dell’amore destinato a durare 4 giorni. La loro storia sarà scoperta anni dopo dai figli, attraverso gli appassionati diari della madre. Ispirato al romanzo (1992) di Robert James Waller, adattato dal talentoso Richard LaGravenese, è il 18° film di C. Eastwood regista che ha saputo dirigere sé stesso e la strepitosa M. Streep con una sensibilità, una leggerezza profonda e una verosimiglianza ineguagliabili: i personaggi, due “normali” persone di mezza età, acquistano progressivamente spessore ed “eccezionalità” in un contesto di tranquilla quotidianità sottolineata dalla opaca fotografia di Jack Green e dalle canzoni di Johnny Hartman. È l’unico film in cui Eastwood assume il punto di vista della donna. Uno dei più struggenti film d’amore degli anni ’90, imperniato, come sempre, su una impossibilità. Un’altra conferma del classicismo di un regista che qui affronta di petto il genere, attraversandolo controcorrente.
Si comincia con una scena straconosciuta: il serial killer che lascia un messaggio di sangue al poliziotto, che sarebbe Terry Mc Caleb (Eastwood) che individua fra la gente un tipo fin troppo sospetto, lo insegue fino ad essere colpito da infarto. Due anni dopo troviamo Terry che si sta faticosamente riprendendo da un trapianto di cuore. Un giorno lo abborda certa Graciela Torres, sorella di Gloria la giovane che gli ha donato il cuore. La messicana vorrebbe che Terry, vivo per la morte, violenta, della sorella, trovasse il suo assassino. L’ex detective lo sente come un “debito di sangue”, appunto, e si mette al lavoro. Dopo varie false piste Mc Caleb intuisce che il killer voleva salvarlo dall’infarto, procurargli un cuore nuovo per poter continuare a “giocare” con lui, a sfidarlo. E’ questione di gruppo sanguigno. Il killer è davvero vicino. Sin troppo: basta andare per eliminazione: non rimane che lui. E’ il limite della storia che però funziona lo stesso. Apprezzata l’assenza (quasi) totale del computer. Il detective va di persona dagli indiziati, non li scova sul display. Clint è il solito amico che torna, e sai cosa aspettarti. A 72 anni ancora non rinuncia a una, non ingombrante, partecipazione amorosa e al vezzo di mostrarsi (semi) nudo. Ma teniamocelo stretto.
Barcellona. La giornalista Ángela Vidal e il suo cameraman Pablo producono un programma dal titolo Mentre tu dormi, nel quale si dedicano a reportage su diversi argomenti; per l’ultima puntata si recano in una caserma dei vigili del fuoco per mostrare come essi vivono in una nottata di servizi. Quando suona l’allarme, Ángela e Pablo seguono due pompieri fin dentro il palazzo da dove è partita la chiamata, dove nel frattempo sono giunti anche due poliziotti. Pompieri e poliziotti sono stati chiamati a causa delle grida di un’anziana signora, Conchita, per cui decidono di forzare la porta della sua abitazione. Nell’atrio dello stabile si sono riuniti diversi residenti: una coppia di anziani, Mari Carmen e la figlia Jennifer, César, una famiglia giapponese e l’amministratore Guillem.
Quando i pompieri e i due reporter entrano nell’appartamento trovano Conchita coperta di sangue, che con un urlo si lancia sul poliziotto Vicente mordendolo al collo.
1945, Preston Tucker, geniale e visionario inventore di tecnologie realizzate artigianalmente, rivela un suo progetto destinato a rivoluzionare il trasporto su quattro ruote. Le grandi compagnie cercano di fermarlo e ci riescono. È una storia vera, ricostruita sui ricordi del figlio di Tucker, ma è anche una metafora autobiografica. Bello da guardare (fotografia di Vittorio Storaro), ma non del tutto riuscito.
Bella signora intorno ai quarant’anni, con due figlie e un marito con il quale è in crisi, riesce a far rivivere il passato. Durante una festa con gli ex compagni di scuola ha un malore e sviene. Si ritrova 25 anni prima, tornata ragazzina, ma con l’esperienza dell’età matura. Peggy Sue cerca di cambiare il suo futuro. Già allora il fidanzamento con Charlie non funzionava bene. Ma il destino non si lascia manipolare e, tornata in sé, Peggy Sue capisce quanto la vita è stata generosa con lei. E rivaluta l’amore per il marito. Notevole è l’ambientazione degli anni Sessanta di Coppola.
Frank Moses è un ex agente della CIA in pensione, che vive in una villetta uguale alle altre cercando di fare una vita uguale alle altre. Purtroppo per lui e per Sarah, la ragazza ingenua e sognatrice che ha conosciuto al telefono, i segreti di stato in possesso di Frank lo hanno trasformato da strumento di morte a bersaglio dell’Intelligence: qualcuno da eliminare e in fretta. Inizia così quella che può apparire come la fuga di Frank Moses ma altro non è che il giro di reclutamento dei vecchi compagni: il vecchio Joe, il folle Marvin, il russo Ivan, lady Victoria, dopo di che la canna della pistola compie un giro di 180 gradi e la fuga si fa vendetta, la diaspora riunione, la pensione una nuova missione. Tratto dal breve fumetto DC Comics scritto da Warren Ellis e illustrato da Cully Hammer, Red è stato completamente reinventato nella sceneggiatura dei fratelli Hoeber, responsabili dell’inserimento dei compagni di ventura del protagonista e del tono divertito e alleggerito del film. Non è, infatti, come uno dei più significativi adattamenti da un fumetto che si fa apprezzare e ricordare questo film, ma piuttosto come una riuscita composizione di quadri, personaggi e situazioni provenienti da spezzoni di pellicole diverse e originalmente e gradevolmente assemblati. I film come materiali di partenza e il racconto come risultato, dunque, anziché viceversa. Ecco allora che nel bel prologo con Bruce Willis, ex supereroe in vestaglia, che prende a pugni il sacco dopo colazione, non c’è solo l’eco del suo Butch in Pulp Fiction (il pugile, la colazione, il mitra) ma c’è anche mister Incredibile e Léon (la piantina), mentre arrivati alla scena del ricevimento di gala, vien da chiedersi quando ci siamo già stati, se in un episodio cinematografico della saga di Danny Ocean o in uno televisivo di Alias. Eppure non sono citazioni soffocanti, forse non sono neppure citazioni, e c’è spazio per molto altro, compreso il sublime personaggio di John Malkovich, un panzone paranoico con un maialino di peluche sotto braccio dal quale estrarrà l’arma con cui umiliare una signorotta col bazooka, in una sequenza emblematica dell’operazione nel suo insieme, quanto a connubio tra ironia e spettacolarità. Ma Willis e Malkovich non sono i soli a portare un valore aggiunto al proprio ruolo: a loro modo lo fanno anche “la regina” Helen Mirren, con il richiamo sornione alla passione tutta inglese per il giardinaggio, e Brian Cox, con la trilogia di Bourne nel curriculum. In assoluto, oltre a qualche buona battuta e a qualche ambientazione più originale del solito, è essenzialmente a quest’alchimia tra attore e personaggio che si deve il piacere della visione. Da segnalare, in coda, un motivo di interesse anche nella figura di Sarah che, nel campionario dei caratteri femminili cinematografici, si può ascrivere come appartenente alla categoria della “palla al piede”. Con i romanzetti rosa in testa e le manette alle mani (quando non la pistola alla tempia), pretende ed ottiene di essere portata in prima linea e salvata ogni volta, contribuendo a fare del consenziente Bruce Willis un gentleman come pochi altri.
Changeling (The Changeling) è un film canadese del 1980 diretto da Peter Medak che vede come protagonista il Premio OscarGeorge C. Scott.[1] La storia è basata su una diretta esperienza di Russell Hunter – che ha firmato il soggetto del film – avvenuta anni prima durante un suo soggiorno alla Henry Treat Rogers Mansion di Denver (Colorado).
Perdute moglie e figlie amatissime in un incidente, un anziano musicista s’installa in un villone, disabitato da anni, presso Seattle (Washington). Gli fa visita il piccolo e paralitico Joseph, ucciso 70 anni prima, che non riposa in pace. Gli chiede di fare giustizia, vendicandolo, non col padre, turpe assassino a scopo di lucro e ormai morto, ma con un vecchio senatore che aveva preso il suo posto (il changeling ), ereditando una grossa fortuna. Scritta da William Gray e Diana Maddox, è una contaminazione tra film fantastico (parapsicologico), di spavento e giallo d’investigazione. Almeno nel 1° tempo ha tenuta narrativa e invenzioni suggestive (la pallina di gomma, la sedia a rotelle, la seduta spiritica). Poi le connessioni a effetti visivi ed effettacci sonori abbondano, riscattate in parte dall’istrionismo ben temperato di Scott e, nella parte del senatore miliardario, del vecchio Douglas, truce emblema del capitalismo rampante..
Los Angeles, 1928. Christine Collins, madre nubile di Walter, 9 anni, ne denuncia la scomparsa. 5 mesi dopo il Police Department di L.A. le consegna un bambino che dice di essere suo figlio. Lei non lo riconosce. Accusata di essere una madre snaturata, poi di paranoia, è internata illegalmente in manicomio dove si praticano elettrochoc e altre sevizie. Resiste. Grazie a un ministro presbiteriano e ad altri che da tempo denunciano corruzione, violenze, illegalità del LAPD e il dispotismo marcio del sindaco che lo copre, è liberata e i responsabili denunciati. Si trova e si arresta intanto uno psicopatico pedofilo e pluriassassino di bambini. I due processi, che si svolgono in parallelo, appassionano l’opinione pubblica. È il film più cupo e spietato del vecchio Eastwood e, nella sua gelida emotività, il più anomalo. L’ha scritto J. Michael Straczwinski che, passando mesi negli archivi comunali, ha scoperto il caso parallelo del depravato assassino. La sequenza che ne descrive l’impiccagione è di impassibile realismo. Nella realtà fu condannato all’ergastolo. Una storia vera di 70 anni fa, qua e là corretta, diventa una delle più impietose radiografie del mondo USA mai uscite da Hollywood (Universal). Fotografia: Tom Stern. Superba interpretazione della Jolie. ( Changeling = bambino che si pensa sia stato lasciato al posto di un altro, rapito dalle fate).
Fascinoso disc-jockey di una radio californiana si porta a letto un’ammiratrice schizoide che comincia a perseguitarlo. 1° film di Eastwood regista, su sceneggiatura di Jo Heins, scopiazzata da James Dearden per Attrazione fatale . Storia dove prevalgono atmosfere e situazioni cariche di suspense, mistero, incubo, erotismo morboso. Il regista Don Siegel appare nel ruolo di Murphy il barista. Misty è un motivo del pianista Errol Garner.
Per arrivare al titolo mondiale pugile bianco ebreo deve pagare pedaggio al racket, ma si ribella. Con Stasera ho vinto anch’io di R. Wise, uno dei più duri e realistici film sul mondo della boxe americana, con qualche eccesso melodrammatico nella sceneggiatura di A. Polonsky. Ottimo Garfield, anche produttore del film e candidato all’Oscar, splendido bianconero di J. Wong Howe, efficace colonna sonora di R. Parrish. Finale di compromesso. Oscar per il montaggio.
Dopo una sanguinosa guerra tra bande della Yakuza a Tokyo, il gangster Yamamoto parte per Los Angeles dove abita il fratello minore, coinvolto nello spaccio della droga e in lotta con altre bande di neri, ispanici e paisà. 1° film di T. Kitano in trasferta, ma coerente al suo pessimismo atroce di fondo, che qui si riversa su tutti senza distinzioni etniche, e al suo codice di violenza, che anche qui sfuma in malinconia nell’illusoria ricerca di una fratellanza. Non è sicuramente uno dei suoi migliori film, ma forse uno dei più dolorosi, nonostante la sotterranea ironia.
La battaglia di El Alamein (23-10/1-11-1942), 100 km a ovest di Alessandria d’Egitto dove le forze armate italo-tedesche del generale Rommel furono sconfitte dalla soverchiante ottava armata britannica del generale Montgomery, raccontata dal basso, dal punto di vista di una compagnia della divisione Pavia, inchiodata alla sabbia del deserto in un caposaldo isolato nel settore sud. Quasi tutto funziona in questo film bellico che è anche una storia di formazione, leggibile a diversi livelli. L’ha scritto un regista che sa dosare dramma e commedia, azione e riflessione, disegno di personaggi (tutti con le “facce giuste”) e cinema di denuncia nel raccontare la dolorosa crescita e presa di coscienza del V.U. (Volontario Universitario) Serra (Briguglia) anche se il sergente Rizzo (Favino) è “la figura sulla quale si gioca il delicato equilibrio del film” (A. Crespi). Perché “quasi tutto”? La disuguale tenuta espositiva alterna parti felici (la prima mezz’ora) ad altre meno riuscite (il notturno attacco britannico). Inoltre, come spesso succede ai registi italiani, Monteleone non ha abbastanza fiducia in sé stesso e si preoccupa troppo di spiegare, di ribadire nei dialoghi quel che era già stato detto nelle immagini. Fotografia: Daniele Nannuzzi, figlio di Armando. Montaggio: Cecilia Zanuso. Girato in Marocco.
Una vedova è rimasta traumatizzata dalla scomparsa prematura della sua bambina. Durante una festa per i piccoli ospiti di un orfanotrofio, rapisce una bimba che è la copia della figlia. Il fratellino la libera, deruba la vedova e ne incendia la casa. È un evidente rifacimento della fiaba di Hânsel e Gretel.
Una spedizione geologica porta alla luce il sarcofago di un faraone assassinato oltre 3000 anni fa dal fratello e lo espone a Londra. Ma il sarcofago è vuoto. La mummia, tra lo zombie e il vampiro, è tornata in vita e compie i suoi crimini di vendetta. 6° o 7° film sull’argomento, è una minestra riscaldata che si salva solo per gli ultimi 20 minuti che hanno un certo swing. L’attore che fa la mummia è D. Owen. Henry Younger, sceneggiatore, è uno pseudonimo del regista.
Dal romanzo Jewel of the Seven Stars di Bram Stoker. Vent’anni dopo che una mummia femminile è stata trasportata in Inghilterra dall’Egitto, i componenti della spedizione sono uccisi a uno a uno, mentre lo spirito della principessa defunta s’è impossessato della figlia dell’archeologo capo. Intelligente tentativo di proseguire la saga fantastica della mummia senza farla deambulare, in una miscela accorta di horror ed erotismo. Il regista Holt morì durante le riprese e fu sostituito dal produttore Michael Carreras della Hammer. Rifatto nel 1980 con Alla trentanovesima eclisse .
Tre archeologi penetrano nella tomba della principessa egiziana Ananka, sfidando un antico interdetto. Tre anni dopo giunge in Inghilterra un egiziano con la mummia di un sacerdote. Remake britannico del celebre film del ’32 con Boris Karloff. Inizio lento, ma poi il racconto cambia marcia e l’ultima mezz’ora è mozzafiato.
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