Verso il 1880, in un penitenziario dell’Arizona, un ingenuo direttore progressista cerca di migliorare le condizioni dei detenuti e chiede la collaborazione di un carcerato. Costui sembra accordagliela, ma in realtà lo fa per attuare un sanguinoso piano di fuga. Il suo progetto riesce, ma ci sarà la sorpresa finale.
Di passaggio a Roma, un giovane scrittore americano assiste al tentato omicidio di una donna. Il sospettato n. 1 è proprio lui, ma l’assassino colpisce ancora più volte e tenta di uccidere lo stesso scrittore. La polizia brancola nel buio. 1° film del 30enne Argento che conserva ancora, come nei 2 successivi, quella struttura del giallo (chi è il colpevole) che da Suspiria (1977) in poi sarà polverizzata e abbandonata per alcuni anni. Oltre alla parte visiva, affidata alla fotografia di V. Storaro, hanno grande importanza suoni, rumori, amplificazioni e distorsioni.
L’eccentrico professor Abronsius (Jack Mac Gowran), autore di importanti studi sul fenomeno del vampirismo, arriva con il suo buffo e svanito assistente Alfred (Roman Polanski) nei pressi di un castello in Transilvania: naturalmente a caccia di vampiri. Una volta penetrati all’interno, Alfred nota ben presto la bella locandiera Sarah (Sharon Tate, allora compagna di Polanski), e quando questa verrà rapita dal conte von Kroloc, i due partiranno per portarla in salvo tra mille peripezie. Nonostante la trama possa trarre in inganno, fin dal titolo italiano del film (che è conosciuto anche come Dance of the Vampires, Pardon Me, Your Teeth Are in My Neck) si comprendono le intenzioni del regista, non certo interessato a realizzare un horror, ma nemmeno una vera e propria parodia del genere.Per favore… non mordermi sul collo vive del brillante umorismo ebreo-polacco del suo autore, riuscendo a bilanciare con equilibrio parodia, citazioni filologiche e tensione autentica per dare vita a qualcosa di completamente nuovo. Un qualcosa che lo ha reso capostipite di una serie di parodie farsesche e dissacranti intese a esorcizzare con acume e ironia figure mitiche ed eroiche della tradizione. È dal professor Abronsius e Alfred che derivano allora il dottor Frederick Frankenst(e)in e Igor del Frankenstein Junior di Mel Brooks. Ricco di trovate brillanti e comiche (come ad esempio il figlio del conte, vampiro omosessuale invaghito di Alfred) Per favore… non mordermi sul collo è la prima commedia, il primo film a colori e girato con notevoli capitali (americani) per il trentatreenne Polanski, in questa occasione anche di fronte alla macchina da presa insieme alla sua compagna Sharon Tate (tre anni prima della terribile strage ad opera della banda di Manson). Accompagnato – come tutte le prime opere del regista – dalle musiche del polacco Krysztof Komeda, il film è stato portato sui palcoscenici di Vienna dieci anni dopo in una versione teatrale diretta dallo stesso Polanski.
Scoperta l’identità degli assassini di suo padre, diventati pezzi grossi, li elimina a uno a uno senza sporcarsi le mani. Quando uccide anche il loro capo, però, si perde. Thriller violento ad alta conflittualità erotica che conferma in Fuller il regista più “elisabettiano” tra gli indipendenti di Hollywood. Terribilmente sconsolato, brutale, implacabile nel rifiutare distinzioni nette tra uomini della legge e criminali, ma sostenuto da un segreto lirismo. Le vere vittime di questa giungla di cemento sono i bambini.
Un film di Neil Burger. Con Bradley Cooper, Robert De Niro, Abbie Cornish, Anna Friel, Andrew Howard.Thriller, durata 105 min. – USA 2011. – Eagle Pictures uscita venerdì 15aprile 2011. MYMONETRO Limitless valutazione media: 2,90 su 112 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Eddie Morra è uno scrittore in crisi depressiva, incapace di cominciare il primo romanzo che gli è stato commissionato. Per questa sua tendenza all’autocommiserazione e al boicottaggio autoindotto, la fidanzata decide di lasciarlo. Lo stesso giorno incontra per caso Vernon, il fratello della donna con cui è stato sposato per poco tempo molti anni prima. Per placare i suoi tormenti, Vernon, che è un ex-spacciatore, gli offre un farmaco in via di licenza in grado di aumentare le capacità dei recettori neuronali ed attivare tutte le aree del cervello. Il farmaco ha subito un effetto incredibile su Eddie, facendogli non solo recuperare l’autostima perduta ma anche tutti i ricordi più distanti e reconditi. Quando l’effetto svanisce, decide di tornare subito da Vernon per farsi dare altre pillole, ma una volta raggiunto il suo appartamento, trova l’ex-cognato morto sul divano, ucciso da qualcuno interessato allo stesso farmaco. Il cervello del cinema e quello del suo spettatore non funzionano in modo troppo dissimile. Oltre al fatto che molte delle tecniche utilizzate dai film (ad esempio, il primo piano e il flashback) appaiono come la visualizzazione diretta di alcuni processi mentali (l’attenzione e il ricordo), entrambi si dice siano capaci di sfruttare solo una piccola parte delle loro potenzialità. Cosa significa quindi sfruttare al massimo queste capacità, neuronali o estetiche che siano? Per il protagonista di Limitless significa diventare improvvisamente un genio poliglotta della letteratura e dell’alta finanza. Per il suo regista Neil Burger, significa invece poter utilizzare liberamente e senza vincoli tutti gli effetti più esaltanti e barocchi maturati dall’estetica del videoclip. Dopo aver lavorato con iridi ed effetti seppia per dare una patina da favola d’altri tempi agli illusionismi del mago Eisenheim nella Vienna di fine Ottocento (The Illusionist), stavolta Burger si serve di espedienti tecnici più all’avanguardia, attraverso un impiego ardente e ardito di fisheye, morphing e zoom. E proprio in quella infinita zoomata in avanti dei titoli di testa, con la quale attraversiamo tutta Manhattan come in una mise en abyme, possiamo leggere l’intera configurazione del film. Che altro non è se non una corsa frenetica fra vari generi, una dissolvenza continua fra molteplici suggestioni narrative, sovraccaricate dalle eccitazioni di una sostanza stupefacente. Ci sono davvero poche barriere non varcate in Limitless (la fantascienza, l’action movie, il thriller), così come molti sono i luoghi tipici dispiegati nell’arco del racconto (la cospirazione politica, la mafia russa, l’alta finanza, la dipendenza dalle droghe). Ognuno di questi input non è tanto finalizzato alla costruzione di una sceneggiatura rigorosa e complessa, quanto a introdurre nuovi stimoli per permettere al “cervello” della macchina da presa di Burger di perseguire un continuo esercizio di stile concitato e galvanizzante. Limitless è perciò, fin dal suo titolo, quasi un manifesto per l’estetica postmoderna, il trionfo di un cinema medio votato principalmente all’esaltazione dei sensi e all’immersione continuativa. E tuttavia, se il film funziona è proprio in virtù della sua “medietà” esibita. Nella storia di un mediocre scrittore che, grazie a una pillola sintetizzata da un ex-spacciatore, diventa un genio incredibilmente attivo e sagace, possiamo leggere anche il percorso creativo di un film con evidenti falle di sceneggiatura e ambiguità tematiche, che, attraverso un utilizzo brillante degli artifici visivi dell’avanguardia pop, risulta comunque capace di vitalizzare e stupire il suo spettatore, annullando la sua soglia di credenza e la percezione del passare del tempo.
Una delle leggendarie e più rappresentate pagine del West. È la storia dell’altalenante amicizia tra l’integerrimo sceriffo Wyatt Earp e il tormentato Doc Holliday, sregolato ex dentista afflitto dalla tubercolosi. Di fronte alla minaccia dei Clanton e dell’antipatico pistolero Johnny Ringo, Wyatt metterà fine alla contesa con l’epico scontro al “corral”, il “recinto dei cavalli” dove è fissato il cruento appuntamento, con l’aiuto dei suoi fratelli, ma soprattutto dell’implacabile Doc. Lontano dall’ineguagliabile poesia di My Darling Clementine, la versione di John Sturges non è per questo meno valida, forte di una solida sceneggiatura e di un buon cast di attori, tra i quali spiccano i titanici protagonisti: un bravo Burt Lancaster nei panni di Wyatt Earp, ma schiavo d’un personaggio di maniera, costruito in modo stereotipato e poco interessante; e un intenso Kirk Douglas che, sempre a suo agio in ruoli “maledetti”, è un Doc più umano e ironico del sublime Victor Mature, malinconico nel contendere l’amore per Kate all’avversario Ringo, ma la cui partecipazione alla sfida non rappresenterà l’ultimo slancio di una natura tesa all’autodistruzione, bensì una scossa energica e salutare. Nella sua inattesa drammaticità, è lui il vero protagonista della vicenda, vivo e imprevedibile rispetto allo scolorito sceriffo, deliziosamente “nichilista” nella sua adesione ad una causa che non gli appartiene (se si eccettua l’aspetto del contenzioso privato con Ringo) e, in questo senso, primogenito di quella indisciplinata figliolanza che il buon Sturges avrebbe partorito tre anni dopo ne I magnifici sette. Nel complesso emerge un buon disegno narrativo, a volte rigido e prolisso, ma efficace nei suoi inaspettati risvolti umani e drammatici, che fanno del suo regista non un semplice “artigiano”, come maligna molta critica, ma un vero professionista della settima arte.
Quando il suo migliore amico viene trovato misteriosamente ucciso, il detective Mike Hammer non ha un attimo di esitazione: con l’aiuto della sua bionda e affascinante compagna scoprirà gli assassini e si farà giustizia. Le indagini lo portano presto a mettere gli occhi su una losca clinica per patologie sessuali… Trasposizione, non priva di suspense, del primo grosso successo librario di Mickey Spillane.
Jessica Drummond è la più ricca proprietaria di Tombstone e rafforza il suo dominio con la presenza di 40 uomini alle sue dipendenze. Arrivano in paese Griff Bonnell e i suoi due fratelli, agenti federali. Ultimo dei 4 western di Fuller, visionario, originale sino alla stravaganza, “non ha il passo sicuro dei capolavori bensì la succosa consistenza dei modelli di scuola” (C. Caprara). Da mettere vicino a Johnny Guitar, e non solo per le analogie tra Stanwyck e Crawford, ma per l’oltranzismo stilistico che contesta la logica dell’intreccio. Adorato da Godard in procinto di passare alla regia con A bout de souffle.
Jake Hoyt è un giovane poliziotto, idealista e di belle speranze, che è stato appena assegnato alla sezione narcotici del dipartimento di polizia di Los Angeles. Animato dal fuoco sacro della giustizia, Jake ha un solo giorno per dimostrare di avere la stoffa per quel lavoro. A giudicarlo è il sergente Alonzo Harris, veterano della sezione antidroga, che lavora da tredici anni nei quartieri più caldi della città, violente centrali di spaccio, animate da energumeni sudamericani a suon di rap e proiettili. Il problema è che la pratica con i criminali ha reso la pelle di Alonzo fin troppo dura. Muovendosi costantemente in bilico tra legalità e corruzione, il sergente trasforma il giorno di addestramento dell’ingenua recluta in un cinico e crudele gioco all’ultimo sangue. Dove solo i più forti vincono. Di certo il giovane Jake non avrebbe mai immaginato che il suo “training day” si sarebbe trasformato in un incubo, per mano di quella stessa istituzione che si è impegnato a servire con tutto se stesso. All’inizio del film lo vediamo emozionato e pieno di entusiasmo, mentre saluta la moglie e la figlia di pochi mesi, con la faccia da bravo ragazzo di Ethan Hawke. Sul finale è un uomo, ma il prezzo da pagare è fin troppo alto. Il suo rito di iniziazione è a cura di un Caronte fin troppo navigato, un massiccio Denzel Washington, giacca di pelle nera e ciondoloni pacchiani al collo. Identico, e non solo nell’aspetto, ai criminali che incastra. Non senza prima approfittare dei benefici illeciti delle loro condotte. È la netta e spietata contrapposizione tra i caratteri e le aspirazioni dei due protagonisti a reggere l’intero film e conferirgli interesse. Una dicotomia, quella tra poliziotto idealista e poliziotto marcio (e quella, così americana, tra bene e male), già vista tante volte sullo schermo, ma qui rinnovata grazie al talento dei due attori principali, entrambi perfetti nei ruoli assegnati. Con un Denzel Washington che ha una marcia in più nei panni del cattivo e si è meritato l’Oscar come miglior attore protagonista, battendo il collega Hawke, anche lui nominato. A dirigerli, con piglio deciso e professionale, è l’esperto di action movies Antoine Fuqua, con una gavetta nei videoclip evidente anche nelle scelte musicali a base di rap, che ben caratterizzano i quartieri selvaggi e periferici in cui è ambientata la storia (e dove è stata girata, con tanto di permesso dalle vere gang locali), e nei camei di volti noti di quell’universo musicale, da Snoop Doggy Dogg a Macy Gray, passando per Dr. Dre. Il regista sa come conferire ritmo, tensione e adrenalina alle situazioni, anche a quelle più violente, coadiuvato da un rapido montaggio. Ma la contrapposizione tra i due protagonisti si misura meglio sul piano verbale che su quello fisico e lo sceneggiatore David Ayer fa un ottimo lavoro, scrivendo personaggi così ben caratterizzati ed efficaci, dialoghi serrati e battute da manuale, seppur cadendo in qualche forzatura logica nello svolgimento dell’intreccio. I riflettori sono tutti puntati su un mondo che più sporco non si può, proprio a causa di chi dovrebbe tenerlo pulito. A confronto dei quali gli spacciatori, animati dalla stessa brama di denaro e potere degli sbirri, sembrano quasi più umani, almeno sul piano dell’onore. E allora, di fronte a tanto cinico pessimismo, ci saremmo auspicati un finale meno conciliante, meno compromesso con la logica dello show business.
Ultima impresa bellica del non più giovane, ma valoroso, sergente Highway, detto Gunny, che ha una dura carriera alle spalle nei Marines, Corea e Vietnam. Nel 1983 gli viene dato l’incarico di formare, da un manipolo di sfaticati, un comando di “uomini veri”. Nel frattempo incontra Aggie, la sua ex moglie che lo aveva lasciato perché trascurata; l’amore tra loro è sempre vivo. Arriva un allarme vero: andare a combattere sull’isola di Grenada. L’impresa darà delle belle soddisfazioni a Gunny, che si riprenderà la moglie e andrà a coltivare avocado.
Steve Everett è un giornalista che è già stato cacciato dal New York Times per la sua incapacità di tacere di fronte ai potenti. È stato un alcolista e ha una famiglia di cui si occupa poco. È questo tipo d’uomo che si trova ad affrontare il caso di un condannato a morte accusato di aver ucciso una donna incinta. A partire da un’intervista, Everett comincia a riflettere sul caso e scopre una serie di incongruenze. Eastwood spezza una lancia contro la pena di morte e lo fa rivisitando il genere e ponendo un altro mattone dell’edificio che da tempo va costruendo su personaggi che sentono su di sé il peso degli anni e delle miserie umane. Il plot sa di già visto, ma vedere Clint in azione è sempre un piacere perché la ricerca delle sfumature e l’apoteosi dell’understatement gli sono ormai connaturate
Siamo in Alaska nel 1900: si è scatenata la “corsa all’oro” e sorgono come funghi le città minerarie, popolate solo da uomini. Sam McCord, che scava insieme ai fratelli George e Billy, un giorno va in città a prendere la fidanzata di George, ma la trova già sposata. Ingaggia allora una giovane ballerina di saloon, Michelle, per sostituire l’altra. Ma la ragazza s’innamora di lui, ed egli stesso ne è preso. Fra i tre minatori nascono allora vivaci rivalità di gelosia e d’interesse che si concludono con la gigantesca scazzottata finale.
Un impresario viene ingiustamente accusato dell’omicidio di una ragazza che proteggeva e che l’aveva abbandonato per tentare la fortuna ad Hollywood. Riuscirà a scoprire il vero assassino e chi tramava per farlo arrestare.
Tornato a casa dopo la guerra, Nick trova il suo paese in balia delle speculazioni di Mike, un grossista di frutta, responsabile tra l’altro dell’incidente che ha ridotto all’invalidità il padre di Nick. Il giovane affronta coraggiosamente il disonesto commerciante.
La politica estera di distensione verso il blocco comunista promossa dal presidente americano Lyman Jordan (Frederich March) incontra resistenze negli ambienti militari. Alla vigilia della conclusione di un trattato per il disarmo nucleare, il pluridecorato generale James Scott (Burt Lancaster), Capo di Stato Maggiore, dà via libera ad un piano per rovesciare il governo e destituire il presidente. Ma il colonnello Casey (Kirk Douglas), già collaboratore del generale, insospettito dallo strano comportamento di alcuni ufficiali scopre l’esistenza di una base militare segreta in una zona desertica del Texas e non esita ad avvertire il presidente dell’imminente pericolo. Mentre gli uomini di governo lavorano febbrilmente per sventare il golpe che dovrebbe aver luogo nei primi giorni del mese di maggio, poichè si teme che le prove del tradimento possano venire a mancare, a Casey è affidato l’ingrato compito di sottrarre all’ex amante (Ava Gardner) del generale alcune lettere che ne comprometterebbero irreparabilmente l’immagine di fronte alla pubblica opinione. Nelle intenzioni di Kirk Douglas il film doveva terminare con una sorta di riabilitazione eroica di Scott: il generale, sconfitto, si allontana in macchina e perde la vita in un incidente stradale che forse maschera un suicidio. Ma altrettanto buona è la conclusione poi adottata.Robusto film di “fantapolitica” Sette giorni a maggio uscì poco tempo dopo l’assassinio del presidente Kennedy. La solida sceneggiatura riflette in maniera asciutta e consapevole il dibattito politico ed il clima di guerra fredda di quel periodo e ne fa propri i timori, le speranze, le utopie. Il Pentagono non collaborò a questa dura storia che vedeva contrapposti un generale fanatico guerrafondaio ed un colonnello democratico, ma la presidenza Kennedy mostrò interesse e diede alla troupe la massima assistenza e la possibilità di ricostruire fedelmente gli alloggi privati della Casa Bianca.
Una coppia cerca di dare un po’ di pepe al matrimonio nella loro casa al lago. Ma durante un gioco sessuale l’uomo muore e la donna rimane ammanettata al letto. Riuscirà a salvarsi?
Sempre meno redditizio, il traffico di droga viene convertito dai cartelli in traffico di essere umani. Lungo il confine messicano e in mezzo ai clandestini si insinuano terroristi islamici che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti. Un attentato-suicida in un supermercato texano provoca una reazione forte del governo americano che incarica l’agente Matt Graver di seminare illegalmente il caos ristabilendo una parvenza di giustizia. Graver fa appello ancora una volta ad Alejandro, battitore libero guidato da una vendetta che incontra vantaggiosamente le ragioni di Stato. Alejandro, che se ne infischia della legalità, rapisce la figlia di un potente barone della droga prima di diventare oggetto di una partita di caccia orchestrata dalla polizia messicana corrotta e da differenti gruppi criminali desiderosi di mettere le mani sull’infante. Diventata un rischio potenziale, bisogna liberarsene. Ma davanti a una scelta infame, Alejandro rimette in discussione tutto quello per cui si batte e tutto quello che lo consuma da anni.
Al confine tra USA e Messico, Kate, agente dell’FBI esperta in rapimenti, è inserita in una task force speciale in missione contro i narcotrafficanti, al comando di Matt, un carismatico agente di machiavellico pragmatismo e cinico mercenario, affiancato da un enigmatico e ambiguo ex magistrato riciclato in giustiziere. Thriller d’azione, film di genere ma d’autore, con un percorso narrativo di situazioni sempre più violente che precipitano Kate in un vortice di intrighi, corruzione e degrado morale, nel quale non si fida più di nessuno, è spinta a varcare i limiti imposti dalle regole e dalla legge (ma anche dalla sua etica personale) e dal quale non sa come uscire. Splendido tema musicale di Jóhann Jóhannsson a scandire i momenti di maggiore tensione, minaccioso, lugubre, funereo, ansiogeno. Bel trio di protagonisti, funzionali.
Verso il 1880, nel Nuovo Messico, il latifondista John Chisum ha condotto una guerra spietata contro i suoi rivali servendosi di vari pistoleri fra cui Pat Garrett e Billy Bonney, detto Billy Kid. All’inizio del film, però, Chisum si è accordato col governo federale e ha cessato le ostilità; Billy, ingenuo, non ha capito e continua ad uccidere mentre Garrett, più anziano e realista, diventa sceriffo e accetta l’incarico di eliminare l’altro che un tempo era suo amico. Pat riesce nella missione sorprendendo Kid con la sua ragazza, ma poi spara all’immagine che vede riflessa nello specchio. Peckinpah racconta abbastanza fedelmente l’episodio storico che ha ispirato molti western insistendo ancora una volta sulla fine dell’Ovest leggendario. In una parte di contorno appare il cantante Bob Dylan che è anche l’autore delle musiche.
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